Il sistema penitenziario è al collasso: strutture manchevoli, scarsa formazione del personale, disattenzione da parte delle forze politiche di ieri e di oggi. La vita all’interno degli istituti penitenziari è ridotta solo a scandalo del momento e veicolo di propaganda politica. Ma l’emergenza è ormai incontrollabile e focalizzare l’attenzione in maniera ragionata e concreta non più prorogabile. A parlarne a Il diario del lavoro è il segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio, che fuori da ogni demagogia e sofisticazione restituisce il quadro di un sistema penale manchevole che è specchio di un sistema Paese debole.
Di quanto accade nelle carceri l’opinione pubblica ne parla solo al verificarsi di episodi di disordine e violenza. Per fare chiarezza: qual è la situazione reale?
La stragrande maggioranza dell’opinione pubblica tende a vedere il carcere come un tema distante e immaginario, ma si dimentica la funzione sociale che esso svolge, che è l’anello finale del sistema giustizia di un Paese. È evidente che se non funziona questa parte finale, non funziona il sistema penale nel suo complesso. Tuttavia, che questa percezione ci sia nell’opinione pubblica lo comprendiamo, ma che la stessa cosa si verifichi nel mondo politico è molto meno comprensibile ed è ingiustificabile. Fondamentalmente la politica non si occupa di carcere se non appunto quando ci sono eventi eclatanti, se non quando bisogna mostrarlo come spauracchio di episodi di cronaca negativi. La situazione reale nelle carceri è estremamente drammatica sotto ogni punto di vista, partendo dal fatto che non assolvono minimamente a quella funzione sociale di cui accennavo e che è racchiusa nell’articolo 27 della Costituzione.
Cos’è che non funziona nel sistema?
Può sembrare banale o catastrofista, ma nel sistema penitenziario non funziona nulla o quasi. Per come è congegnato, il sistema non può neanche ambire ad assolvere a quelle funzioni racchiuse nell’articolo 27 della Costituzione e, dunque, alla risocializzazione del condannato. Ma non riesce neanche a estraniare dalla società i soggetti pericolosi, per cui a garantire sicurezza, posto che nelle carceri si continuano a perpetrare reati – molto spesso sono piazze di spaccio che lucrano molto più che all’esterno e si mantengono i contatti con le organizzazioni criminali. Per questo andrebbero completamente riorganizzate attraverso riforme strutturali e il potenziamento di servizi e organici. La strumentalizzazione politica che se ne fa dipende anche dagli umori del momento, perché molto spesso il carcere è uno spauracchio a cui si ricorre a fronte di particolari episodi di cronaca in cui l’opinione pubblica diventa per certi versi “forcaiola”. Se, invece, accade qualcosa di diverso, sempre la stessa opinione pubblica, dimenticando che quel soggetto finito in carcere si voleva appunto terminasse i suoi giorni dentro, molto spesso quel soggetto diventa una vittima quando si parla di soprusi da parte delle forze di polizia – che qualche volta ci sono e quando ci sono vanno individuati e perseguiti. Bisognerebbe avere molto più equilibrio, sia da parte dell’opinione pubblica ma anche da parte la politica e non farne strumento di campagna elettorale. Oggi vediamo la sinistra rimproverare al governo attuale quelle deficienze che c’erano anche quando c’erano loro, ma che c’erano anche prima di loro. Questo è drammatico.
Passiamo al tema dell’organico di polizia. Lei è stato molto critico nei confronti del ministro Nordio rispetto alle annunciate 2.800 assunzioni. Non la ritiene una misura sufficiente?
Per quanto concerne le assunzioni, va detto che si tratta praticamente del turnover. Non sono assunzioni finalizzate ad aumentare l’organico effettivo della polizia penitenziaria, ma a tentare di coprire i posti vacanti che si determinano per le cessazioni dal servizio (pensionamenti, destituzioni e altro). Per cui è vero che si sta assumendo di più rispetto agli anni precedenti, ma non ci sono le assunzioni straordinarie che dovrebbero ridurre i vuoti organici, considerando che il fabbisogno reale della polizia penitenziaria, rispetto a quelli attualmente in servizio, registra un deficit di 18mila unità. Ci sono 36mila unità di polizia penitenziaria in servizio, ma ce ne vorrebbero 54mila per adempiere ai compiti istituzionali che ci sono demandati. Il ministro, il governo e chi c’era prima lui non hanno introdotto misure che possano consentire in un breve termine di ridurre questo gap.
Per quanto riguarda, invece, il sovraffollamento e il riutilizzo a scopi detentivi delle caserme in disuso?
Per noi è fantasioso, se ne parla ciclicamente ma poi non si realizza. Mi viene in mente il caso di Grosseto: sono cinque anni che si è sottoscritto un accordo e si è acquisita la struttura per fare il nuovo carcere di Grosseto in una caserma, ma i lavori non vengono avviati perché è qualcosa di estremamente difficile, a maggior ragione se, come nell’ipotesi del ministro, non si tratterebbe sostituire vecchie strutture, ma creare dei posti aggiuntivi che quindi richiederebbero ulteriore personale. Il ministro, dopo aver appunto annunciato questa idea, ha precisato che allorquando si realizzeranno, tra due anni – e nel frattempo, con questo trend, il sovraffollamento sarebbe arrivato a oltre 70mila rispetto alle attuali 57mila -, solo allora ci sarebbero ulteriori assunzioni. Ma se queste assunzioni si possono fare, perché non iniziare adesso? Il problema è che si continua a non voler investire sul carcere perché, per fare le assunzioni bisogna appostare le risorse economiche e, oltretutto, non ci sono le strutture formative, le scuole della polizia penitenziaria per formare i nuovi agenti. È in quel senso che potrebbero tornare utili le caserme: per farci delle scuole. Ma di questo non si parla.
Quindi il tema della formazione è un altro punto critico?
Assolutamente sì. Noi, di fatto, non facciamo formazione. I corsi iniziali per gli agenti sono ridotti nella durata perché in passato, anche per politiche di spending review, sono state dismesse e chiuse alcune scuole. Non c’è mai stata una politica, appunto, finalizzata a potenziare la formazione, anche attraverso la dotazione di strutture idonee, o comunque le procedure formative vengono espletate con didattica a distanza, ricorrendo a sotterfugi che non consentono quella formazione propria di una forza di polizia che dovrebbe essere fatta anche di addestramento pratico, non solo teorico.
I corsi di formazione sono ridotti della metà rispetto alla durata ordinariamente stabilita proprio per ragioni pratiche, perché altrimenti si rallenterebbero anche di più le assunzioni.
Il sottosegretario Ostellari ha annunciato un inasprimento delle pene nei confronti dei detenuti che aggrediscono gli agenti di polizia penitenziaria. Ma al di là di questa considerazione, voi vi sentite tutelati dallo Stato?
Noi non siamo affatto tutelati dallo Stato. Anzi, tutt’altro. La Polizia Penitenziaria subisce in media quattro aggressioni al giorno, considerando solo quelle più gravi, Peraltro, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si ostina a secretare i dati rispetto alle aggressioni, che noi chiediamo ma non ci fornisce, adducendo motivi di ordine e sicurezza pubblici perché, a suo dire, la conoscenza di quei dati metterebbe sostanzialmente a nudo la vulnerabilità delle carceri e quindi potrebbe indurre a eventi turbativi dell’ordine e la sicurezza. Nulla di concreto è stato fatto, al di là dei recenti protocolli di intervento operativi per i quali comunque andrà fatta formazione, dotare di strumenti e, soprattutto, fornire gli organici. Anche noi in passato, e tuttora, sollecitiamo l’introduzione di una aggravante di della pena per coloro che aggrediscano gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, ma non è certo una soluzione, anche perché molto spesso queste aggressioni vengono perpetrate da detenuti malati di mente che non dovrebbero stare in carcere – alcune volte, addirittura i soggetti psichiatrici sono mantenuti in carcere sine titulo, cioè senza che vi sia un titolo giuridico affinché possano stare in carcere -, che non sono imputabili e a cui non si può infliggere l’aggravante di pena. Così come ci sono altri detenuti che non hanno nulla da perdere. È una situazione letteralmente kafkiana. Quello che certamente può aiutare è una pianificazione comprensiva di una serie di strumenti finalizzati a mettere in sicurezza le carceri e a introdurre finalmente criteri di protezione del personale che per ora non vediamo. Quindi ben venga l’aggravanti di pena, ma certamente non è risolutiva.
Di recente è stata siglata un’intesa per valorizzare le strutture lavorative all’interno delle carceri. Un tema di particolare interesse, soprattutto se il tasso di recidiva dei detenuti è del 70%. Qual è il senso oggi della detenzione?
Purtroppo, stanti l’organizzazione e le carenze attuali, la detenzione perde il suo senso proprio perché non riesce ad assolvere a quelle funzioni di socialità nella stragrande maggioranza dei casi. Ben vengano i protocolli e le intese, che sono certamente positive, il lavoro è lo strumento principale attraverso cui ci dovrebbe realizzare la risocializzazione, ma il numero dei detenuti che possono lavorare è ancora molto residuale rispetto alla totalità dei detenuti presenti. Per lo più coloro che lavorano espletano lavori di domestica carceraria per poche ore settimanali, ma il lavoro vero e proprio è ben poco ed è residuale rispetto alla complessità della popolazione detenuta.
Secondo lei, quindi, in cosa dovrebbe consistere un decreto carceri efficace?
Il decreto legge dovrebbe intanto prevedere assunzioni straordinarie e immediate per la polizia penitenziaria e le altre figure professionali per potenziare gli organici; deflazionare la densità detentiva, perché oggi abbiamo un sovraffollamento medio del 115%, che in alcune strutture sfiora il 200%; migliorare le strutture e le infrastrutture, mettendo anche in sicurezza la vita penitenziaria, introducendo elementi di sicurezza rispetto alla situazione attuale. Ovviamente solo questo non sarebbe risolutivo, ma è quello che si dovrebbe fare in ragione dell’emergenza. Parallelamente, il Parlamento dovrebbe approvare una legge delega che consenta al governo di emanare uno o più decreti legislativi che riformino strutturalmente il sistema di esecuzione penale, in particolare quello intramurario, riformando o rifondando il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e riorganizzando anche il Corpo di polizia penitenziaria. Sostanzialmente, quindi, bisognerebbe muoversi a 360 gradi, con un disegno compiuto e non attraverso interventi parcellizzati che cercano di mettere una toppa qua e là, creando il più delle volte falle ancora più grosse come spesso avvenuto negli ultimi decenni non solo negli ultimi anni.
Elettra Raffaela Melucci