Giampiero Castano, settant’anni molto ben portati, nativo di Somma Lombardo, in provincia di Varese. Un uomo ben noto fra sindacalisti, manager e imprenditori, specie nel mondo dell’industria metalmeccanica. Nonché fra gli amministratori locali e i parlamentari eletti in territori segnati da crisi industriali. Ma quasi sconosciuto al grande pubblico. Almeno fino a sabato 2 febbraio, quando su Twitter è cominciato ad apparire il suo nome. “Giampiero Castano se ne va dal #mise. Sempre sul pezzo. Lo ringrazio per averci messo, in lunghi anni, tanta fatica e tanta intelligenza”. Così ha tuittato Pier Luigi Bersani. Maggiori dettagli, come dicono i giornalisti americani, nel tweet di Carlo Calenda: “Dopo molti anni a capo dell’unità di gestione dei tavoli di crisi, ha lasciato il #mise Giampiero Castano. Un assoluto fuoriclasse capace di ritmi di lavoro incredibili”. E poi una stoccata politica: “Ovviamente @luigidimaio ha pensato di poterne fare tranquillamente a meno. #poveromise”.
Cosa ha portato due uomini per vari aspetti anche notevolmente diversi come Calenda e Bersani a pronunciarsi pubblicamente con giudizi convergenti sulla stessa persona? Semplice. Entrambi, anche se in contesti politici differenti, sono stati titolari del Ministero che si erge all’angolo tra via Veneto e via Molise. Per l’esattezza, sono due dei nove ministri dello Sviluppo economico che, nell’arco di una decina d’anni, hanno avuto a che fare con Castano nella sua veste di responsabile della cosiddetta task force sulle crisi aziendali, insediata presso il Ministero stesso.
Ma perché queste attestazioni di stima proprio adesso? Indirettamente, ce lo racconta lo stesso Castano. “Il mio contratto di collaborazione con il Ministero dello Sviluppo economico scadeva il 31 gennaio 2019. Negli ultimi mesi dell’anno scorso, ho avvisato al Mise chi di dovere. Mi fu risposto che senz’altro avrebbero preso la cosa in considerazione. Ma siamo arrivati a fine gennaio senza che nessuno mi dicesse più nulla. E non c’è stato nessuno che abbia preso anche solo l’iniziativa di salutarmi. Niente di niente. Non mi restava che riempire i famosi scatoloni e comunicare il tutto a chi mi ha conosciuto per motivi connessi al mio incarico (oltre che a qualche vecchio amico) per evitare che continuassero a considerarmi attivo al Mise.”
A proposito di vecchi amici: per fare questa intervista, raggiungiamo Castano in un albergo romano, non lontano dal Ministero, e lo troviamo a colloquio con Gianfranco Borghini che, come vedremo, è stato il suo predecessore in materia di gestione di crisi aziendali.
Venerdì 8 febbraio l’Istat ha diffuso il dato secondo cui, a dicembre 2018, l’indice della produzione industriale è diminuito in termini tendenziali, ovvero rispetto a dicembre 2017, di un allarmante 5,5%. Ebbene, alle soglie di quella che si annuncia come una nuova fase di difficoltà economiche, il Ministero dello Sviluppo economico, guidato da Luigi Di Maio, ha deciso di poter fare a meno della collaborazione dell’uomo che si è affermato, negli anni, come uno dei maggiori esperti di crisi aziendali che siano mai stati al servizio del Governo italiano. A Castano chiediamo: “Da quanto tempo lavorava al Mise?”
“Da 11 anni e 3 mesi. Sempre con un contratto di collaborazione.”
E come si chiamava esattamente il suo incarico?
“Dirigevo quella che, ufficialmente, si chiama Ugv, cioè Unità gestione vertenze. Ma, fuori dal Ministero, tutti l’hanno sempre chiamata task force sulle crisi aziendali.”
E come è nato questo incarico?
“Nel novembre del 2007 mi chiamò Bersani che, nel secondo Governo Prodi, era Ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato, come allora si intitolava il Ministero. La task force era nata, inizialmente, a Palazzo Chigi, nel senso che operava sotto le ali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Poi fu spostata al Mise. E io, poco dopo il mio arrivo, ebbi il compito di sostituire Gianfranco Borghini, che aveva diretto la squadra nel periodo di Palazzo Chigi.”
Cosa aveva fatto prima?
“Due o tre mestieri diversi. Il mio primo lavoro, iniziato mentre ancora frequentavo la facoltà di Economia e Commercio all’Università Cattolica di Milano, fu quello di impiegato all’Enel. Ma era un’attività che non mi appassionava. Nel frattempo, mi laureai con Bruno Manghi, con una tesi in sociologia del lavoro. Un paio d’anni dopo, fu lo stesso Manghi a mettermi in contatto conla Fim-Cisl, a livello milanese. E così iniziai la mia seconda vita, quella di sindacalista, come responsabile Fim della zona di Gallarate, sempre in provincia di Varese.”
Ma come, lei non era della Fiom-Cgil?
“Il fatto è che, dopo un breve periodo, a causa di divergenze politiche, uscii dalla Fim. Allora, negli anni ’70, Fim, Fiom e Uilm, pur mantenendo una distinta vita di organizzazione, avevano creato la Flm, la Federazione lavoratori metalmeccanici, che univa i tre sindacati nella loro attività contrattuale. Per qualche mese, dopo la mia uscita dalla Fim, rimasi in una specie di limbo in ambito Flm. Poi mi offrirono un incarico nella Segreteria della Fiom di Varese. Successivamente, passai a quella della Lombardia e, infine, approdai alla Segreteria nazionale della Fiom dove ho seguito il settore degli elettrodomestici e quello della Ict, la Information and Communication Technology. Infine, nel 1998, quando Claudio Sabattini era già da qualche anno Segretario generale, mi dimisi dall’incarico e lasciai la Fiom.”
E poi?
“Poi cominciò la mia terza vita, quella di capo del personale in aziende del settore della Ict. Con questo incarico, ho lavorato prima alla Olivetti, quando il suo Amministratore delegato era già Roberto Colaninno, e poi, dal 2003, alla romana Engineering.”
Posso dunque immaginare che questa pluralità di esperienze manageriali e sindacali che la caratterizzava sia stato un elemento importante nella scelta di Bersani. Ma qui mi viene una curiosità: dopo queste esperienze professionali, come fu il suo impatto con il modo di operare del Ministero di via Veneto?
“Quando arrivai al Mise, che, lo ripeto, allora si chiamava ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato, non sapevo da che parte girarmi. Avevo l’imprimatur del Ministro, ma gli uffici mi consideravano un intruso. E, d’altra parte, il modo di lavorare della Pubblica Amministrazione era diverso sia da quello del sindacato che, ancor più, da quello di una grande azienda.”
“Tuttavia – e tengo molto a quel che sto per dire – mi resi conto che al Ministero c’erano dirigenti e funzionari di grande professionalità, sul piano individuale. E così, ho cominciato a capire che la strada giusta era quella dell’autonomia per la mia task force. Autonomia, voglio dire, non rispetto ai Ministri, titolari dell’indirizzo politico di Governo, che, di volta in volta, si succedevano, ma, nei limiti del possibile, rispetto all’amministrazione e alle sue prassi consolidate. Autonomia, ancora, perché ho cominciato anche a capire che le crisi aziendali si possono gestire se si conquista la flessibilità necessaria per tenere in conto le diverse componenti che sono alla base delle crisi stesse.”
Ci aiuti a capire: qual è stata, allora, la caratteristica principale del modo di agire della task force da Lei diretta?
“Per rispondere a questa domanda vorrei fare una distinzione preliminare fra due ministeri: quello del Lavoro e quello dello Sviluppo Economico. Di fronte a una crisi aziendale di rilievo nazionale, il ministero del Lavoro agisce seguendo i binari della normativa esistente. Essenzialmente, opera attraverso la decisione di erogare ammortizzatori sociali come la Cassa integrazione straordinaria o i Contratti di solidarietà.”
“Il di più del ministero dello Sviluppo consiste, invece, nel fatto che questo Ministero è chiamato a intervenire non solo sugli effetti di una data crisi aziendale, allo scopo di ridurre o azzerare la possibile perdita di posti di lavoro. Con la task force il ministero dello Sviluppo doveva, innanzitutto, mettere a fuoco le cause della crisi, e poi tentare di intervenire su di esse. Perché, come è noto, le cause delle crisi aziendali possono essere molteplici: crisi finanziarie, crisi di mercato, crisi da delocalizzazione, crisi da mancata innovazione tecnologica o organizzativa, crisi di managerialità, eccetera. Ci si può trovare di fronte a casi molto diversi, a dinamiche diverse, e anche a gradi di gravità diversi.”
“Sintetizzando, e semplificando, direi che il ministero del Lavoro si occupa, ovviamente, dell’occupazione, mentre il Mise deve richiedere, e valutare, un piano industriale e, eventualmente, non solo chiedere che venga modificato, ma adoperarsi per facilitare tale opera di modifica. Quindi, il Mise non agisce certo contra legem, ma non può accontentarsi del rispetto delle norme esistenti. Deve assumere l’iniziativa, anche se con modalità molto artigianali.”
“Se posso usare un’immagine, direi che la task force lavora un po’ come i medici di un pronto soccorso: risposte immediate e poi ricerca di specialisti che possano guarire la malattia. Anche se talvolta, così come accade nel campo dell’assistenza medica, il paziente non guarisce e…”
Veniamo allora a qualche caso concreto. Può indicarci un risultato particolarmente positivo della vostra azione?
“La Bridgestone, nota e grande casa giapponese produttrice di pneumatici. La proprietà, dal Giappone, annunciò la decisione di effettuare la chiusura definitiva dello stabilimento di Bari. E si trattava, fra l’altro, di 800 addetti che dovevano essere licenziati. Ebbene, grazie all’impegno dei lavoratori italiani e dei manager europei del Gruppo, riuscimmo a convincere la proprietà ad accettare la sfida di mantenere aperto lo stabilimento attivo nel nostro Paese. E questo stabilimento è tutt’ora aperto e va anche bene. Un’esperienza positiva che ci ha dato grande soddisfazione.”
E un caso, invece, particolarmente negativo?
Beh, direi senz’altro la Fiat di Termini Imerese.
Perché?
“La chiusura di quella fabbrica fu il risultato di un’operazione politica. Come è noto, nell’aprile del 2010 Marchionne lanciò il cosiddetto piano Fabbrica Italia. In parole povere, la Fiat, che non era ancora Fca, ma si era già incamminata sulla strada della sua internazionalizzazione avendo acquisito la Chrysler, si impegnò a mantenere la sua presenza in Italia. In cambio, avrebbe sacrificato lo stabilimento di Termini Imerese. Cosa di cui, peraltro, lo stesso Marchionne aveva cominciato a parlare già dal 2009.”
“Ebbene, Berlusconi – che, all’epoca, era a capo del suo quarto Governo – accettò il piano, prendendosi l’onere di gestire la chiusura dello stabilimento siciliano. Il compito fu affidato al ministro dello Sviluppo Economico che, in quel periodo, era Claudio Scajola. Ci impegnammo con tutte le nostre forze ma, a quasi dieci anni di distanza dall’annuncio del piano, e a sette anni dall’uscita definitiva di Fca dallo stabilimento siciliano, la crisi non può dirsi risolta. Infatti, i tentativi di reindustrializzazione – che hanno insistito sul mantenimento di produzioni automobilistiche – non sono approdati a risultati concreti.”
Altre esperienze non positive?
“Beh, sono rammaricato per la storia dello stabilimento ex Alcoa di Portovesme, in Sardegna. Temo che qui sia stato fatto un errore strategico. A fronte della volontà, chiaramente espressa dall’Alcoa, grande multinazionale Usa dell’alluminio, di chiudere lo smelter di Portovesme, non avremmo dovuto insistere per mantenere a tutti i costi una produzione di alluminio primario nel Sulcis.”
“La tendenza industriale che si è delineata da tempo è quella di rinunciare alla produzione di alluminio primario in Europa. I nuovi smelter che vengono aperti, se vengono aperti, in altre parti del mondo, sono progettati per produrre da 500mila a un milione di tonnellate. Quello di Portovesme, nel migliore dei casi, non poteva andare oltre le 150mila tonnellate. Avremmo quindi fatto meglio a progettare un piano di rilancio dei territori interessati, investendo gli stessi soldi, che abbiamo comunque speso negli anni, per altri obiettivi.”
“Ora il punto è che, come ho detto, Alcoa, che non aveva più interesse a questo suo stabilimento, non voleva cederlo, ma chiuderlo e smantellarlo definitivamente, per evitare qualsiasi successiva complicazione legale.”
“Abbiamo lungamente tentato di trovare un successore che potesse essere abbastanza credibile agli occhi di Alcoa. Come si ricorderà, a un certo punto si palesò l’ipotesi di cedere lo stabilimento alla svizzera Glencore. Ma la cosa non andò in porto. È poi entrata in scena un’altra impresa svizzera, Sider Alloys. Purtroppo, però, a tutt’oggi non sono partiti neppure i lavori di ristrutturazione dell’impianto, peraltro assolutamente necessari. Insomma, si tratta di un’esperienza non positiva ma che, con opportune riflessioni, potrebbe offrirci qualche utile insegnamento.”
Questo per l’Alcoa. E l’Ilva?
“La storia dell’Ilva la considero un successo. Abbiamo costruito un’intesa che credo sia molto importante. E ciò sia da un punto di vista sociale, che da un punto di vista industriale.”
Puoi essere più specifico?
“Certo. Innanzitutto, vorrei però ricordare che lo stabilimento Ilva di Taranto era ed è non una qualsiasi grossa acciaieria, ma il più grande stabilimento siderurgico del nostro continente. Aggiungo che la proprietà dell’azienda di cui tale stabilimento faceva parte, il gruppo Ilva, era uscita di scena da anni a causa di gravi problemi di conduzione e che era stato necessario porre tale gruppo in amministrazione straordinaria. Ebbene, grazie all’opera dei Commissari e del Ministro Calenda, è stato possibile dare solide prospettive all’ex gruppo Ilva, riportandolo a nuova vita nell’ambito delle attività del più grande produttore di acciaio del nostro pianeta, ovvero di ArcelorMittal.”
“Ciò detto, osservo che, da un punto di vista sociale, l’accordo raggiunto nel settembre dell’anno scorso con la nuova proprietà, ovvero appunto con ArcelorMittal, e con i sindacati dà una garanzia certa di ricollocazione a tutti i lavoratori dell’ex Ilva. Si tratta di un successo non prevedibile se ci si ricorda di quali fossero gli obiettivi di riduzione dell’occupazione che Mittal si era dato all’inizio della trattativa, cioè a metà del 2017.”
“Ma l’accordo è molto significativo anche da un punto di vista industriale, e ciò perché il piano di investimenti elaborato dall’azienda acquirente – ripeto, ArcelorMittal – consentirà di fare di Taranto uno degli stabilimenti siderurgici tecnologicamente più avanzati del mondo. Aggiungo, inoltre, che con le risorse finanziarie recuperate da quelle che sono state espropriate ai Riva – i vecchi proprietari – potranno essere realizzati degli interventi di ambientalizzazione che limiteranno al massimo attualmente possibile le emissioni nocive di CO 2. È quindi ormai realizzabile l’obiettivo di migliorare concretamente la sicurezza interna dell’impianto e, nello stesso tempo, di ridurre fortemente gli impatti sulla salute dei tarantini.”
“Ci sono, insomma, le condizioni per poter recuperare, cosa importantissima, un rapporto positivo con il territorio, ovvero con quelli che possono essere considerati come i più importanti fra gli stakeholders: i cittadini di Taranto. Questa, oggi, è la sfida vera. E credo di poter dire che, affinché venissero raggiunti quei risultati che ho appena ricordato, e fossero poste le premesse necessarie per recuperare questo rapporto, come Mise e come Unità gestione vertenze abbiamo fatto la nostra parte.”
Concludendo la nostra chiacchierata, torniamo al suo inizio, chiedendo a Castano: “Come interpretare il fatto che Di Maio, in quanto ministro sia dello Sviluppo Economico che del Lavoro, non abbia avvertito la necessità, in un momento in cui nuove nubi si addensano sul nostro sistema produttivo, di poter continuare a fare affidamento sulla sua esperienza?
“Le ragioni non mi sono state spiegate, né io le ho chieste. Come sempre, ho dato la mia disponibilità a collaborare per il bene delle aziende e dei lavoratori. Evidentemente, la mia presenza non è stata più ritenuta necessaria dall’attuale titolare del dicastero. E sì che, in precedenza, ho collaborato con Ministri caratterizzati da indirizzi politici anche molto diversi, da Bersani a Scajola, da Romani a Passera, da Zanonato a Guidi. Ma, del resto, questo è il Governo del cambiamento. O no?”
@Fernando_Liuzzi