I dati forniti dalle statistiche dimostrano una minore incidenza della crisi rispetto alla situazione reale percepita. Questo perché, spiega il sociologo Mimmo Carrieri la situazione italiana non è così grave come quella di altri paesi Ocse. Ma i fenomeni sempre più frequenti di reazioni sociali estreme indicano, dice Carrieri, che al di là dei numeri, c’è la percezione di una crisi maggiore di quella presentata dalle informazioni statistiche.
Professor Carrieri, i dati sulla crisi sono sempre più allarmanti.
In realtà il numero dei disoccupati fornito dalle statistiche recenti risulta in Italia inferiore a quello di molti paesi Ocse. Questo dimostra una minore incidenza della crisi rispetto alla situazione reale percepita. Due aspetti lo provano.
Quali?
Innanzitutto le reazioni sociali estreme, come nel caso dei sequestri o dei suicidi, sempre più frequenti tra imprenditori e disoccupati allo stremo delle forze e senza prospettive per il futuro. Fenomeni che indicano che, al di là dei numeri, c’è la percezione di una crisi maggiore di quella presentata dalle informazioni statistiche. Poi ci sono fenomeni di discredito verso le istituzioni.
In che senso?
Da una parte perché manca una protezione nei confronti delle piccole imprese che falliscono e dei lavoratori che perdono il posto, non ci sono strumenti d’aiuto e c’è poca duttilità rispetto a interventi ad hoc. Il lato della protezione passiva è trascurato per lasciar spazio a regole chiare che poi culminano in situazioni anche discutibili come quella degli esodati. Poi è aumentata la distanza dalla politica e dai partiti.
E il secondo aspetto?
Riguarda la creazione di nuova occupazione. La passività dell’attuale governo rispetto alle politiche attive di lavoro non aiuta. Le misure previste mirano a distribuire lavoro che c’è e non a creare lavoro che non c’è. Questo è un tema di cui si sta parlando in diversi paesi, che cercano di ragionare sulle forme di interventismo pubblico che mancano, piani straordinari per l’occupazione e proposte a cui si potrebbe attingere per politiche attive del lavoro.
Si può parlare di disgregazione sociale?
Sì, l’aumento della quota dei giovani disoccupati, pari a un terzo del totale, e dei giovani che non lavorano né studiano ha aumentato la difficoltà d’integrazione nel sistema. Il mercato del lavoro iniquo marginalizza e rappresenta il preludio di fenomeni di liberismo diffuso, protesta, rifiuto collettivo, da cui nascono movimenti come quello degli indignatos in Spagna che però faticano a prendere piede in Italia perché a una situazione sociale critica corrisponde una collettività frammentata che non riesce a organizzarsi.
In questo legge una responsabilità delle rappresentanza politiche e sociali?
Certamente. Partiti e sindacati hanno molta responsabilità perché non riescono a intercettare questa insoddisfazione e ad aggregare le forme di protesta. Il risultato è un deficit della società che porta alla disperazione e allo sfogo collettivo.
Cosa pensa della riforma del mercato del lavoro?
Il governo ne ha fatto un cavallo di battaglia per ragioni propagandistiche a livello internazionale. Però il testo presentato in Parlamento ha lasciato scontente tutte le parti sociali perché effettivamente non c’è una diminuzione significativa degli aspetti patologici, né incentivi forti per le imprese ad assumere. C’è una sopravvalutazione dei meccanismi scelti, servirebbero invece concrete misure di politica industriale che siano in grado di aumentare l’occupazione soprattutto tra i giovani. Il risultato nel complesso è piuttosto deludente.
Francesca Romana Nesci