Come spesso avviene, sono i dettagli a manifestare con maggiore chiarezza gli obiettivi ultimi di strategie ambiziose, per quanto subdole o dissimulate.
Che l’attuale maggioranza di governo sia tenacemente impegnata a manipolare o distorcere alcuni fondamenti della nostra Costituzione è cosa nota, ripetutamente denunciata non soltanto dalla opposizione politica: basti pensare ai reiterati assalti alla libertà di informazione, ad alcuni profili dei ricorrenti progetti di “riforma” della giustizia penale o alle farneticanti teorie (si fa per dire) sulla “secessione territoriale”.
Ma è su un’altra fondamentale tematica che si intende attirare l’attenzione in questa sede: la rilevanza, anche ordinamentale, riconosciuta alle legittime rappresentanze del lavoro -e in generale degli interessi economici- nella architettura che regge il nostro modello democratico. Anche in questo ambito sono in corso, e non da oggi, operazioni avventate e pericolose. Non so dire se tutti coloro che se ne fanno interpreti e portatori siano pienamente consapevoli di tutte le implicazioni che discendono dalla manipolazione di quei principi (d’altronde siamo governati da forze politiche culturalmente extra-costituzionali), ma non v’è dubbio che sia in corso una strategia che punta allo snaturamento di quella matrice costituzionale, e che all’operazione presieda una regia lucida e consapevole.
Forse è utile ripartire dai “fondamentali” per capire di che si tratta. Massimo Severo Giannini scrisse nel 1950, riferendosi in particolare agli art. 1, 3 e 4 della Carta,: “…essa [la Costituzione] ha un primo significato, che vorremmo dire optativo, ed è il seguente: che nella nostra Repubblica non si dovrebbero riconoscere i privilegi economici, perché condannevoli; il solo lavoro dovrebbe essere il titolo di dignità del cittadino. Si osservi che su questo contenuto optativo vi è concordanza degli enunciati verbali di tutte le ideologie, le più svariate…Può avvenire che l’espressione divenga un principio istituzionale effettivo [non solo optativo, quindi]. E’ però evidente che affinché ciò avvenga, è necessario che le garanzie dell’indirizzo politico sostanziale richieste dalle forze del lavoro si traducano, nell’ordine legislativo, in istituti, ossia si applichi la Costituzione…Ma è anche indubbio che ciò avverrà nella misura in cui le forze del lavoro…ne avranno imposto la realizzazione, col loro peso politico”.
Naturalmente la nozione di “lavoro” a cui si fa così forte riferimento è quella specificata nello stesso art. 4: “…svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” Si intende, dunque, parimenti il lavoro manuale o intellettuale, subordinato o autonomo, imprenditoriale o professionale, reso in forma individuale o associata… In sintesi si può ben affermare che il patto costituzionale ha nel lavoro il soggetto contraente fondamentale e, dunque, nelle sue legittime e libere rappresentanze un soggetto politico essenziale per il funzionamento della democrazia.
A questi imperativi fondativi, sanciti opportunamente nei “Principi Fondamentali” del testo Costituzionale, fanno seguito, poi, l’intero Titolo III° della Carta (dedicato ai “Rapporti Economici”) e l’art. 99 che istituisce il Cnel, con le funzioni e le prerogative che in questa sede si ritiene superfluo richiamare per esteso. In estrema sintesi: l’art. 99 conferisce alle rappresentanze del lavoro e dell’impresa, e all’esercizio della loro dialettica in sede di confronto e proposta, una esplicita dignità istituzionale.
Ciò che si intende affermare con questo richiamo ai fondamenti costituzionali è che i diritti sociali e del lavoro costituiscono una delle armature fondamentali del nostro modello di democrazia, al pari dei diritti della persona e dei diritti politici. L’art. 1 è tutt’altro che una declamazione retorica; è il punto di ancoraggio di una filiera concettuale che connota tutto l’impianto costituzionale e che trova nell’art. 99 il suo compimento istituzionale. E’ stato detto e scritto che si configura in ciò una “peculiarità” della Costituzione italiana; si è parlato di “Costituzione del lavoro”, con il linguaggio immaginifico dei giuristi.
Anche in questo ambito è lecito dubitare che molti di coloro che improvvisano quotidiane ricette, le più astruse, su come “riformare” il diritto del lavoro italiano, siano pienamente consapevoli delle implicazioni che ne conseguono. E quando ne fossero consapevoli, risulterebbe evidente la loro mala fede. Sia chiaro: anche le Costituzioni possono essere riformate; ciò che non è lecito è pensare di poterlo fare con il sotterfugio, il colpo di mano, la manovretta sottobanco. Checché ne pensi l’ineffabile (e inutilmente iroso) Ministro del lavoro. Né basta a smentire ciò il fatto che, sfruttando cinicamente l’allarme generato dall’emergenza economica, si riesca a far passare norme intollerabili come l’art. 8 della recente manovra economica, di cui molti fra i più insigni giuristi hanno dimostrato la evidente incostituzionalità con dovizia di argomenti.
La “riforma” del Cnel.
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, vale la pena soffermarsi sulla vicenda dell’art. 17 della recente “manovra di agosto”.
La versione originaria dell’art. 17 del dl. 138/2011 prevedeva il ridimensionamento numerico dell’assemblea del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (da 121 a 72), interamente a carico delle rappresentanze delle forze sociali (lavoratori dipendenti, imprenditori, lavoratori autonomi, lavoro professionale), lasciando inalterata la rilevante (quantitativamente) rappresentanza del cosiddetto “terzo settore” (peraltro non prevista dall’art. 99 della Costituzione, impropriamente sancita da una leggina ad hoc del 2000) e degli esperti (nominati in parte su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e in parte scelti dal Presidente della Repubblica). Tralascio, in questa sede, altri aspetti meno significativi della norma, come originariamente formulata (decadenza immediata solo delle rappresentanze dei lavoratori e delle imprese, ecc.). Ovviamente la motivazione addotta inerisce la necessità di contenere i costi del sistema istituzionale.
Le rappresentanze del lavoro e delle imprese hanno tempestivamente reagito (con il sostegno pressoché unanime della componente “esperti”) e hanno ottenuto parziali ma significative modifiche nel maxi-emendamento di conversione della manovra (il ridimensionamento quantitativo dovrà riguardare, proporzionalmente, tutte le componenti). Tuttavia la partita non è ancora chiusa in quanto dovranno essere emanati atti regolamentari e decreti attuativi, mentre da qualche parte si ipotizza la reiterazione del disegno originario in occasione di ulteriori prossime decretazioni. Vedremo.
La ricostruzione, sommaria, della vicenda era necessaria per meglio comprendere il senso delle considerazioni a commento che seguono, che, va detto, impegnano esclusivamente chi firma queste righe.
Non c’è ragione per contrastare il ridimensionamento numerico dell’Assemblea del Consiglio, né per avviare un braccio di ferro con il Governo su qualche unità in più o in meno. Infatti le rappresentanze del lavoro e delle imprese non hanno in alcun modo contestato tale aspetto. Né potrebbe esserci contrarietà, a mio avviso, ad ipotesi eventuali di potenziamento proporzionale della componente “esperti”, a condizione che le persone nominate a tale titolo siano effettivamente portatrici di competenze di alto livello negli ambiti tematici in cui si esercitano le attività e le prerogative del Cnel (nessuno si adonti se affermo che, forse, non sempre è stato così).
Ma un drastico ridimensionamento delle rappresentanze del lavoro e dell’impresa, ad esclusivo beneficio delle rappresentanze del cosiddetto “terzo settore”, che c’entra con la ragion d’essere del Cnel, con la sua funzione istituzionale? A quale progetto alternativo risponde una tale ipotesi, se non ad una intollerabile ed irresponsabile volontà di offendere e snaturare la soggettività politica ed istituzionale delle rappresentanze collettive del lavoro e dell’impresa nell’architettura del modello di democrazia prefigurato dalla nostra Costituzione? Ed ancora -non mi riesce di non esplicitare questo ulteriore interrogativo-: come è possibile che la Presidenza del Cnel, prima di ogni altro, non si sia posta alla testa di una radicale contestazione di tale progetto, legittimando così la interpretazione di essersene reso corrivo? (Meno significative, anche se non meno ambigue, alcune condotte di ordinario opportunismo burocratico, nel contempo messe in atto). L’assemblea del Cnel non è un circolo culturale di “liberi pensatori”; chi la presiede è alla testa di un organo che ha le caratteristiche precisamente tracciate dall’art. 99 della Costituzione. Non altro.
Come si diceva in apertura, parlando di dettagli, le sorti del Cnel non sono certo la principale questione che travaglia i pensieri dei protagonisti della vita economica e sociale, in questi tempi di drammatica crisi. Ma proprio la gravità della crisi dovrebbe imporre a ciascuno il massimo rigore nel preservare e valorizzare le risorse di cui si dispone. La Costituzione e, in essa, la funzione democratica assegnata alle rappresentanze degli interessi economico-sociali, sono propriamente fra le risorse più preziose di cui disponiamo. Sprecarle, od umiliarle, è colpa grave.
Giuseppe Casadio
Presidente della Commissione per le Politiche del lavoro e dei settori produttivi del Cnel