Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, è soddisfatto del rapporto che il suo sindacato ha con il governo. Si è riaperto il confronto con i corpi intermedi, afferma, ci sono tavoli aperti, si fanno proposte, alcune vengono accettate, altre no, come sempre. E i risultati si sono visti. La riduzione del cuneo fiscale ha prodotto in media 85 euro in più al mese, nelle buste paga, non solo una pizza in più, ma per tante famiglie la possibilità di fare la spesa alimentare alla fine del mese. Del giudizio negativo di Cgil e Uil non si cura. Sono sindacati troppo ideologizzati, giudica, gli stessi che hanno la responsabilità del calo del potere di acquisto dei salari. Per troppo tempo si è cercato il conflitto, dice, e alla fine hanno pagato i lavoratori. Apprezza invece la strategia della Cisl, che, spiega, ha scelto una linea equilibrata e adesso si sta spendendo per la partecipazione. Vecchio cavallo di battaglia della Ugl e, prima ancora, della Cisnal.
Capone, è stato in corsa per la presidenza dell’Inail, c’è per caso il Parlamento europeo nel suo futuro?
Non credo proprio. Il mio presente e il mio futuro è a disposizione dell’Ugl. Come segretario, se al prossimo congresso vorranno rieleggermi, o comunque come iscritto, militante, parte dirigente di questa organizzazione.
L’Ugl ha visto crescere la sua centralità con questo governo di centrodestra? Sono cambiati i rapporti con l’esecutivo?
Noi abbiamo voluto questo governo, tanti di noi lo hanno votato alle elezioni politiche. Come singole persone, non c’è mai stata una cinghia di trasmissione, ma la partecipazione nostra è stata importante.
Cosa è cambiato per voi?
Più che per l’Ugl direi che è cambiato qualcosa per l’intero sindacato. Il passaggio da governi tecnici o spuri a un governo con una responsabilità politica forte ha determinato una riapertura del confronto con i corpi intermedi. Ci sono tavoli aperti, c’è un dialogo continuo, si fanno proposte, alcune vengono accettate, altre no, come sempre. Posso dire che il sindacato ha ascolto.
I tempi della disintermediazione sono terminati?
Assolutamente. Ma bisogna sempre vigilare, la tentazione di risolvere le questioni come fece Renzi è sempre presente.
Lei vede un cambiamento, ma non è così per tutte le confederazioni operaie.
Si deve partire dal presupposto che il governo ha la responsabilità delle scelte, le parti sociali quella di presentare problemi e proporre soluzioni. L’esecutivo deve continuare a fare la sua parte. Se in passato alcuni sindacati avevano un canale privilegiato per determinare le scelte dei governi, oggi non è più così. L’approccio ideologico e pregiudiziale che hanno alcuni sindacati sta raggiungendo livelli inaccettabili. Perché non si può essere allo stesso tempo parte dialogante e parte protestante. Il dialogo deve potersi svolgere. Certo, se poi non vengono i risultati …
È la tesi portata avanti dalla Cisl
Che ha assunto una linea, mi sembra, molto equilibrata. Al tavolo del confronto Cgil e Uil hanno portato avanti rivendicazioni di metodo che non avevano senso.
Ha sorpreso la strategia della Uil, che ha cambiato alleanze.
La Cgil ha mantenuto una posizione di contrapposizione, la Cisl una più dialogante. La Uil non ha mantenuto la barra dritta e ha scelto di essere un supporter della Cgil. Prendiamo atto che i socialisti, i più vicini alla famiglia dei moderati, sono passati tra gli esagerati. Ognuno si sceglie il proprio ruolo.
Un’altra cosa che ha colpito è stata l’assenza di protagonismo da parte di Confindustria, in pratica uscita da tutti i radar. Che cosa è successo?
Confindustria deve recuperare il suo orientamento, trovare una bussola più funzionante. Gli ultimi due presidenti avevano un atteggiamento molto spostato verso sinistra, verso la Cgil e verso i governi di centrosinistra. Questo presidente sta cercando altri equilibri.
Ma questo non è il momento di attendismi.
No, questo è il tempo delle decisioni, occorrono delle scelte precise. Forse l’attuale leadership non è molto forte.
Strano perché erano grandi le attese per la presidenza di Bonomi.
Ma lui non è un industriale, sente di più le difficoltà del momento. Del resto, è indubbio che la Confindustria ha vissuto momenti di grande protagonismo, ma basati sul conflitto. Cgil e Confindustria si legittimavano a vicenda. Ora, è vero che dai conflitti emergono le soluzioni, ma da questa stagione di conflitto a perderci sono stati i lavoratori che hanno ceduto il 4% del potere di acquisto delle loro retribuzioni. Ha sbagliato la Confindustria, troppo timida nella ricerca di un corrispettivo, e ha sbagliato la Cgil che non è stata capace di capitalizzare nulla a vantaggio dei lavoratori.
Il nodo dei salari è lampante, indubbio.
Sì, da venti anni almeno i salari perdono potere di acquisto. Una responsabilità che pesa su chi ha gestito questa fase.
L’economia però va bene, cresce.
Secondo i parametri Istat le cose cominciano a marciare, ma ci sono ancora lavoratori poveri, che trovano nel lavoro e non nella mancanza di lavoro difficoltà, e questo è contraddittorio.
Il Covid almeno ce lo siamo lasciati alle spalle.
Sì, ma le conseguenze sono state forti. L’Occidente ha perso il senso di invincibilità che aveva. La pandemia e una guerra in Europa erano cose che vedevamo al cinema. Sono cadute delle certezze.
Ma il livello di eticità nel nostro paese sta cedendo? Stiamo diventando più cattivi?
Siamo sempre gli stessi, con i nostri slanci di generosità e le cadute nei comportamenti. L’ammortizzatore famiglia funziona sempre. È stato importante nella pandemia avere il reddito di cittadinanza, votato poche settimane prima che il virus dilagasse. Ci ha aiutato a coprire le zone d’ombra lasciate dall’intervento pubblico, che pure è stato determinante in quella fase.
Adesso però il reddito di cittadinanza è stato ridimensionato.
È stato sottoposto a un’analisi ai raggi X, non per mancanza di solidarietà, ma perché un meccanismo del genere è fondamentale se diretto a chi ha fragilità nel nucleo familiare, altrimenti può essere diseducativo.
Ricordava i lavoratori poveri, una contraddizione in un paese che sta crescendo.
Noi ci siamo battuti con questo governo per ridurre il peso del nucleo fiscale che abbatte il potere di acquisto dei salari e l’esecutivo ha risposto con un intervento importante. Trovo indecoroso che si dica che con quegli 85 euro medi in più al mese il governo ha pagato una pizza in più al mese. Spesso nelle famiglie in difficoltà quegli 85 euro possono fare la differenza se fare la spesa alimentare nell’ultima settimana del mese o no.
Ma come devono crescere i salari? Per l’intervento del governo o con la contrattazione? E, nel caso, quale contrattazione?
Noi crediamo nella partecipazione, è scritta nel nostro statuto da settant’anni, nel nostro e in quello della Cisnal prima di noi. La Costituzione afferma che si esercita nell’ambito della legge. Una legge non c’è, accordi di secondo livello possono produrre effetti importanti. È possibile così avere salari più alti e far crescere la produttività delle imprese.
Serve una legge?
Lo dice la Costituzione, intanto possono servire accordi. Il famoso articolo 8 a questo serviva. Ma i contratti nazionali comunque hanno un valore indiscusso.
I contratti pirata rappresentano un pericolo?
Assolutamente no, se ne parla tanto ma interessano pochissimi lavoratori.
C’è una piaga forte nel mondo del lavoro, la prevenzione degli incidenti. Che non calano. Cosa si può fare?
Gli interventi possibili sono molti. Certamente serve un sistema punitivo più forte, ma in questo modo si interviene ex post, il problema è che dobbiamo agire sulla prevenzione.
Come si fa prevenzione?
Non come si fa adesso, quando tutto si basa su una produzione cartacea sempre più ingombrante. Si crede di fare quello che serve quando si produce una serie di documenti, che dimostrano che sono stati fatti dei corsi per combattere il fenomeno.
Non bastano?
A mio avviso, no. Serve l’addestramento, l’immediatezza della reazione. Dobbiamo fare come si fa in Giappone con i bambini per i terremoti, si insegna loro da piccoli, a scuola, come devono comportarsi in presenza di un sisma. A quel punto la reazione è sempre immediata. E lo si deve fare a scuola, quando siamo ancora freschi, quando immagazziniamo quei comandi.
Questo ci porta al tema della formazione, di cui tutti parlano come la nuova frontiera, ma poi pochi la fanno davvero. Capone, perché in Italia si fa poca formazione?
Perché è un costo, anche quando viene finanziata da organismi esterni all’azienda. Perché resta un argomento che non attrae, non coinvolge. Perché conta sempre più l’ente di formazione dell’attività che questo svolge, non si guarda agli esiti, ai risultati della formazione. Soprattutto perché non c’è cultura della formazione.
È possibile intervenire?
Io credo che sarebbe necessario dare più ruolo alle imprese. Il Fondo Nuove competenze, recentemente avviato, è stato finanziato con 3 miliardi di euro, che sono stati integralmente spesi. Ma i risultati sono stati insufficienti. A mio avviso perché ha avuto troppo peso l’intermediazione, quei soldi sarebbero stati meglio spesi se fossero state le aziende a formare i lavoratori che volevano assumere secondo le loro esigenze.
I fondi interprofessionali funzionano bene?
Sono lo strumento più vicino alle aziende. Non a caso sono gestiti direttamente dalle rappresentanze imprenditoriali e sindacali.
Come cambia il lavoro, quanto cambia? E cambia in male o in bene?
Cambia e anche profondamente. Con una connotazione negativa. Proprio in vista del dibattito congressuale che stiamo facendo abbiamo studiato a fondo il succedersi delle varie rivoluzioni industriali avvenute negli anni. E abbiamo notato che il saldo occupazionale è sempre stato positivo. Sono usciti dal ciclo produttivo meno lavoratori di quanti non ne siano entrati. Ma crediamo che questa volta non sarà così, il saldo potrebbe essere per la prima volta negativo.
Possiamo intervenire?
La tecnologia non la fermi in nessun modo. Ma puoi conoscere meglio il fenomeno e governarlo. Tutti dicono che nel nostro futuro avremo più tempo libero. E questa è una cosa buona, ma vorremmo delle certezze anche per il tempo occupato, che sia sufficiente a farci guadagnare quanto ci serve per vivere.
La persona è sempre più al centro delle politiche del lavoro. Questo è un bene per voi?
Perdere la concezione del lavoro collettivo è una conseguenza di una società che evolve. Io resto dell’idea che il destino dei lavoratori sia comune, ma non è possibile applicare le stesse ricette a tutti i lavoratori indistintamente casi. È il caso del contratto dei rider.
Per il quale siete stati molto criticati.
È l’unico contratto nazionale in Europa che si applica a lavoratori autonomi. Ce lo hanno chiesto loro, perché volevano restare autonomi ma avere alcune coperture e diritti esigibili, anche sindacali. Siamo stati criticati perché abbiamo anticipato i tempi con soluzioni nuove. Credo che questa realtà sia sfuggita ad alcune grandi organizzazioni sindacali.
Massimo Mascini