Cresce il numero di giovani e donne nelle posizioni apicali, ma la quasi totalità dei dirigenti della pubblica amministrazione ha i capelli brizzolati e ha superato i 50 anni. Uno scenario che per Roberto Caruso, presidente Fp-Cida, l’associazione che rappresenta i manager nella PA, pone un problema di sostenibilità demografica e di nuove competenze. Retribuzioni più sostanziose, formazione mirata e più conciliazione le leve per attirare i giovani.
Presidente Caruso qual è, secondo lei, la reputazione che gode la pubblica amministrazione?
Con la riforma Bassanini del 1999 e soprattutto con quella di Brunetta del 2001 la pubblica amministrazione è stata messa al centro del dibattito pubblico, e da lì ogni ministro ha proposto una sua riforma, non sempre con grandi risultati. Positiva è stata quella del 2014 che ha accorpato le aree di contrattazione. Quello che da anni caratterizza la pubblica amministrazione è la mancanza di risorse, un turn over bloccato e il fatto che non ne esiste una unica e omogenea. Non sempre il pubblico ha goduto di un’immagine e di una reputazione positive, basti pensare ai vari furbetti del cartellino. Con la pandemia c’è stata una rivalutazione del lavoro e del ruolo del dipendente pubblico.
Oggi come stanno le cose?
Stiamo assistendo a un cambio culturale. Si guarda con maggiore attenzione alle buone pratiche del privato, senza dimenticare che l’apparato pubblico non ha come scopo la semplice competizione o il profitto ma offrire servizi ai cittadini. Si sta rivedendo l’organizzazione del lavoro, anche grazie alla leva dello smart working, per la quale i dirigenti si stanno orientando verso un’attenzione alla performance non più commisurata unicamente sulla presenza fisica dei lavoratori ma sugli obiettivi raggiunti.
Mi può tracciare l’identikit del dirigente pubblico Cida?
Oltre l’80% dei dirigenti ha più di 50 anni e la maggior parte sono uomini, anche se sta crescendo il numero delle donne in posizioni apicali. Solo l’1,17% ha meno di 40 anni, i dirigenti tra i 40 e i 50 anni sono il 14,86%, quelli tra i 51 e i 60 anni il 53,17%, oltre la metà della popolazione, mentre gli over 60 sono il 30,81%, con un peso significativo nelle fasce più avanzate. Questi numeri impongono un problema di sostenibilità demografica e anche di immissione di nuove competenze che non è più rinviabile.
C’è poi la questione rinnovi. Nei settori del privato i contratti vengono rinnovati rapidamente, salvo qualche eccezione, mentre l’allungamento dei tempi è una costante del pubblico. Come mai?
Solo nel 2018 si è tornati a sottoscrivere i contratti collettivi pubblici una volta cessato il blocco della contrattazione che era durato per un decennio a causa dell’assenza di risorse da parte dello stato. Questo ci ha posto nelle condizioni di dover correre per rinnovare i contratti ormai scaduti da tempo. È chiaro che questa incertezza contrattuale non contribuisce a migliorare l’efficienza della PA e non la rende attrattiva. Bene che il governo abbia finanziato anche per i prossimi anni il rinnovo dei contratti, fino al 2030, ma sulle tempistiche il giudizio non può che rimanere negativo visto che ancora mancano gli atti di indirizzo per aprire le trattative per le Aree dirigenziali per il triennio 2022-24, e siamo al 2025 ormai inoltrato.
Proprio sull’attrattività del settore, i giovani non riconoscono più il valore del posto fisso pubblico. È così anche per i dirigenti che voi rappresentate?
Certamente le posizioni apicali hanno un appeal diverso, ma tempi di rinnovo più celeri e stipendi più alti sono due leve che ne aumenterebbero l’attrattività. Ma i giovani vogliono anche altro. Vogliono veder valorizzate le proprie competenze, guardano ai percorsi di carriera e ambiscono a una maggiore conciliazione. Per questo abbiamo sempre sostenuto la necessità di ampliare il welfare aziendale e di arrivare a una normativa evoluta come nel pubblico. C’è anche un tema di velocizzare le immissioni. Ovviamente il concorso pubblico, se ben fatto, garantisce equità e trasparenza, ma apprezziamo la volontà del ministro Zangrillo di estendere anche a percorsi extra concorsuali l’ingresso di nuovo personale, così come un maggior legame con la scuola.
Parlando di scuola e competenze, quanto è importante la formazione?
La formazione è una leva straordinaria, che non deve essere vista come un mero adempimento ma come un investimento nella risorsa umana e deve essere finanziata dalla politica. Abbiamo bisogno di una formazione che sia qualificata e non generalista, ma calibrata sui bisogni specifici delle persone. Abbiamo, ad esempio, chiesto di fare formazione incentrata sull’intelligenza artificiale, anche se è ancora presente a macchia di leopardo nelle amministrazioni pubbliche.
Tommaso Nutarelli