Ci sono storie che fanno giri immensi e poi ritornano. Succede cosi che in un tranquillo pomeriggio romano, nei saloni austeri del Senato, si riapra inaspettatamente il vaso di Pandora: quello di Mani pulite, del suicidio di Raul Gardini, della maxitangente Enimont, del fallimento dei Ferruzzi, e di molti altri fatti risalenti ormai a oltre tre decenni fa. L’occasione, o la miccia, è la presentazione del libro di Carlo Sama, che di quella stagione fu uno dei protagonisti, “La caduta di un impero. 1993, Montedison, Ferruzzi, Enimont.”: 192 pagine, edite da Rizzoli, nelle quali il cognato di Gardini, marito di Alessandra Ferruzzi, figlia del fondatore Serafino, ricostruisce la storia dal suo punto di vista. Un libro interessante, estremamente documentato (lo abbiamo recensito sul Diario in dicembre) che, pur nella ‘’versione di Carlo”, rende a Raul ciò che è di Raul, in tutti i sensi: nella genialità visionaria, certo, ma anche nei colossali errori commessi da colui che la stampa dell’epoca definiva alternativamente il Contadino o il Pirata, nella sua grandeur dissipatrice, nel tentativo sleale di scalare non solo la chimica italiana ma anche la stessa famiglia Ferruzzi, e soprattutto nel non aver capito -lui, giocatore di ramino poker, il gioco più d’azzardo che c’è- quando era arrivato il momento di lasciare il tavolo. Spiega Sama: “Mi hanno detto: ma in questo libro tu in fondo lo tratti bene Raul. No: lo tratto come merita, ne più ne meno”.
La presentazione al Senato è a inviti, tra il pubblico sono presenti vari “reduci” dell’epoca, tra cui spicca Sergio Cusani, protagonista dell’unico vero processo di Mani Pulite. Ma c’è, soprattutto, Antonio Di Pietro: non invitato e non previsto, diventa subito il deuteragonista dell’evento. Seduto tra il pubblico, l’ex Pm interloquisce direttamente col suo ex imputato: spiega di aver letto il libro di Sama “tre volte”, di averlo “studiato a fondo”, specifica che “se fossi ancora Pm mi interesserebbe ancora di più, sono dichiarazioni spontanee, in queste pagine c’è l’essenza del problema di allora’’.
A sua volta, Sama cerca di alleggerire la tensione, dice “non ho la sindrome di Stoccolma”, ma è impossibile non notare il cambio di clima che pervade la sala, il pubblico. Sama parla, Di Pietro prende appunti, chiosa, puntualizza, quasi azzerando il ruolo dei due presentatori, i giornalisti Gaia Tortora e Mauro Mazza. Sama ricorda “la tragedia di Mani Pulite, quando la magistratura svolgeva un ruolo che non era il suo, la politica si era vaporizzata, e il mondo finanziario, come un avvoltoio, aspettava l’occasione di approfittarne”. Cosi come si approfittarono della Ferruzzi i due potentissimi banchieri di Mediobanca, Cuccia e Maranghi, costringendoli a un fallimento assurdo.
Di Pietro si difende: ricorda, a titolo di esempio, che quando la procura di Ravenna minacciò Sama di arrestare sua moglie Alessandra, fu lui a impedirlo: “le mogli si lascino stare, dissi ai colleghi ravennati”. Conferma Sama: “lo ricordo bene, e ne sono riconoscente”.
Ma l’ex Pm fa anche domande, quasi fosse ancora sul banco di un tribunale. E che domande: “Perché Gardini si è suicidato? Lei si è fatto un’idea?”, chiede a Sama. Il pubblico trattiene il respiro: perché anche trent’anni dopo questa resta la domanda delle domande. Sama risponde -parla all’impiedi, con emozione, la lunga statura un po’ ripiegata sul microfono- ma ci gira un poco attorno, indugiando su miliardi spariti, accennando a vari e inquietanti scenari dell’epoca, parlando di ‘’traditori’’ nascosti all’interno nel gruppo ravennate. Poi arriva al dunque: “Raul non raccontava mai niente a nessuno, e quella volta, invece, avrebbe dovuto raccontare molte cose a tutti: non solo ai magistrati, ma anche e soprattutto a sua moglie. Si è suicidato per salvare la famiglia, per non dover ammettere di aver perso tutto il patrimonio”.
Anche Di Pietro fa una ammissione di un certo peso: “Credo che Gardini si sia sentito tradito anche da me. L’accordo era che sarebbe venuto in procura con le sue gambe e che con le sue gambe se ne sarebbe andato, dopo averci raccontato il ‘’sistema’’ su cui indagavamo. Ma per come si stavano mettendo le cose, sapevo che non sarebbe stato possibile. Se con lui fossi stato più trasparente, avrebbe trovato la forza di sostenere l’interrogatorio, non si sarebbe ucciso’’. La sensazione -quasi imbarazzante, per chi li ascolta- è che tra Sama e Di Pietro scorra un dialogo intimo, pur davanti a duecento persone, con una sorta di sottotesto che solo loro sanno decodificare: due reduci che hanno combattuto una guerra su sponde opposte, di cui ancora portano le ferite.
Resta da capire come mai l’ex magistrato abbia sentito la curiosità di seguire la presentazione di un libro su quell’epoca lontana. Ed è la domanda che gli faccio, mentre lasciamo il Senato: perché questo interesse per un caso ormai chiuso? “Chiuso dal punto di vista giudiziario – mi risponde Di Pietro- ma troppe cose non si sono mai chiarite. La maxi tangente, per esempio: ne trovammo solo la metà, il resto, 75 miliardi di lire, ancora oggi non si è scoperto dove siano finiti”. I miliardi del 1993 (che tradotti in euro sarebbero oggi all’incirca 30 milioni: tanti, ma non strabilianti) sono dunque la brace mai spenta che continua a bruciare sotto tutta la storia. E questa sì che sarebbe una fantastica serie tv, altro che quella con il Raul Gardini interpretato da Fabrizio Bentivoglio, sgraditissima ai Ferruzzi. Spiega Sama: “la serie è il motivo per cui esiste questo libro. In quella pessima fiction vengo tra l’altro definito il traditore di Gardini, e io non voglio che i miei nipoti possano mai credere che sia andata davvero cosi. Dovevo ristabilire la verità”. Quanto alla presenza inattesa di Di Pietro, che fu il suo inquisitore, dopo una via crucis di processi, condanne e riabilitazioni, oggi Sama può dire: ‘’Alla fine, non mi è dispiaciuto che fosse presente. È stato interessante, forse perfino utile”.
Nunzia Penelope