Paolo Capone, il segretario generale dell’Ugl, ha un progetto per recuperare spazio al lavoro, una virata decisa verso obiettivi di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e, naturalmente, agli utili delle aziende, che, dice, devono certamente remunerare il capitale, ma qualcosa deve arrivare anche ai lavoratori. L’obiettivo, ammette Capone, è lontano e difficile da raggiungere, anche perché troppi imprenditori pensano ancora alla lotta di classe, senza accorgersi che questa è finita da un pezzo, semplicemente perché, afferma il segretario generale dell’Ugl, ha raggiunto i suoi obiettivi. Ma le sue speranze non sono spente, perché, sostiene, ci sono organizzazioni sindacali che tengono per la partecipazione. La Cisl di Luigi Sbarra, per esempio, con la quale Capone vorrebbe tentare di trovare altri terreni di intesa. Un no deciso al salario minimo per legge, che, sostiene, non farebbe crescere i salari della grandissima parte dei lavoratori, ma farebbe male alla contrattazione.
Capone, la spaventano le prospettive barricadiere dell’autunno?
Sì, ma mi fa paura soprattutto l’allentamento dei collegamenti democratici del paese. Sono convinto che o il centrodestra, ma anche il centrosinistra, riportano al centro dei loro programmi il lavoro o rischiano di segnare un ulteriore, e a questo punto temo irreversibile, allontanamento dei lavoratori e dei cittadini dalla partecipazione alla vita democratica del paese. I dati dell’astensionismo continuano a segnare un andamento negativo ma non mi sembra che i partiti si preoccupino di questo vulnus determinante per la coesione sociale.
La situazione economica peggiorerà?
Non può essere altrimenti. Sul nostro futuro si addensano pesanti nubi, legate soprattutto agli effetti del conflitto in atto in Ucraina sull’economia dell’Europa, in particolare su quella italiana, così dipendente dal gas russo. Ma peserà anche l’aumento delle materie prime e l’impoverimento del reddito disponibile nelle tasche dei lavoratori italiani a causa dell’inflazione che si sta manifestando e che non può non crescere nei prossimi mesi. Sono dati reali. Un recente studio effettuato dal Censis per l’Ugl ha sottolineato come da 10 anni il potere di acquisto delle retribuzioni italiane è calato più di tutti i paesi Ocse, tranne Giappone e Grecia.
Come è possibile reagire?
Non è facile. La riduzione delle disponibilità economiche porterà inevitabilmente un calo della domanda interna, che pesa sulla creazione del Pil per il 75%. Quindi avremo meno consumi interni e insieme minore capacità di esportare a causa della crescita dei costi energetici.
L’occupazione ne risentirà?
Temo che avremo riflessi devastanti. Per questo crediamo che si debba intervenire sui redditi con strumenti immediatamente operativi. Per questo abbiamo chiesto al governo il taglio del cuneo fiscale che grava sui lavoratori. Potrebbe portare uno sgravio del 20% sulle retribuzioni.
Per avere così un rialzo della domanda interna?
Aiuterebbe l’economia nel suo complesso. Ma soprattutto abbiamo un’idea precisa su cosa non si dovrebbe fare.
Che cosa?
Siamo contrari a un provvedimento per un salario minimo per legge.
Che però viene presentato come un aiuto contro i salari troppo bassi.
Sì, viene presentato così, ma la dinamica salariale per l’87% dei lavoratori italiani viene determinata dai negoziati tra le parti sociali e non avrebbe nessun beneficio dalla definizione di un reddito minimo che sarebbe comunque inferiore al livello stabilito dai contratti collettivi nazionali.
Ma perché allora viene portata avanti da tanti?
Per motivi ideologici, non certo per favorire un miglioramento delle retribuzioni dei lavoratori.
La contrattazione gode di buona salute in Italia?
Sì, va decisamente bene. Anche perché i contratti funzionano anche come ammortizzatori sociali, definendo limiti minimi non troppo bassi e parallelamente livelli massimi non troppo alti. Senza tener conto che con i contratti nazionali si definiscono e difendono i diritti dei laboratori.
E’ reale pensare che in presenza di un salario minimo stabilito per legge ci potrebbe essere una fuga dalla contrattazione?
E’ questa la preoccupazione maggiore, che in maniera del tutto legale un’azienda possa uscire dalla contrattazione nazionale e applicare il minimo salario stabilito dalla legge, sempre più basso di quello indicato dai contratti e magari poi decidere sui diritti direttamente con il singolo lavoratore. Questo è il modello sindacale americano, noi siamo abituati ad altro.
Ma davvero gli imprenditori vorrebbero saltare la rappresentanza sindacale?
Credo che sia il sogno di tutti gli imprenditori. Che sanno perfettamente che l’azione negoziale contribuisce da una parte a riconoscere la giusta mercede al lavoratore e dall’altro a garantire all’impresa una continuità operativa che è indispensabile per essere sui mercati, ma sembra vivano ancora nei primi anni del 900, quando la lotta di classe era individuata come lo strumento per liberare dalla schiavitù il lavoratore ed evitare la sottrazione dei beni di produzione ai privati.
I tempi però sono cambiati.
Tanto da poter dire che o nel nostro paese facciamo un patto tra capitale e lavoro attraverso strumenti di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese o continueremo a vivere in un conflitto perenne che non farà crescere il paese, certo non i diritti dei lavoratori, e soprattutto manterrà il nostro paese in uno stato di arretratezza senza fine.
A suo avviso sono finiti i tempi della lotta di classe?
Non siamo solo noi dell’Ugl a ritenerla conclusa. Altre organizzazioni cominciano più o meno convintamente a ipotizzare relazioni industriali basate sul confronto e sulla realizzazione di forme di partecipazione che possono arrivare fino alla divisione degli utili, che devono retribuire ovviamente il capitale, ma in parte anche retribuire i lavoratori.
Non è da poco che l’Ugl si batte per raggiungere obiettivi partecipativi.
No, fin dal 1950 la nostra organizzazione è consapevole che vanno modificati gli approcci alle relazioni sindacali in un’ottica partecipativa. A nostro avviso va rafforzato il contratto collettivo nazionale di lavoro che definisce tutto ciò che è negoziabile e stabilisce la remunerazione del lavoro, mentre con i contratti di secondo livello va negoziato tutto ciò che contribuisce al miglioramento della produzione e delle condizioni dei lavoratori.
Tanti si dichiarano a favore di tale conversione, però è fuori dubbio che ci sia ancora una grande avversione di fondo nei confronti delle pratiche partecipative. Perché ciò accade e come è possibile porvi rimedio?
Questa domanda la porrei ai nostri padri costituenti che in un momento molto particolare della nostra vita, all’uscita dalla seconda guerra mondiale, avevano intuito che questo modello di democrazia economica avrebbe potuto essere più efficace per ottenere risultati concreti. Lo avevano capito, ma poi questa consapevolezza, che aveva portato a indicazioni costituzionali molto chiare, è stata sacrificata sull’altare dell’ideologia. Perché il massimalismo della Cgil e dell’ala non migliorista del Pci non poteva accettare, come ancora adesso non vuole accettare, che la lotta di classe era finita, aveva assolto la sua funzione positiva.
Cosa è possibile fare?
Si può procedere in diversi modi. Certamente sarebbe utile sviluppare una reale capacità di influenza sui decisori politici. Per esempio riprendendo l’iniziativa di Maurizio Sacconi che quando era ministro del Lavoro portò avanti un provvedimento di legge sulla partecipazione. L’unico che ha visto la luce. E noi dobbiamo continuare a cercare una convergenza con le altre confederazioni, compito difficile ma non impossibile. Posso testimoniare, essendo stato al recente congresso della Cisl, che Luigi Sbarra ha preso coraggiosamente una posizione molto netta a favore della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, auspicando in merito anche un provvedimento di legge.
Quindi c’è una convergenza di opinioni tra Ugl e Cisl?
Sì, su questo argomento, così importante, sicuramente sì.
Un avvicinamento che può allargarsi ad altre tematiche?
Lo auspico. Credo che le posizioni espresse dai sindacati più moderati possono portare a un percorso comune, che dovrà poi necessariamente coinvolgere la politica.
Mettere a punto la legge di bilancio quest’anno sarà molto difficile?
Credo proprio di sì. Ci ritroveremo stretti tra la carenza di risorse e i vincoli che ci vengono dall’Europa e rischiamo di trovarci in una tempesta perfetta tra le difficoltà dell’occupazione e l’impossibilità di sostenere lo stato sociale.
Il welfare state è in pericolo?
Mai come in questo momento. Perché quella che viene definita l’area del working poor cresce ed è la controprova che la classe media del paese si sta impoverendo, non solo materialmente. La verità è che lo stato sociale non riesce più a svolgere la sua funzione di sostegno solidale nei confronti delle fasce più fragili della società.
Ma non c’è una voglia diffusa di mettere le mani sul welfare state?
Si, ma non basta avere la voglia di intervenire, perché sarà difficile trovare le risorse dal momento che è stata mortificata la classe media benestante e diffusa, quella che contribuiva in maniera determinante a sostenere lo sforzo del welfare state. Adesso si è assottigliata la platea di coloro che pagano le tasse e parallelamente sono cresciuti i bisogni sociali. La realtà è che lo stato sociale si mantiene se c’è una ricchezza diffusa e in Italia questa si sta assottigliando pericolosamente.
Massimo Mascini