Dopo le tragedie di Roma e di Taranto sorgono dubbi e domande sul reale funzionamento del sistema di prevenzione e salute italiano sul luogo di lavoro e sulle responsabilità degli attori che vi agiscono. Il Diario del Lavoro ha intervistato Sebastiano Calleri, responsabile nazionale salute e sicurezza Cgil nazionale.
Secondo l’Osservatorio Sicurezza Vega Engineering, nel primo semestre del 2016 in Italia sono 461 le persone vittime di incidenti sul lavoro, di cui il 34,9% tocca la fascia d’età compresa tra i 45 e i 54 anni. Ma l’incidenza maggiore di mortalità riguarda gli ultra sessantacinquenni.
È doveroso fare una premessa. Esiste nel nostro paese un proliferare di dati più o meno ufficiali che, a mio parere, non fa bene alla comprensione del fenomeno. I dati più ufficiali, e allo stesso tempo più contestati, sono quelli Inail, che si riferiscono ai dati denunciati, i casi riconosciuti sono un’altra questione, nel senso che se viene fatta una denuncia di infortunio sul lavoro non sempre l’Inail la riconosce come tale. Il tasso di riconoscimento dell’Inail è intorno al 40% delle denuncie presentate sui numeri agiscono dei fattori, per così dire, esterni, che sono il lavoro nero e il lavoro precario. Entrambi questi casi non sono conteggiati dalle statistiche Inail perché se si lavora in nero e ci si fa male, spesso non viene sporta denuncia dell’infortunio. Quindi questo passa o, nel migliore dei casi, come malattia in conto Inps, o rimarrà così com’è, non denunciato e basta. Seconda cosa: se io sono lavoratore precario, lavoratore a tempo determinato, quindi assolutamente ricattabile, ovviamente avrò molta paura nel denunciare l’infortunio.
Quindi le statistiche dell’Inail non sono del tutto valide?
Non credo sia positivo smontare del tutto le statistiche dell’Inail; bisognerebbe che l’Istituto, anche in collaborazione con la parti sociali, addivenisse a quello che è un lungo percorso anche per il riconoscimento della relatività dei dati, ma cercando di dare un servizio più scientifico ed equo. È importante comunque farsi un’opinione su dati concreti e reali.
In quanto all’aumento rispetto alle fasce di età alta nel mercato del lavoro degli infortuni, è certo che il Jobs Act e prima sicuramente molto di più la legge Fornero hanno avuto un peso sull’andamento degli infortuni. Prima perché c’è un invecchiamento generale della popolazione lavorativa dovuto alla legge Fornero, ma perché vengono assunti pochi giovani nei posti di lavoro, e il Jobs Act in questa cosa ha avuto effetti negativi.
Quale ruolo possono avere le relazioni industriali nella prevenzione degli incidenti ?
Il ruolo del contratto nazionale rimane sempre centrale, però è anche vero che molte delle migliorie sulle reali condizioni di lavoro si fanno nella contrattazione di secondo livello.
Bisogna stare attenti al ruolo delle rappresentanze sindacali sui posti di lavoro. Infatti in fabbrica convivono le Rls (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) e le Rsu. Spesso accade, ed è un limite del sistema, una contrapposizione tra le Rls e le Rsu, nel senso che i titolari della contrattazione sono le Rsu, mentre gli Rls hanno una definizione, nel migliore dei casi, individuata come ancillare rispetto alla contrattazione.
Non si capisce chi ha potere di intervento?
Non dico che le Rls dovrebbero espropriare le Rsu, a mio avviso dovrebbero fare parte integrante delle Rsu e così riuscire a pieno titolo a portare avanti le proprie proposte, anche di tipo contrattuale. In questo modo si eviterebbero quei conflitti che sorgono all’interno del movimento sindacale e ciò accadrebbe in un sistema più partecipativo, più condiviso, più coinvolgente rispetto alle condizioni reali dei lavoratori.
Negli ultimi anni la contrattazione è sempre meno attenta ai temi degli infortuni.
Sì, perché dal 2008 siamo stati costretti a fare contrattazione difensiva a causa della crisi. Quando si contrattano dismissioni, ristrutturazioni aziendali, licenziamenti, è difficile far passare l’idea che anche la sicurezza, è importante nella contrattazione.
Spesso accade che il lavoratore, pur di lavorare, preferisca sottostare a condizioni peggiori piuttosto che pretendere miglioramenti. Lo abbiamo visto negli episodi che sono accaduti a Roma o all’Ilva di Taranto.
Il Servizio Informazione Nazionale sulla Prevenzione, che doveva essere istituito dal 2008 dopo l’approvazione del decreto legge 81 ma non è mai nato, potrebbe risultare un valido strumento di prevenzione?
È come l’araba fenice, non si concretizza mai. Dietro questa inefficienza ci sono dei chiari e ovvi interessi imprenditoriali e anche le resistenze degli istituti coinvolti. Sono decenni che si parla dell’istituzione delle banche dati degli istituti preposti come l’Inail, l’Inps e l’incrocio fra di loro, e questo non viene fatto, viene reso farraginoso, difficile da gelosie e scontri di potere ma anche da un’evidente ideologia dominante delle imprese, restie a far circolare dati e conoscenze su quanto avviene nella fabbrica.
Come è possibile migliorare la qualità normativa e informativa in materia di sicurezza?
In questo momento siamo in una grave fase di stasi del sistema prevenzionale italiano. Non c’è volontà politica di finire e completare l’approvazione del decreto legge 81, molti decreti non sono stati ancora attuati e la disciplina non è stata ancora applicata in settori molto importanti come quello dei trasporti, dell’università e della ricerca. L’unico organo tripartito, lavorano stato, imprenditori e sindacati, non si riunisce da mesi e non funziona da molto tempo. Esiste un nuovo Ispettorato del lavoro che dovrebbe anche occuparsi di salute e sicurezza e ha assorbito tutti gli ispettori del ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail, ma ancora non è bene come organizzato. Ancora, le Regioni potrebbero perdere potere a causa della riforma costituzionale che porta un accentramento nelle mani dello stato e questo potrebbe essere un pericolo, perché le Asl sono a diretto contato con i lavoratori.
Ma tutto va male?
Ci sono comunque delle cose che funzionano, ad esempio il piano nazionale di prevenzione, approvato la settimana scorsa, e i piani territoriali di prevenzione che vengono fatti con il contributo del ministero della Salute.
Spesso accade che i media tendano a “declassare” la questione sicurezza. Crede che questo fattore incida?
Assolutamente sì. I media se ne occupano in maniera scandalistica quando succede un fatto grosso, quando ci sono non morti singole ma morti collettive, o quando avvengono in circostanze particolarmente raccapriccianti. Non si occupano, invece, dell’ordinaria e quotidiana strage nel mondo del lavoro in questo Paese. Di infortuni non mortali si parla poco e si parla ancora meno delle malattie professionali.
Elettra Raffaela Melucci