Si vanno moltiplicando prese di posizione, sia di fonte CGIL sia di fonte politica, le quali esprimono giudizi sulla recente riforma del processo del lavoro, approvata dal Parlamento lo scorso 3 marzo dopo due anni di lavoro, tanto più lividi, quanto meno fondati. La ricostruzione normativa propalata da tali fonti non ha nessun riscontro nei contenuti della nuova legge, di cui mi onoro di esser stato relatore in Senato. Essa non riguarda i licenziamenti, la cui disciplina rimane immutata. Essa si limita a introdurre nel nostro ordinamento lavoristico una possibilità aggiuntiva per le parti contrattuali: quella di risolvere le loro controversie non solo ricorrendo a un giudice, ma anche a un collegio arbitrale. Ciò significa risparmiare tempo (in Italia i processi del lavoro durano normalmente nove anni!), ottenendo in tre mesi una soluzione certa e affidabile del caso: ed è noto come sia la parte più debole a essere penalizzata da riti e procedure di estenuata lentezza e di barocca complicazione. Nel procedimento arbitrale, così come disegnato dalla legge, non c’è nessun rischio di indebolimento delle tutele a favore del lavoratore. Sono previsti tre tipi di arbitrato. Il primo si ha quando le parti affidano ai collegi di conciliazione costituiti presso le Direzioni provinciali del lavoro dalle associazioni sindacali e datoriali il compito di risolvere la controversia con un lodo, a loro scelta conforme a diritto o a equità: e fin qui nessun rischio è ravvisabile, stante la natura collettiva dei soggetti che esprimono gli arbitri. Il secondo si svolgerà secondo le modalità che saranno definite dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative: e anche qui nessun rischio è immaginabile, visto il presidio confederale. Il terzo si ha quando le parti, assistite da avvocati, costituiscono un collegio arbitrale di tre persone, due scelte da ciascuna di loro con un presidente scelto tra professori universitari di diritto o avvocati cassazionisti, affidandogli il mandato a decidere secondo diritto o secondo equità; in questo caso, la clausola compromissoria – cioè la previsione di andare in arbitrato – può essere apposta nel contratto individuale solo se ciò sia previsto dai contratti collettivi di categoria o da accordi interconfederali ovvero solo se certificata espressamente dalle commissioni di certificazione istituite presso soggetti ad alta garanzia come le Direzioni provinciali del Lavoro o gli enti bilaterali attivati dalle associazioni datoriali e sindacali o le Università: ancora una volta, prevedere che sedi simili possano farsi complici di oscure operazioni a danno dei lavoratori è davvero impensabile. Né preoccupi il ricorso all’equità: è una nozione giuridica che consente più attenzione alla specificità del singolo caso controverso, ma sempre nel rigoroso rispetto dei principi generali dell’ordinamento (arbitrato non è arbitrio, è stato ben detto).
Ripristinata la verità dei dati, c’è da chiedersi perché allora si tenti di trasformare un istituto come l’arbitrato, diffusissimo in tutte le democrazie industriali dell’Occidente e considerato da sempre vettore di coesione sociale e strumento di valorizzazione dell’autonomia contrattuale delle parti e del ruolo del sindacato, in una mostruosa congiura contro i lavoratori, i loro diritti, la storia dei loro movimenti. Credo purtroppo che la risposta risieda nella sinistra volontà di accendere il conflitto sociale in Italia, proprio quando la Grande Crisi ha visto prevalere nelle condotte degli attori economici e istituzionali una cultura orientata al senso di responsabilità e autenticamente comunitaria. Negli attacchi violenti di tanti commentatori riaffiora una semantica dell’odio sgradevole e pericolosa: che non a caso si accanisce su una legge sull’arbitrato che recupera espressamente i testi di Marco Biagi, portandone a compimento il disegno riformatore.