Marco Biagi –Ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia
1. Il Rapporto del Gruppo di Alto Livello sulle Relazioni Industriali e il cambiamento nella Unione Europea (d’ora in avanti: il Rapporto) offre diversi spunti di riflessione in merito alle tendenze evolutive dei sistemi europei di relazioni industriali. Non si tratta di uno studio, ma di un documento che ha valenze propositive sulle quali vorrei soffermarmi per proporre la mia lettura. Anche perché il senso complessivo del Rapporto è davvero preciso: occorre cambiare le relazioni industriali. Si tratta naturalmente di discutere come ed in che termini.
Il Rapporto ha infatti cercato di indicare come le relazioni industriali possano contribuire a rispondere a tutte le principali sfide che l’Europa è chiamata ad affrontare: la globalizzazione, l’allargamento della Unione Europea, l’Unione Monetaria, l’innovazione tecnologica e la transizione a una economia basata sulla conoscenza, il mutamento del mercato del lavoro, il cambiamento demografico e i nuovi equilibri tra famiglia, lavoro e istruzione. Il compito che era stato affidato a seguito del Consiglio Europeo di Nizza consisteva, più precisamente, nel delineare i modi in cui gli attori delle relazioni industriali, ma anche i Governi nazionali, la Commissione e altri policy-makers, possono rispondere alle sfide appena menzionate e svolgere un ruolo trainante nella prospettiva della modernizzazione attraverso un significativo dialogo sociale, una maggiore partecipazione e una rinnovata partnership.
Da questo specifico punto di vista, il Rapporto rappresenta un tentativo di approfondimento di quanto già emerso dal Rapporto della Commissione Europea sulle Relazioni Industriali del marzo 2000 [1], che forniva una sorta di fotografia – per qualcuno invero sin troppo neutra e descrittiva [2] – dello stato delle relazioni industriali in Europa. Ed in effetti, sulla scorta del mandato ricevuto, il Rapporto non esita invece a formulare valutazioni di merito e giudizi di valore, nonché a proporre raccomandazioni agli attori delle relazioni industriali chiamati a gestire il processo di cambiamento in Europa.
L’elemento carattarizzante che ha ispirato il mandato del Gruppo di alto livello è stato, come vedremo meglio successivamente, la nozione di «qualità» nelle relazioni industriali [3].
In questa prospettiva, il Rapporto cerca di delineare:
1) quale sarà il ruolo delle relazioni industriali nel nuovo contesto di una economia della conoscenza e quali partnership nuove o rinnovate saranno necessarie per gestire con successo il cambiamento, visto l’emergere di nuove forme di governance;
2) quale sarà la portata e il contenuto delle relazioni industriali in una economia della conoscenza, e segnatamente quali saranno le nuove priorità e i nuovi temi che dovranno essere affrontati, in vista di un miglioramento della qualità delle relazioni industriali e di un loro positivo contributo alla gestione del cambiamento, anche nella prospettiva dell allargamento della Unione Europea;
3) quali strutture e procedure contribuiranno meglio a innalzare la qualità delle relazioni industriali e in che modo tali strutture e procedure possono essere implementate efficacemente a livello europeo.
Del Rapporto [4] è doveroso segnalare brevemente la sua strutturazione e i principali contenuti. Se si prescinde dalla introduzione, dalle conclusioni e dall’executive summary, il Rapporto è composto da una prima sezione volta a identificare le diverse sfide per le relazioni industriali e a segnalarne il grado di priorità. Ad essa seguono tre ulteriori sezioni portanti che rappresentano il nucleo centrale del Rapporto.
Un primo capitolo che sorregge il nucleo centrale del Rapporto affronta la questione di come rinnovare l’agenda europea delle relazioni industriali. In esso viene delineato un quadro generale degli strumenti utilizzabili dagli attori delle relazioni industriali per rafforzare la competitività e l’innovazione, ma anche per conseguire l’obiettivo della coesione sociale. I temi trattati in questa sede attengono alla flessibilità salariale, all’apprendimento permanente e alla formazione di competenze specifiche, alle nuove forme contrattuali e di organizzazione del lavoro, alla politica di genere, alla protezione e inclusione sociale anche in funzione del processo di adeguamento dei Paesi candidati.
Un secondo capitolo analizza i rapporti tra relazioni industriali e Governance. In esso viene discussa sia la connessione tra contrattazione collettiva e dialogo sociale sia l’interazione tra attori delle relazioni industriali e politiche nazionali del lavoro e della occupazione. Sotto il primo profilo, coincidente con i rapporti bilaterali, vengono delineati compiti e funzioni della contrattazione collettiva a livello locale e nazionale di categoria e le relative interrelazioni con il livello comunitario. Nella seconda prospettiva viene delineato un nuovo approccio al tripartitismo, nella sua dimensione locale, nazionale ed europea.
Il terzo ed ultimo pilastro che sorregge il nucleo centrale del rapporto affronta infine la questione cruciale di come migliorare il ruolo delle relazioni industriali nella Unione Europea e si articola a sua volta in cinque segmenti: 1) come potenziare i processi in materia di relazioni industriali a livello europeo; 2) come rafforzare gli strumenti delle relazioni industriali a livello europeo; 3) come attivare in processo di benchmarking della qualità delle relazioni industriali; 4) come sfruttare le sinergie; 5) come garantire un approccio completo nei confronti del cambiamento.
In estrema sintesi si può rilevare che il Rapporto, attingendo alle prassi e alle tendenze presenti nei diversi Paesi e nella Unione Europea per far fronte alle sfide del cambiamento (id est le sfide della modernizzazione), elabora i contenuti possibili di una nuova agenda per le relazioni industriali, che si può sviluppare a livello europeo, nazionale e locale.
Uno sforzo particolare è diretto a evidenziare come le relazioni industriali, condotte a livello europeo, possono migliorare la gestione del cambiamento rinnovando i contenuti e gli strumenti a disposizione e rafforzando responsabilità, sensibilità e rappresentanza: con la razionalizzazione delle procedure di consultazione e concertazione, creando un unico Comitato al più alto livello politico; con lo sviluppo del dialogo sociale bilaterale, facendo pieno ricorso ad una vasta gamma di strumenti sulla scorta di un programma di lavoro congiunto; con l’incentivazione del dialogo sociale di categoria, come potente strumento per affrontare problemi specifici e realizzare lo scambio di best practices; con l’offerta di nuovi mezzi a sostegno del dialogo sociale, mezzi particolarmente necessari nei Paesi candidati.
Nell’executive summary del Rapporto sono riassunti in undici punti tutte le principali conclusioni cui siamo pervenuti nel corso del nostro lavoro. In questa sede, che vuole rappresentare una tappa significativa del dibattito sulla progettazione del futuro delle relazioni industriali credo sia importante soffermarci in particolare su due specifici punti di riflessione sollevati dal Rapporto, e cioè su quei profili che meglio di altri si inseriscono nel dibattito di questi giorni: i modelli e i livelli della contrattazione collettiva, da un lato; l’europeizzazione e il benchmarking della qualità delle relazioni industriali, dall’altro lato.
Questo non prima tuttavia di avere sottolineato, proprio alla luce delle considerazioni sviluppate dal Rapporto, l’estrema importanza di esercizi come quelli condotti nella seconda sessione di questo convegno, incentrati sulla valutazione di case-studies circa le pratiche adottate a livello di impresa e riferite all’introduzione di tecniche innovative per la gestione delle risorse umane con riguardo, in particolare, a sistemi di retribuzione incentivante, alla modulazione dell’orario di lavoro o a tipologie di lavoro innovative secondo il quanto sollecitato dal pilastro sulla ‘adattabilità’ della Strategia Europea per la occupazione. Ricordo in proposito come l’agenda sociale adottata al Vertice di Nizza avesse invitato il Gruppo di Alto Livello sulle Relazioni Industriali e il cambiamento nella Unione Europea ad attingere, nel definire la propria metodologia, alla notevole expertise e conoscenza in materia di best practices, ad esperienze innovative e ad esempi di benchmarking, implementati da imprese, organizzazioni sindacali, consigli d’azienda o qualunque altra organizzazione o istituzione a tutti i livelli (UE, nazionale, locale, aziendale), e che potessero essere ritenuti pertinenti.
2. Dato per scontato che esiste una enorme diversità di prassi e processi in materia di contrattazione collettiva tra i vari Stati membri, il Gruppo di Alto Livello sulle Relazioni Industriali e il cambiamento nella Unione Europea è riuscito a raggiungere, su questo come su altri temi particolarmente complessi e controversi, una visione generale condivisa e – credo – di particolare equilibrio.
La premessa del ragionamento svolto dal Gruppo è che le relazioni industriali possono apportare un importante contributo ad una buona governance, intesa come il modo in cui una società si organizza e si gestisce, al fine di operare ed attuare scelte adeguate. Il Rapporto è puntuale nel segnalare come stia emergendo in Europa un sistema di governance a più livelli e come gli stessi protagonisti delle relazioni industriali stiano sviluppando un nuovo sistema articolato su più livelli per condurre le proprie strategie. Ciò riguarda non solo i processi endo-associativi, di rilievo interno alle organizzazioni sindacali e alle associazioni datoriali a livello locale, di categoria, nazionale ed europeo, ma anche i rapporti tra i livelli della contrattazione collettiva.
Da questo punto di vista, per gli autori del Rapporto, le relazioni industriali possono contribuire alla governance privilegiando i seguenti rapporti:
– rapporto tra i vari livelli (europeo, nazionale, locale, di singola azienda), tenendo conto della distinzione tra le relazioni industriali di categoria e quelle intersettoriali;
– rapporto tra processo bilaterale e processo trilaterale;
– rapporto tra differenti procedure (consultazione, concertazione, contrattazione collettiva, ecc.) e strumenti (accordi, linee guida, ecc.).
In questo contesto, il Rapporto sottolinea la persistente centralità della contrattazione collettiva nel funzionamento del sistema di relazioni industriali, alla stregua di un processo decisionale congiunto tra organizzazioni autonome e rappresentative di contrapposti interessi. La contrattazione collettiva è ancora oggi la più importante istituzione di regolamentazione dei rapporti di lavoro nelle economie di mercato dei Paesi democratici e, in quanto tale, rimane ‘la via maestra’ per la determinazione delle condizioni di lavoro.
Il valore aggiunto rispetto ai processi eteronomi di normazione è chiaramente evidenziato dal Rapporto: in quanto risultano esse stesse artefici delle regole poste in essere, le parti negoziali accettano di assumersi la responsabilità congiunta della loro effettiva attuazione, tenendo sempre conto della necessità di una maggiore coesione sociale, unitamente ad una maggiore competitività delle imprese europee. Ma non solo. Secondo una tradizionale ma sempre attuale ricostruzione, la funzione più importante della contrattazione collettiva, in stretto rapporto con la promozione della ‘legalità intersindacale’ nei rapporti di lavoro, rimane quella di ridurre l’incertezza di fronte a cui si trovano sia i lavoratori che il management.
Il Rapporto ci ricorda, al riguardo, come per i lavoratori, la contrattazione collettiva assolva la triplice funzione di garantire loro protezione, offrendogli rappresentanza e consentendo di godere dei frutti della formazione, della tecnologia e della produttività. Dal punto di vista datoriale, la contrattazione collettiva rimane il principale strumento di composizione del conflitto, contribuendo a conferire maggiore legittimazione alle prerogative del management e alla organizzazione del lavoro altrui. Una buona contrattazione collettiva è, dunque, in grado di conciliare gli aspetti relativi alla distribuzione con quelli relativi alla competitività, creando le condizioni per il cambiamento e per soluzioni vincenti sia per il management che per i dipendenti.
In questa prospettiva, seguendo una impostazione già anticipata in Italia dal Libro Bianco del Governo sul mercato del lavoro, il Rapporto evidenzia come la contrattazione collettiva pare funzionare meglio se radicata in un processo di dialogo sociale, e cioè in un processo attraverso il quale i protagonisti si informano reciprocamente delle loro intenzioni e potenzialità, elaborano le informazioni che ricevono e chiariscono e spiegano le loro ipotesi e le loro attese. Il dialogo sociale – precisa il Rapporto – non può essere confuso con la contrattazione, ma pur tuttavia offre un contesto per una contrattazione più efficace.
Con specifico riferimento alle linee di tendenza evolutive il Rapporto, preso atto che il livello di categoria è ancora oggi predominante in molti Stati membri, è netto nel segnalare come sia da tempo in atto una vigorosa spinta verso il decentramento degli assetti della contrattazione collettiva. Secondo il Rapporto, anzi, poiché si basa sulle tendenze di lungo periodo della concorrenza a livello internazionale, sui cambiamenti tecnologici e organizzativi, sulla individualizzazione e sulla diversità dei mercati del lavoro, è facile prevedere che, quantunque non tutti i Paesi o settori si muoveranno nella stessa direzione o alla stessa velocità, questa tendenza continuerà anche nei prossimi anni.
Le ragioni del decentramento della contrattazione collettiva sono varie e oggetto di una intensa riflessione scientifica, anche comparata. Paradossalmente, come più volte rilevato, la globalizzazione e la internazionalizzazione dei mercati si sono tradotte in una spinta verso la diversificazione e verso il locale, aumentando le pressioni sui datori di lavoro e sulle organizzazioni sindacali, affinché concludano accordi salariali in linea con le condizioni del mercato del lavoro locale.
Le indicazioni per il dibattito italiano sono, a questo proposito, in larga parte scontate. Le relazioni industriali devono oggi essere riviste in termini di competitività e contributo alla modernizzazione. Non è più possibile utilizzare schemi del passato che penalizzano le imprese italiane nella competizione internazionale. Occorre dunque riflettere sui modelli utilizzati dai competitori nel mondo e trarne le logiche conseguenze. Occorre, in altri termini, un nuovo sistema di relazioni industriali che non penalizzi le aziende italiane, costituendo per esse un elemento di vantaggio competitivo.
E’ noto come i maggiori competitori nella America del Nord ed in Asia si avvantaggiano di due fattori chiave: 1) sindacalizzazione scarsa o addirittura inesistente (soprattutto in USA) e, comunque, in caso di sindacalizzazione, intensa collaborazione ed assenza di conflitto (ad esempio in Giappone); 2) esistenza in ogni caso di un unico livello contrattuale. Si tratta di un elemento reale di cui occorre tener conto perché è innegabile che il cambiamento nelle relazioni industriali europee debba tener conto anche dei contesti extracontinentali.
Occorre quindi rivedere anche il sistema italiano, pur nelle diversità che caratterizzano la situazione europea continentale e senza negare le specificità del modello sociale europeo, volto a contemperare l efficienza con la giustizia e la coesione sociale. In questa prospettiva, la struttura della contrattazione collettiva dovrebbe essere profondamente rivista per consentire alle aziende italiane di competere senza penalizzazioni con i competitori in diverse aree geografiche. Il principio base dovrebbe essere quello della sussidiarietà. Ogni imprenditore dovrebbe cioè poter trattare al livello considerato più opportuno ed adeguato tenuto conto dell’oggetto del negoziato stesso. Questo principio – sempre solennemente affermato e condiviso a livello di Unione Europea – deve essere applicato anche alle relazioni industriali.
Nella situazione italiana potrebbe allora essere opportuno riflettere sulla transizione da un sistema a più livelli contrattuali, interconnessi tra loro, qual è quello sancito dal Protocollo del 1993 e confermato dall’Accordo di Natale del 1998, ad un modello basato su un unico livello di contrattazione, a scelta delle parti e quindi ispirato ad una logica di alternatività tra contrattazione di primo e secondo livello. La struttura della contrattazione collettiva non può infatti essere imposta all impresa, ma deve essere da questa liberamente condivisa. Occorre restituire libertà nella alternatività tra la adozione di un contratto collettivo inter-aziendale ed il negoziato per ogni singola unità di lavoro, anche sub-aziendale nel caso di siti produttivi collocati in zone geografiche significativamente diversificate.
E del resto il Libro Bianco del Governo a ricordarci che la centralizzazione della contrattazione collettiva garantita dagli Accordi del 1992 e del 1993 anche se contribuisce a regolare la coerenza macroeconomica, tuttavia ostacola gli aggiustamenti relativi dei salari, ciò che aiuterebbe il processo di riduzione della disoccupazione.
Naturalmente il processo di decentralizzazione non può essere sviluppato adeguatamente senza coordinamento. Come evidenziato nel Rapporto, l’attuale paradosso nelle relazioni industriali è rappresentato dal fatto che è necessario un certo grado di coordinamento per garantire un decentramento efficace. Perciò, adeguati livelli di sicurezza collettiva e di compromesso strategico a livello di categoria, nazionale o europeo, saranno le chiavi del successo della contrattazione a livello aziendale in futuro.
Vero è tuttavia che, alla luce della recente riforma del Titolo V della Costituzione il contratto collettivo di primo livello potrebbe anche subire un’evoluzione nel senso di una regionalizzazione, pur continuando a svolgere il compito di assicurare un trattamento economico e normativo comune a tutti i lavoratori cui si riferisce. Non si deve peraltro dimenticare come, ancor prima della ratifica referendaria della Legge Cost. 18 ottobre 2001, n.3, siano potute sviluppare nel nostro Paese, accanto alle tradizionali esperienze dei patti territoriali per l’occupazione e dei contratti d area, forme di contrattazione locale a favore dell occupazione anche nelle aree forti del Paese, in funzione dell inserimento nel mercato del lavoro di taluni particolari gruppi di lavoratori.
Questo è, per esempio, il caso di Milano, dove è stato sottoscritto un accordo (il patto Milano Lavoro) particolarmente innovativo e che, quantunque circoscritto a talune categorie di lavoratori a rischio di emarginazione sociale (extracomunitari privi di occupazione, disoccupati di lungo periodo, over quarantacinque, etc.), ha chiaramente anticipato forme di federalismo e autonomismo nella regolamentazione del mercato del lavoro [5]. Di più, proprio queste forme di contrattazione locale riescono ad anticipare sperimentazioni che successivamente possono essere estese a livello nazionale. Senza il Patto di Milano infatti non sarebbe stata possibile la parte finale del processo traspositivo riguardante la direttiva comunitaria sul contratto a termine.
Le caratteristiche del mercato del lavoro italiano sembrano imporre la scelta di un assetto contrattuale effettivamente rispondente alle dinamiche territoriali e locali. Spetterà agli stessi agenti contrattuali definire il campo di applicazione territoriale che – in linea di principio – corrisponderà all’ambito regionale, ma potrà anche riguardare dimensioni più ampie o, al contrario, ancor più limitate (distretti, ecc.). Tale regionalizzazione potrebbe riguardare interi settori produttivi, secondo un modello ampiamente sperimentato in Germania. In fondo, la possibilità di determinare lo stesso campo di applicazione del contrattazione appare strettamente connaturata con il principio di libertà sindacale.
Il secondo livello di contrattazione potrebbe essere maggiormente liberalizzato, nel senso che all’impresa dovrebbe essere consentito di disapplicare il contratto collettivo di primo livello ove raggiunga un accordo che disciplini tutte le materie regolate nella sede geograficamente sovraordinata. A meno che le parti non preferiscano rinviare per alcuni istituti al primo livello, limitandosi a negoziare su certe particolari materie (es. salario, orario, ecc.), ammettendosi comunque la più ampia derogabilità. In via sperimentale si potrebbe avviare immediatamente almeno una prassi di «derogabilità presidiata», consentendo cioè al contratto aziendale di sostituire quello concluso a livello superiore solo su autorizzazione delle parti firmatarie ed in presenza di una circoscritta casistica.
L’esperienza tedesca e quella spagnola delle c.d. clausole di ‘sganciamento salariale’ è assai ricca al riguardo e comunque una soluzione del genere era stata raccomandata anche dalla Commissione di esperti, nominata dal Governo e presieduta dal prof. Gino Giugni, nel rapporto redatto in vista della revisione del protocollo del 1993 che sfociò nel ‘Patto di Natale’ del dicembre 1998. La ‘uscita’ dal primo livello di contrattazione potrebbe avvenire automaticamente in caso di (a) emersione dal sommerso, (b) crisi aziendale, (c) costituzione di nuova impresa. Si tratta di ipotesi ricorrenti anche in alcune proposte contenute nella delega del Governo in materia di mercato del lavoro, anche nella stessa controversa materia dei licenziamenti. Di fronte al perseguimento di un obiettivo prevalente come quello dell’occupazione appare ammissibile il superamento di tradizionali forme di organizzazione interna del sistema contrattuale, così da valorizzare appieno la funzione di job creation dello stesso negoziato collettivo.
Non si può pensare di modernizzare il nostro sistema contrattuale se non a condizione di attribuire al contratto collettivo nazionale di categoria un ruolo di contratto quadro o cornice, considerandolo come un livello che sintetizzi gli orientamenti comuni delle parti in un certo contesto produttivo, suscettibili di essere precisati e definiti con puntualità in accordi aziendali o locali, a seconda della dimensione delle imprese.
Di più, il contratto collettivo nazionale potrebbe trasformarsi nel tempo in una sorta di voluntary agreement, secondo la terminologia recentemente invalsa a livello comunitario e recepita dagli estensori del Rapporto, cioè un intesa non avente in quanto tale una vincolatività giuridica ma suscettibile di essere estesa a livello inferiore a seguito di atti volontariamente e liberamente posti in essere dalle parti.
Molto dipenderà dal reale atteggiarsi del quadro istituzionale a seguito dell entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione e dell effettiva distribuzione di competenze tra Stato e Regioni in materia di lavoro. Qualora prevalesse una lettura sostanzialmente centralizzatrice, gli effetti sulla contrattazione collettiva sarebbero sicuramente minori. Laddove invece le Regioni riuscissero ad affermare una lettura tale da valorizzare la formula ‘tutela e sicurezza del lavoro’ di cui all’art. 117, 2° comma, Cost., il sistema di contrattazione collettiva sarà soggetto sicuramente a maggiori sollecitazioni.
Oggetto di riflessione deve essere anche il rapporto tra contrattazione collettiva ed intese individuali con i lavoratori. Anche a questo proposito vale il confronto comparato. In molti Paesi le imprese concorrenti possono utilizzare i due strumenti, senza imporre una assoluta standardizzazione dei trattamenti economici e normativi, peraltro sempre meno richiesti dai singoli dipendenti. Nei Paesi Bassi ed in Danimarca, per esempio, è in via di sperimentazione un sistema che consente la convivenza delle due fonti contrattuali, definito «a scelta multipla». Sono i singoli lavoratori infatti a poter optare liberamente tra contrattazione collettiva ed intese individuali. Secondo questo modello essi sono liberi di scegliere una serie di tutele a seconda delle proprie convenienze ed aspettative e per un certo periodo di tempo (normalmente un anno): potranno ad esempio veder compensati maggiori disponibilità nella flessibilità dell’ orario con più alti riconoscimenti di premi, congedi o piani pensione od altro ancora.
La sperimentazione di queste proposte – e dei ragionamenti ad esse retrostanti – potrebbe ora essere agevolata da una attenta lettura del Rapporto. In esso si legge infatti che, anche se è vero che spesso il decentramento avviene in risposta alle preferenze dei datori di lavoro, questo non necessariamente si pone contro gli interessi dei lavoratori. La contrattazione collettiva decentrata può anzi facilitare l’adattabilità alla domanda e alle condizioni dell’offerta locale, con vantaggio degli stessi lavoratori in termini di sicurezza e continuità del reddito e della occupazione. La contrattazione a livello aziendale o di unità produttiva può peraltro offrire ai lavoratori una maggiore possibilità di scelta in relazione all orario di lavoro, alle ferie, ai congedi ecc., riflettendo meglio le preferenze divergenti dei lavoratori tra tempo libero o maggior reddito, all interno di una forza lavoro che diventa sempre più eterogenea.
Il Rapporto riconosce come taluni degli effetti dell’attuale processo di decentramento siano ancora incerti e fonte di controversie. Proprio per questa ragione, assumono oggi maggiore importanza adeguate strutture di rappresentanza, consultazione ed informazione sul posto di lavoro e a livello aziendale. Profilo questo che spinge, parallelamente, verso forme istituzionali di partecipazione.
Ho già avuto modo di rilevare che i temi della partecipazione dei lavoratori devono essere materia gelosamente concordata tra le parti sociali, evitando il più possibile interferenze di ordine legislativo [6]. In linea di principio le imprese sembrano guardare con interesse a relazioni industriali caratterizzate da un coinvolgimento dei lavoratori sotto forma di azionariato dei dipendenti od altre tecniche analoghe da tempo sperimentate sia negli Stati Uniti sia in Francia. Sarebbe utile riprendere appena possibile il ragionamento sull utilizzazione del trattamento di fine rapporto (TFR) per la costituzione dei fondi pensione, salvaguardando ben s’intende il principio di assoluta volontarietà. Tuttavia occorre aver sempre a mente la necessaria sperimentazione che soluzioni di questa natura devono avere, nonché l’inevitabile differenziazione della relativa disciplina. E ancora una volta la contrattazione aziendale a poter produrre le applicazioni sperimentali più utili ed è pertanto in questa sede che converrebbe innanzitutto avviare un confronto costruttivo, sempre che i rappresentanti dei lavoratori siano in grado di avanzare proposte coerenti ed unitarie.
3. Il tema dei livelli della contrattazione collettiva è, a ben vedere, solo uno dei numerosi esempi attraverso cui dimostrare come non sia oggi più possibile mantenere inalterato un sistema di relazioni industriali che, per vari aspetti e ragioni, non pare sufficentemente conforme alle indicazioni comunitarie ed alle migliori prassi derivanti dall’esperienza comparata.
Per progettare il futuro delle relazioni industriali occorre in primo luogo accettare la dinamica di una corretta competizione tra imprese a livello europeo. Gli interventi comunitari regolano il nuovo mercato domestico e il sistema italiano non può conservare istituti o regole che non siano presenti in altri ordinamenti: la concorrenza ne risulterebbe distorta. Del pari occorre rivedere il nostro sistema alla luce degli assetti normativi e contrattuali esistenti altrove. Per arginare la tendenza alla delocalizzazione non c è che un modo: competere con regole se non identiche, almeno comparabili.
Le relazioni industriali italiane si sono sviluppate per regolare un mercato nazionale. Sono quindi palesemente inadatte, senza adeguati punti di riferimento sovranazionali, a svolgere una funzione in un contesto in cui il mercato è ormai divenuto continentale e globale. La stessa inadeguatezza del quadro normativo nazionale rispetto alle indicazioni comunitarie e alla esperienza comparata non può essere valutata solo in relazione al grado di differenziazione del diritto del lavoro italiano rispetto alla media (se non alle punte di avanzate) degli altri Stati membri, da misurarsi attraverso una astratta opera di comparazione per singoli istituti e discipline. Si tratta, piuttosto, di accogliere una nuova filosofia – che è poi la filosofia del legislatore comunitario e di quei Paesi europei che meglio si sono orientati nella modernizzazione del diritto del lavoro – volta a eliminare gli ostacoli alla competitività delle imprese e all adeguamento del quadro legale al dato socio-economico, pur nel rispetto di una cornice di diritti sociali fondamentali.
Concepito il sistema di relazioni industriali – sia a livello macro sia nella prospettiva micro – come elemento fondamentale per realizzare un vantaggio competitivo, occorre che la rappresentanza associativa delle imprese adotti una strategia ispirata ad una maggiore proattività, non limitandosi ad una semplice reazione alle proposte del Governo o della controparte sindacale. Ricordo in proposito che in altri Paesi, soprattutto in Francia ed in Svezia, ispirandosi in ciò al modello tedesco, la rappresentanza associativa degli imprenditori si è assunta la responsabilità di avanzare proposte di rinnovamento radicale del sistema di relazioni industriali.
Anche in Italia è auspicabile che ciò avvenga, facendo proprio il richiamo del Consiglio europeo straordinario sull’occupazione di Lisbona (marzo 2000) che ha invitato anche le parti sociali a progettare e realizzare una profonda modernizzazione del modello sociale europeo, con il mandato preciso di promuovere e regolare l’investimento in risorse umane, contrastando al tempo stesso il fenomeno dell esclusione sociale. Un mandato ribadito dai Consigli europei successivi, che hanno riconfermato l obiettivo di modernizzare il modello sociale europeo, anche migliorando la qualità dei rapporti di lavoro.
Le relazioni industriali a livello europeo stanno già offrendo una gamma molto diversificata di strumenti volti a modernizzare i rapporti di lavoro. La chiave del successo sta nello scegliere lo strumento giusto, adeguato al contenuto in esame, e nell assicurare che lo strumento scelto sia pertinente a ciascun livello.
Per questa ragione il Rapporto ha accolto con particolare favore l intenzione delle parti sociali di aprire un dibattito sulla stesura di un programma di lavoro pluriennale, come indicato nella loro ‘Dichiarazione congiunta di Laeken’. In questa sede le parti sociali a livello europeo hanno proposto di razionalizzare e semplificare il processo di consultazione e concertazione, affidandolo a un nuovo comitato al più alto livello politico, da tenersi periodicamente in prossimità del Consiglio europeo di primavera.
Il Rapporto evidenzia come una tale articolazione sia di primaria importanza, in quanto offre alle parti sociali la possibilità di discutere delle politiche interdipendenti previste dalla strategia di Lisbona. Ritiene inoltre che il seguito dato a tale concertazione, nonché i suoi impatti, vadano chiaramente inseriti nelle azioni intraprese dalle varie parti coinvolte.
Un’impostazione del genere sarebbe di grande utilità anche nel contesto italiano. Per praticare nel modo più virtuoso il dialogo sociale, nella migliore accezione accolta nel Trattato dell’Unione Europea, sarebbe auspicabile che si addivenisse ad una condivisione di un programma di lavoro, su scala anche annuale per iniziare, che consentisse al Governo, al Parlamento ed alle Regioni di determinare la propria attività. Si tratterebbe di un grande salto di qualità, a conferma di quanto il livello comunitario possa davvero orientare l’evoluzione dei sistemi nazionali.
E’ del resto evidente che, accanto alla spinta al decentramento degli assetti della contrattazione collettiva, si assiste parallelamente a una progressiva accentuazione della importanza strategica del livello europeo. Su scala comunitaria si determinano infatti le scelte più importanti e condizionanti anche per il nostro sistema di relazioni industriali. Lo stesso legislatore nazionale si limita ormai sovente ad intervenire per adempiere ad obblighi di trasposizione. Basta pensare in proposito alle direttive sul lavoro a tempo parziale e sul lavoro a tempo determinato, sino a giungere al capitolo dedicato alla partecipazione aperto in questi giorni con la trasposizione della direttiva sui Comitati Aziendali Europei e ora rilanciato in funzione del processo di trasposizione della direttiva sulla Società Europea.
Si tratta di un’agenda di lavoro per certi aspetti ineludibile, L’imminente apertura di un confronto, richiesto dal Governo, sulla Società Europea e sulla direttiva riguardante i diritti di informazione e consultazione nelle imprese nazionali, impone anche al mondo delle imprese una riflessione alla quale non sempre si è dimostrato preparato. In questo caso il problema non è infatti tanto se promuovere la partecipazione dei lavoratori quanto come realizzare un assetto maggiormente partecipativo delle relazioni industriali su scala micro. E dovranno essere le stesse parti sociali a dare una risposta ad un tema così decisivo.
Abbandonata la tendenza vincolistica degli anni Settanta-Ottanta, il livello comunitario sta ora divenendo sempre più motore di modernizzazione. Alcune iniziative della Commissione possono essere utilmente orientate verso un attività di dialogo sociale corrispondente alle attese delle imprese e dei lavoratori. In altri casi (es. partecipazione dei lavoratori nell ambito degli organi di gestione previsti dallo statuto della Società europea, proposta di direttiva sui diritti di informazione e consultazione nelle imprese a livello nazionale), appare necessario rimarcare il rispetto del principio di sussidiarietà, riconoscendo le tradizioni e le prassi dei sistemi nazionali di relazioni industriali.
Certo è che il livello europeo delle relazioni industriali ha assunto un ruolo importante e ha dato origine a notevoli aspettative all’interno degli Stati Membri. In questo contesto, come evidenziato dal Rapporto, il livello europeo ora sembra trovarsi in posizione particolarmente privilegiata per offrire un significativo valore aggiunto, affrontando i nodi strategici comuni per il futuro delle relazioni industriali, e facilitando accordi nazionali adatti alla situazione di ciascuno Stato membro.
Il contesto dell’Unione Europea deve essere visto non come un vincolo ma una vera opportunità. Per questa ragione occorre assicurarsi che il ruolo strategico del livello europeo venga colto e sfruttato a pieno a livello nazionale e che nei dibattiti e nelle discussioni a livello nazionale si tenga conto della dimensione comunitaria.
4. Il livello comunitario dovrebbe peraltro facilitare l’efficiente scambio di best practices derivanti da esperienze condotte a livello nazionale, locale e aziendale. Ciò promuoverà il benchmarking e l apprendimento reciproco e sottolineerà anche l importanza della negoziazione tra le parti sociali a livello europeo.
Attraverso lo scambio di informazioni e di buone prassi, pare possibile aiutare le parti sociali a migliorare la qualità delle loro relazioni e a identificare regole appropriate per disciplinare queste relazioni. Occorre valutare positivamente questo nuovo approccio metodologico, credo adeguatamente valorizzato nel Rapporto, aperto alla sperimentazione nel campo degli strumenti a sostegno della implementazione di una politica sociale.
E stato del resto il Consiglio europeo di Nizza a rilevare che per raccogliere le nuove sfide l’agenda sociale europea «deve (& ) porre l’accento in tutti i settori della politica sociale sulla promozione della qualità. La qualità della formazione, la qualità del lavoro, la qualità delle relazioni industriali e la qualità di tutta la politica sociale sono elementi fondamentali per il conseguimento degli obiettivi che l’Unione europea si è prefissa in materia di competitività e di piena occupazione».
La qualità del mercato del lavoro del lavoro dipende in effetti anche dalla qualità del sistema di relazioni industriali, e viceversa. In questo senso una della proposte più incisive del Rapporto è proprio quella di realizzare un benchmarking anche in materia di relazioni industriali [7]. A questo proposito, è necessario sviluppare alcuni indicatori per misurare i progressi e, contemporaneamente, per promuovere il ‘fattore qualità’ nelle relazioni industriali, seguendo così le raccomandazioni evidenziate nella Agenda di politica sociale.
Riprendendo quanto già evidenziato dalla dottrina sulla scorta delle linee guida annuali per la occupazione [8], il Rapporto suggerisce di fare assegnamento sui seguenti criteri per misurare la qualità delle relazioni industriali:
1) il contributo apportato in materia di coesione sociale, di competitività e di crescita economica sostenibile;
2) la misura in cui la piena occupazione rappresenta un obiettivo generalizzato, garantendo nel contempo eque ed accettabili condizioni di lavoro a tutti i lavoratori;
3) il contributo alla creazione di posti di lavoro di qualità, promuovendo l’occupabilità e la modernizzazione del quadro normativo, in linea con i cambiamenti nell organizzazione del lavoro;
4) la promozione dell’invecchiamento attivo, teso ad aumentare la capacità e gli incentivi per i lavoratori più anziani a rimanere in attività;
5) la misura in cui viene facilitato un maggiore accesso di tutti i lavoratori, ivi compresi quelli con contratti atipici, alla formazione permanente, incrementando in tal modo la percentuale di adulti in età lavorativa che in ogni momento partecipano ad attività di formazione ed istruzione;
6) il contributo apportato per evitare la mancanza di competenze professionali, ivi compreso il contributo offerto dalla promozione della mobilità occupazionale e geografica;
7) la presenza di misure efficaci di prevenzione e di politica attiva dell’occupazione tese a promuovere l’integrazione sul mercato del lavoro di categorie ed individui a rischio o con difficoltà, in modo da evitare l emarginazione, l emergere dei ‘poveri che lavorano’ e quindi la deriva dell esclusione sociale;
8) la presenza di misure adeguate di integrazione sul mercato del lavoro di lavoratori disabili, minoranze etniche e lavoratori migranti;
9) il grado di applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza sul posto di lavoro, compresa la formazione e promozione di misure tese a ridurre gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (in settori tradizionalmente ad alto rischio);
10) il mainstreaming di genere;
11) la presenza di parti sociali altamente rappresentative, ovvero comunque in grado di rappresentare la maggior parte dei datori di lavoro e dei lavoratori, o attraverso la partecipazione diretta alle organizzazioni o attraverso altri canali (ad esempio, sostegno ad azioni conflittuali);
12) un ampio campo di applicazione della contrattazione collettiva, comprensivo di tutte le forme di lavoro atipico;
13) la capacità di migliorare il modo di prevenire e/o comporre le controversie di lavoro senza il ricorso alla giustizia ordinaria, ovvero attraverso meccanismi stragiudiziali di mediazione, conciliazione e arbitrato, sia per casi collettivi che per casi individuali;
14) il livello di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale, ivi compresa la partecipazione finanziaria, aumentando in tal modo la produttività della forza lavoro.
Va da sé che occorre sviluppare indicatori comparabili, in modo che sia possible valutare l’applicazione e l’impatto dei suddetti criteri qualitativi ed elaborare ulteriori target, al fine di facilitare l’individuazione e lo scambio di best practices.
Tuttavia si tratta di scelte assai precise, per nulla diplomatiche o neutrali, che potranno anche non incontrare il consenso degli attori sociali. Esse si pongono nella stessa prospettiva delle deliberazioni del Consiglio che recentemente (dicembre 2001 ha selezionato un elenco di indicatori sulla qualità del lavoro. Fra essi spicca certamente, ai fini più direttamente connessi con le relazioni industriali quello riguardante il dialogo sociale e partecipazione dei lavoratori.
Soltanto tre sono gli indicatori per ora individuati in proposito: 1) ‘portata dei contratti collettivi e numero delle imprese a livello europeo che dispongono di comitati di impresa e di rappresentanti dei lavoratori in tali comitati’; 2) ‘percentuale dei lavoratori che hanno un interesse/una partecipazione finanziaria nell impresa in cui sono dipendenti’, 3) ‘giornate di lavoro perse a causa di vertenze di lavoro’. Siamo ancora ad un livello sicuramente assai approssimativo, ma il valore di questi indicatori è ugualmente forte e riguarda la tendenza che secondo il Consiglio dovrebbe caratterizzare il sistema di relazioni industriali a livello comunitario. E si tratta di una tendenza che il Rapporto non esita a confermare.
5. Credo dunque che rappresenti uno sviluppo coerente con le linee di tendenza evolutive presenti in Europa la proposta, contenuta nel Rapporto, di estendere il metodo c.d. di coordinamento aperto alla attività delle parti sociali coinvolte nel processo di trasposizione di direttive comunitarie.
In questo contesto le relazioni industriali, sotto forma di dialogo sociale, rivestono un ruolo che potremmo definire para-pubblicistico, nel senso che il tradizionale intervento normativo dello Stato può efficacemente essere sostituito dalla attività delle parti sociali. Se si conviene sul fatto che la trasposizione di direttive comunitarie non può essere semplicemente assimilata alla tradizionale attività di contrattazione collettiva, rientrante nella autonoma giurisdizione degli attori sociali, il ruolo delle parti sociali in questa sede dovrebbe essere pertanto soggetto a un processo di monitoraggio finalizzato a evitare che la trasposizione delle direttive a livello nazionale si traduca in una occasione per riproporre e alimentare quelle distorsioni competitive che le direttive stesse cercano di rimuovere.
L’applicazione del metodo di coordinamento aperto potrebbe efficacemente contribuire, in questa prospettiva, ad innalzare la qualità della trasposizione delle direttive comunitarie e, conseguentemente, la stessa qualità delle relazioni industriali, probabilmente fino al punto di stemperare molte delle polemiche e delle violente contrapposizioni di tipo puramente ideologico (vedi la vicenda sul lavoro a termine) [9] che hanno segnato nel nostro Paese il dialogo sociale. E questa, in altri termini, la strada più praticabile per consentire alle relazioni industriali di contribuire alla modernizzazione della organizzazione del lavoro. In questo senso si esprime lo stesso Libro Bianco del Governo sul mercato del lavoro, in una delle parti più rilevanti sul piano metodologico, ancorchè, almeno finora, ignorate dalle parti sociali.
La trasferibilità del metodo di coordinamento aperto alla politica sociale (essendo già stata accolta dal Trattato UE nell’ambito di quella sull’occupazione) sembra particolarmente raccomandabile anche in considerazione dell’impegno assai limitato delle parti sociali nell’ambito della Strategia Europea per la occupazione e, segnatamente, in relazione al pilastro 3 sulla adattabilità, che è oggi di primaria (ma non esclusiva) responsabilità dei Governi nazionali.
Occorre peraltro rilevare che il metodo di coordinamento aperto non si limita semplicemente all’esercizio di benchmarking, nella misura in cui rafforza il management per obiettivi adattando le linee guida europee alle peculiarità dei singoli contesti nazionali di riferimento. Il metodo di coordinamento aperto pone infatti una chiara distinzione tra gli indicatori adottati a livello comunitario e le misure concrete attuate dai singolo Stati membri per ciascun indicatore.
L’introduzione di un obbligo in capo alle parti sociali (previsto dalle linee guida sull’occupazione del 2001 e ribadito per il 2002) di riferire annualmente al Consiglio circa i loro sforzi nella prospettiva della modernizzazione del diritto del lavoro e delle relazioni industriali sembra essere un buon inizio nella prospettiva sopra delineata, anche se ovviamente occorre delineare un quadro giuridico-istituzionale di riferimento maggiormente strutturato.
Il metodo di coordinamento aperto potrebbe dunque rappresentare un nuovo modo di regolare il mercato del lavoro e le relazioni industriali, in aggiunta (e non in alternativa) alle tecniche tradizionali incentrate sulla contrattazione collettiva. In luogo di accordi-quadro a livello europeo, secondo la attuale esperienza maturata in seno al Capitolo Sociale del Trattato di Amsterdam, potremmo dunque avere, più frequentemente, linee guida e accordi soft, i c.d. voluntary agreements, di cui un esempio è rappresentato dalla recente esperienza del telelavoro nel settore delle telecomunicazioni [10]. E anche alcuni recenti sviluppi del dialogo tra UNICE e CES sembrano dimostrare come questa prospettiva possa adeguatamente consolidarsi nel corso dei prossimi anni.
Non meno importante è l auspicio del Rapporto secondo cui ‘le parti sociali dovrebbero esplorare nuove modalità di negoziare accordi con interessanti contropartite su entrambi i versanti. Esse dovrebbero – si aggiunge – utilizzare ulteriormente il Trattato, esplorando in profondità la possibilità di concludere voluntary agreements da implementare secondo le loro procedure nazionali’. Non solo ma il Rapporto invita le parti sociali ad analizzare in dettaglio le implicazioni dell’attuale quadro legale ed istituzionale nella prospettiva dell’evoluzione del dialogo sociale bipartito. All’interno del contesto delle attuali riflessioni sul futuro dell’Europa ed in particolare delle possibili riforme del quadro istituzionale (Convenzione sul futuro dell’Europa e Conferenza Intergovernativa 2004), le parti sociali sono invitate ad avanzare proposte di riforma che comprendano anche, ove ritenuto opportuno, il Trattato’.
Si tratta di un’affermazione impegnativa ma anche poco chiara ed è quindi opportuno darne un’interpretazione. La riflessione del Gruppo si è concentrata sugli incentivi che le parti sociali possono avere a negoziare a livello comunitario, soprattutto sul versante datoriale. Sarebbe opportuno – questa in sostanza l’opinione dei componenti del Gruppo – che i contratti collettivi di livello comunitario potessero stabilire condizioni non necessariamente migliorative rispetto a quelle in essere nei singoli Stati Membri o comunque in relazione agli standards di tutela già definiti in sede europea.
In altri termini, se la contrattazione collettiva su scala europea deve essere necessariamente di tipo acquisitivo, difficilmente essa avrà sostanziali sviluppi, per il fondato timore di parte imprenditoriale che comunque ogni intervento non possa non tradursi in nuovi vincoli. Di qui, l’auspicio che le parti sociali possano concordare un’ipotesi di riforma del Trattato che consenta un più duttile uso del contratto collettivo a quel livello, al fine di realizzare una regolazione di interessi che comporti anche una riduzione di tutele su profili specifici, in ipotesi a fronte di complessivi vantaggi ottenuti dai rappresentanti dei lavoratori. Inutile dire che si tratta di un tema assai controverso, sul quale tuttavia conviene confrontarsi senza reticenze.
Non meno innovativo, come già anticipato, è l’invito del Rapporto alle parti sociali a realizzare ‘una loro esperienza di metodo aperto di coordinamento, basato su scambi di esperienze, benchmarking, raccomandazioni, opinioni congiunte e negoziati’. L’idea è quella di un processo del tutto volontario, costruito dalle parti sociali anche per realizzare più efficacemente una dimensione sociale dell’allargamento dell’Unione Europea, utilizzando strumenti diversi dalle tradizionali misure regolatorie attualmente previste dal Trattato (soprattutto direttive). Sarà opportuno, a giudizio del Rapporto, che vi sia un forte sostegno tecnico da parte della Commissione Europea, senza che tuttavia ciò pregiudichi in alcun modo l’autonomia delle parti.
Le novità in fatto di proposte sono ancora molte e vale la pena ricordarne almeno un’altra. Il Rapporto raccomanda infatti alle parti sociali ‘di esplorare la possibilità di dar vita ad una fondazione congiunta di natura bipartita. I suoi compiti potrebbero comprendere lo sviluppo del programma di lavoro di cui si parla nella dichiarazione di Laeken, la preparazione dei negoziati e la supervisione della implementazione degli accordi’. Si tratta di una prospettazione assai interessante che richiama il dibattito attualmente in corso in Italia per quanto attiene al ruolo degli enti bilaterali. Il progetto di delega sul mercato del lavoro presentato dal Governo il 15 novembre 2001 ed attualmente in discussione al Senato, punta molto sul ruolo degli enti bilateriali, giungendo anche ad assegnare loro una funzione certificatoria.
Il Rapporto incoraggia dunque apertamente esperienze di bilateralismo nelle relazioni industriali, conferendo loro funzioni innovative, come appunto la programmazione di attività comuni, preparazione di negoziati, monitoraggio congiunto dell effettiva applicazione di contratti collettivi. Non a caso il livello comunitario viene arricchito dal Rapporto di una ricca prospettiva di autoregolamentazione, in cui le parti sociali si svincolano rispetto ad una funzione puramente reattiva rispetto alle proposte della Commissione.
Si tratta di proposte innovative, certamente tali da suscitare forti perplessità oltre che apprezzabili consensi. Ma il compito di un ‘gruppo di riflessione’ non era certamente quello di fare proposte diplomatiche. Il Rapporto si schiera certamente dalla parte di chi vuole innovazione e modernizzazione delle relazioni industriali. Il Rapporto presuppone una scelta di campo che è quella di cambiare le relazioni industriali.
Ora sta alla Commissione Europea decidere come utilizzare questo Rapporto, soprattutto perché ormai è imminente il Consiglio di primavera sull’occupazione in programma a Barcellona. Nel frattempo le parti sociali devono dire la loro. Confindustria ha sicuramente il merito di poterlo fare per prima, dando certamente un contributo importante al dibattito in corso in Italia ed in Europa.
[1] COM(2000) 113 final.
[2] Sul Rapporto della Commissione Europea sulle Relazioni Industriali del 3 marzo 2000 cfr. il dibattito organizzato dal Centro Studi Internazionali e Comparati dell’Università di Modena e Reggio Emilia su Towards a European Model of Industrial Relations? – Building on the first Report of the European Commission, Modena 1-2 dicembre 2000, in cui atti sono pubblicati a cura di M. Biagi per i tipi di Kluwer Law International.
[3] In tema cfr. M. Biagi, Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2001, I, p. 257 ss. Più recentemente: M. Biagi, O. Rymkevitch, M. Tiraboschi, Literature Review on Europeanisation of Industrial Relations, especially the Quality of the European Industrial Relations benchmarked in the global perspective, ricerca condotta per la Fondazione di Dublino sul miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, in Collana ADAPT, n. 4/2002.
[4] Alla valutazione dei contenuti di dettaglio del Rapporto è espressamente dedicato un prossimo convegno internazionale, patrocinato dalla Commissione Europea e organizzato congiuntamente da ADAPT (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati di diritto del lavoro e delle relazioni industriali) e dal Centro Studi Internazionali e Comparati dell Università di Modena e Reggio Emilia, che si terrà a Modena il 19 e 20 aprile 2002. Per informazioni su questa ulteriore iniziativa di approfondimento rinvio al sito: http://www.economia.unimo.it/Centro_Studi_Intern/home.htm
[5] Sul Patto Milano Lavoro cfr. gli interventi raccolti sul n. 2/2000 di Diritto delle Relazioni Industriali.
[6] M. Biagi, Società Europea, partecipazione dei lavoratori e relazioni industriali in Italia e in Europa, Relazione al Convegno organizzato dalla CISL a Roma lo scorso 7 febbraio 2002.
[7] Per questo profilo cfr. M. Biagi, O. Rymkevitch, M. Tiraboschi, Literature Review on Europeanisation of Industrial Relations, especially the Quality of the European Industrial Relations benchmarked in the global perspective, cit..
[8] Cfr. M. Biagi, Quality in Community Industrial Relations: an Institutional Viewpoint, in The International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations , vol 17, issue 3, 2001, p.385 ss.
[9] Sul complesso processo di trasposizione della direttiva sul lavoro a termine, e sulle polemiche che da essa sono scaturite, cfr. M. Biagi, Il nuovo contratto a termine, Milano, Giuffrè, 2002.
[10] Cfr. M. Buatier, Le linee guida sul telelavoro in Dir. Rel. Ind., 2002 (di prossima pubblicazione).