Le vie del futuro non sono finite. Come dice il titolo dell’interessante seminario organizzato da “Il Diario del lavoro”, che si è tenuto il 26 novembre scorso a Roma, presso lo storico Tempio di Adriano. E’ proprio vero. Ma per dare un futuro al nostro Paese, bisogna creare i presupposti perché le proposte dei rappresentanti del mondo del lavoro e della politica possano trovare attuazione.E così, a margine della tavola rotonda sul tema della “ripresa senza lavoro” che ha aperto il seminario, ho avuto due impressioni.
La prima è che la gran parte dei relatori intervenuti avesse ragione.Anzitutto, Elisabetta Caldera (Direttore delle risorse umane in Vodafone) quando ha detto che il passaggio di competenze dai vecchi ai giovani in azienda è uno strumento di crescita per le nostre imprese. Poi, Ivan Lo Bello (Vicepresidente di Confindustria) quando ha detto che, nell’ottica dell’aumento occupazionale, l’alternanza scuola-lavoro deve essere un diktat. Ed infine, Cesare Damiano (Presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati), quando ha detto che per ridare ossigeno alle imprese incombe la necessità di ridurre il cuneo fiscale.
La seconda impressione, tuttavia, è che il nostro sistema, cosi com’è, impedisca l’attuazione di questi propositi. Vediamo perche’.
Il passaggio di competenze da vecchi a giovani è un’ipotesi che ha incontrato pochi consensi in ciascuna delle declinazioni che ha avuto.Ad esempio: la “staffetta generazionale” promossa dal ministro del Lavoro Enrico Giovannini è stata giudicata troppo onerosa per i bilanci dello Stato, che avrebbe dovuto coprire l’altra metà della contribuzione dei lavoratori anziani a tempo indeterminato trasformati in part-time; del contratto di solidarietà espansiva (art. 2 della legge n. 863 del lontano 1984) ho in mente solo la recente applicazione fatta all’IFOA di Reggio Emilia; dei progetti “ponte” padre-figlio in azienda, come quelli in uso nel settore bancario, ricordo molte critiche sul piano della meritocrazia.
L’alternanza scuola- lavoro, come prevista anche dal recente d.l. 104 del 2013 (ma in realtà anche da un articolo del d.l. 96 del 2013 poi soppresso al Senato), resta impantanata nelle paludi del contratto di apprendistato. Perché questo contratto soffre i “lacciuoli” imposti dal legislatore. Ad esempio, esistono ben tre tipologie di apprendistato, sono complicate le modalità di assunzione, c’è obbligo della formazione aziendale e quindi della presenza di un tutor, o ancora obbligo di un piano formativo individuale, della registrazione dell’avvenuta formazione, ed infine di stabilizzare una percentuale di apprendisti, pena la conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Ed invece, in Germania: c’è un solo tipo di apprendistato; si rivolge a studenti di età non inferiore ai 15 anni dei licei e degli istituti professionali; preclude l’accesso all’università una volta conclusa l’esperienza di formazione-lavoro, posto che l’istruzione terziaria prosegue solo nelle scuole tecniche di specializzazione (Fachhochschule); ed offre una formazione prevalentemente sui lavori manuali, e non anche di concetto.
Infine, la riduzione del cuneo fiscale di certo non farebbe male alle nostre imprese, che soffrono una pressione fiscale di circa il 70%, di cui circa il 43 % di tasse sul lavoro. Ma ne occorre una seria. Per intenderci, come si stima, le imprese trarrebbero seri benefici da una riduzione di circa 10 punti percentuali del cuneo fiscale (1,7% del Pil), per un valore di 27,5 miliardi di euro. Sicché, un taglio del genere non è ad oggi alla portata delle casse dello Stato: utilizzando gli stanziamenti della legge di stabilità 2014 e le risorse della spending review, probabilmente non si centra neanche a metà quest’obiettivo.
Certo, si tratta di porsi obiettivi ambiziosi. Ma se l’alternativa è quella di restare nel vicolo cieco su cui l’OCSE, questa mattina, ha lanciato l’allarme con il rapporto “Pension at a Glance 2013”, allora vale la pena mettersi subito al lavoro. Perché il rischio non è tanto che i giovani lavoratori precari di oggi percepiscano un domani pensioni da fame a causa di salari sotto la media OCSE: 28.900 euro, pari a 38.100 dollari, contro i 42.700 dollari medi, quanto che questi lavoratori in pensione non andranno mai. Perché, se le cose restano immutate, nei prossimi anni non troveranno più lavoro e, se per fortuna lo troveranno, sarà a salari ancora più bassi.
Ciro Cafiero
Collaboratore della cattedra di Diritto del lavoro presso la Luiss