Una lunga fila di tavoli, più lunghe file di tavoli bianchi, uno schermo per sedia, delle cuffie, insomma uno stanzone che potrebbe essere un’aula universitaria. Essenziale, disadorna. Quel che non torna è il gabbiotto in vetro che protegge una postazione isolata, manca una cattedra, soprattutto non ci sono studenti, ma molte lavoratrici e qualche lavoratore, giovani, ma non solo. Tutto in ordine, un silenzio irreale, sembrerebbe una pausa post orario di lavoro, è un’occupazione che dura da più di un mese. Entro in questo luogo in un freddo sabato pomeriggio di dicembre. Così un call center si materializza davanti ai miei occhi nella sua durezza; i volti di donne ed uomini che vogliono scommettere su una prospettiva, che parlano della solidarietà della città, ma anche della fatica di vivere della solidarietà, del sacchetto che ritirano con i generi di prima necessità, una dimensione da disastrati, si legge nei loro sguardi che insieme alla riconoscenza vi è quel filo della dignità violata, a rischio, quella tristezza di progetti che possono infrangersi o non si possono neanche fare. Marzo, l’unica ripetizione è il freddo, è sera nella periferia di Vercelli, una tenda, della protezione civile, di nuovo l’idea “dei disastrati”, nella tenda da 100 giorni giovani donne e giovani uomini, molto giovani, difendono il loro lavoro, parlano del contributo della Regione, della solidarietà, dei loro desideri di futuro, di speranza a cui non vogliono rinunciare.
Un dialogo che, nelle tante diversità, è uguale.
Giovani che dicono: troviamo lavoro nei call center, abbiamo conosciuto la precarietà e l’autoritarismo, il cottimo – senza sapere il significato del termine pur così classico del lavoro operaio – abbiamo avuto, quella che a loro, oggi, può apparire una parentesi, la famosa circolare ministeriale di stabilizzazione, ed ora?
Ripercorri con lo sguardo quello stanzone uguale a tanti altri, investimenti per il lavoro, pari più o meno a zero, dei tavoli, degli schermi, un sistema informatico minimo. Viene da pensare che si smantella in due ore. Se proprio si vuole se ne fa un altro poco lontano, sempre a basso costo. Viene da pensare alle migliaia di ragazze e ragazzi che scoprono così il lavoro.
Il primo incontro a Pistoia, poi ancora a Nord, ma molti di più sono ragazze e ragazzi che nel Sud guardano al loro lavoro con un’ansia segnata da un problema in più, le mafie organizzate e la clientela. La storia di un rappresentante sindacale minacciato perché organizza la lotta per il lavoro, il racconto di una giovane licenziata perché è andata al sindacato, si è iscritta alla CGIL, con naturalezza disarmante, racconta che quel lavoro lo aveva avuto per raccomandazione e quando ha chiesto i suoi diritti, il “raccomandatario” si è schierato con l’imprenditore …
Quanto si è detto sui call center: il nuovo lavoro del futuro, la palestra del lavoro, il luogo che mostra la “bontà della flessibilità”, si sono sprecati fiumi di inchiostro sulla comunicazione nuova frontiera.
La realtà è un po’ diversa, un lavoro povero, un sistema frutto di esternalizzazione, giocato su commesse e il ricatto di trasferirle, un po’ di incentivi e in qualche caso interessi non trasparenti, basta pensare ad Agile Eutelia Phonmedia, record di inchieste giudiziarie e passaggi societari senza regole.
I call center sono sembrati davvero il nuovo lavoro, hanno colpito l’immaginario collettivo, basta pensare ai film prodotti, la stagione che ha riportato il lavoro sugli schermi, ha riportato quel lavoro, la descrizione di quella precarietà che da lavorativa diventa anche precarietà sociale, verrebbe da dire esistenziale.
Guardare oltre l’iconografia ci fa vedere che sono giovani istruiti, funamboli del tempo vita-lavoro, costretti ad un lavoro da adulti che ricorda le “attività estive” quelle da studenti, quelle che si fanno per avere qualche soldo, le prime forme di autonomia.
Come si fa a diventare “adulti” se non c’è prospettiva? Non è questa la precarietà sociale ovvero la condizione, non la scelta, che nega autonomia? Guardare oltre parla della qualità di quel lavoro, ripetitivo, privo di creatività, organizzato nella logica del fordismo puro, che ogni giorno ti rende intruso nella vita degli altri. Dove correre lungo i confini della privacy dei possibili clienti rappresenta il raggiungere o meno una retribuzione “decente”.
Non tutto è uguale, ci sono ovviamente anche imprese che provano ad essere luoghi di lavoro strutturati, con mobilità professionale, contratti a tempo indeterminato, normali relazioni sindacali.
Imprese che sono oggi in difficoltà, che si interrogano sulla fine degli incentivi, su un mercato fatto di gare al massimo ribasso, dove risuona la parola delocalizzazione.
Un mercato che spinge su velocità e riduzione dei costi, dal privato come dalle pubbliche amministrazioni.
Perché sono imprese non luogo, non vi sono vincoli, né impiantistici, né geografici. Se si poteva prenotate un volo svizzero telefonando in India, si potrà chiedere un duplicato della tessera sanitaria parlando con la Tunisia.
E’ stato raccontato che era la modernità del lavoro, sicuramente è la scomposizione, è la domanda sospesa del post-industrialismo, è il lavoro che non fa qualità.
E’ il lavoro che non da identità, non da sicurezza, determina una lunga transizione, non permette la responsabilità.
Che fare? E’ comunque il lavoro di decine di migliaia di giovani, spesso nelle città meridionali, spesso l’unica attività a cui ambire. Oggi nella crisi bisogna difenderlo; oltre la crisi: un laboratorio per reinventare il lavoro, perché dare senso al lavoro è rilevante affinchè precarietà del contratto di lavoro e precarietà di vita non diventino sinonimi.