Dopo la chiusura del congresso Massimo Bussandri, segretario generale della Cgil Emilia Romagna, al Diario del lavoro fa il punto sulle sfide future che attendono la sua regione. Centralità del lavoro e transizioni, energetica, digitale e demografica, saranno i grandi banchi di prova sui quali confrontarsi. Nel suo rapporto con la politica, il sindacato deve sempre affermare la sua autonomia, afferma Bussandri, ma non può essere neutrale ed equidistante con ogni schieramento. La destra meloniana, prosegue il segretario, è molto più neo liberista che sociale. La sinistra, afferma, deve saper ricostruire la rappresentanza con il mondo del lavoro.
Bussandri si è da poco chiuso il vostro congresso che avete intitolato “Una regione resistente”. Che cosa significa?
Abbiamo voluto usare questo titolo perché tutto il Paese è debitore verso i valori della Resistenza e, soprattutto, la nostra regione che ha visto la morte di molte partigiane e partigiani sulla “linea gotica”. Richiamarsi ai valori della Resistenza non deve essere un mero esercizio di stile, ma vuol dire tutelare i valori costituzionali soprattutto in un momento come questo dove ci sono persone che affermano, commettendo un grossolano un errore storico, che il MSI contribuì a dar vita alla storia repubblicana e democratica di questo Paese.
L’aggettivo resistente in che altri modi si declina?
La “resistenza” è una peculiarità presente nel dna del mondo produttivo e sociale del nostro territorio. Siamo la regione che cresce di più in Italia, anche se il 2023 segnerà, come per tutto il paese, un rallentamento se non una moderata recessione; abbiamo un tessuto lavorativo capace di innovazione, con una grande tradizione manifatturiera. Tutto questo è frutto del protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori, prima che di un modello politico. La dimensione partecipativa e un sistema di relazioni industriali solido hanno portato al Patto per il lavoro del 2015 e al Patto per il clima e il lavoro del 2020. Non dobbiamo dimenticare il nostro sistema sanitario e sociale che, pur messo in difficoltà, ha tenuto anche durante la pandemia. Tutto questo non vuol dire che l’Emilia Romagna possa pensarsi in modo autonomo, totalmente distaccata dal resto del Paese.
Le grandi transizioni, energetica, tecnologica e demografica dovrebbero essere al centro dell’agenda politica del paese. Come le sta gestendo la Regione?
Siamo un Paese che invecchia, dove la popolazione in età lavorativa si sta riducendo e dove i contratti più stabili sono concentrati negli over 50. In aggiunta, tra qualche anno, se non cambia la Legge Fornero, avremo ultrasessantenni e ultrasessantacinquenni, ancora inseriti nel mondo del lavoro, che molto spesso avranno sulle spalle il peso di figli precari, dovranno fare i nonni e si dovranno prendere cura, anche, dei loro genitori molto anziani. In questo scenario non possiamo non ripensare una politica diversa dei flussi migratori, non solo per un semplice e a volte poco scontato elemento di umanità, ma anche per introdurre energie e intelligenze fresche da inserire in un nuovo progetto di cittadinanza del lavoro. Così come dobbiamo sostenere la genitorialità e la conciliazione tra vita e lavoro. Il rischio è che non solo il mercato del lavoro, ma anche l’intero sistema di protezione sociale collassi. Sulla transizione energetica e digitale, ci stiamo muovendo non solo sugli assetti del tessuto produttivo, ma anche verso una mobilità sempre più sostenibile. Certo, il conflitto in Ucraina ha rallentato in parte questo processo, visto che molti Paesi si sono rifugiati nuovamente nel carbone. Sicuramente dobbiamo impegnarci affinché queste transizioni siano anche sostenibili dal punto di vista dell’occupazione; sostenibilità ambientale e sociale devono andare di pari passo, e in questo la formazione è uno degli strumenti principali.
Una delle grandi riforme dell’attuale maggioranza è quella dell’autonomia differenziata. Si tratta di un progetto non nuovo nel dibattito. Cosa è cambiato rispetto a qualche anno fa e quali scenari può portare con sé?
Prima, nel dibattito pubblico, si contendevano la scena due modelli di autonomia differenziata: uno legato alla Lombardia e al Veneto, e uno d’impostazione parzialmente diversa che trovava origine proprio nella nostra regione. Oggi quel tipo di discussione sui modelli è totalmente superata, tanto che se ne è discostato lo stesso presidente Bonaccini. L’autonomia differenziata è pericolosissima per l’unità del Paese. Con questo modello di autonomia differenziata si rischia di avere un Paese a più velocità, nella sanità, nell’istruzione e non solo. Inoltre se questo disegno si coniuga con il presidenzialismo è chiaro che il disegno ultimo rischia di essere quello di picconare l’intero perimetro pubblico del Paese. Ma ci sono anche altre ripercussioni, basti pensare al tema dell’energia. Se questa dovesse diventare materia di competenza delle Regioni ci ritroveremmo con ventuno politiche energetiche diverse, senza un vero indirizzo per il Paese.
In che modo giudica la stretta del governo sul reddito di cittadinanza?
Nella nostra regione, fortunatamente, il reddito di cittadinanza ha visto una richiesta decisamente bassa. E questo confuta la tesi che il reddito faccia concorrenza al lavoro. E se questo accade è perché le condizioni di lavoro offerte sono assolutamente degradanti. Inoltre, in un Paese, dove prima con la pandemia e ora con il caro vita, molte persone e famiglie sono scese sotto la soglia di povertà, pensare di depotenziare e poi di abolire uno strumento come il reddito è una scelta scellerata.
Restando in tema di strette, in questi giorni l’esecutivo ha bloccato il superbonus. Che lettura ne dà?
Senza entrare nel merito dello strumento e delle sue criticità, quello che non è accettabile sono i tempi e le modalità con le quali si è deciso di abolire il superbonus. Presto avremo un incontro con la Regione per capire quali saranno gli effetti sulle imprese e sull’occupazione del territorio. Sicuramente la fine del superbonus colpisce un settore che ha trainato la ripresa nell’immediato post pandemia e che tutt’ora la sta spingendo. Anche in questo caso una decisione infelice da parte del governo Meloni.
Qual è la sua valutazione sul messaggio politico della destra della Meloni?
Credo che chi riteneva che la destra di Meloni sarebbe stata portatrice di una dimensione sociale e di attenzione al pubblico, sia rimasto ampiamente deluso. Questa destra è molto più vicina a idee neoliberiste e mercantiliste. Anche quanto detto dalla premier nel discorso di fiducia “non disturbare chi produce” rispecchia questa impostazione. L’esecutivo sta guardando principalmente al mondo della piccola impresa, dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti, creando anche una contrapposizione dannosa con il lavoro subordinato e i pensionati. Questo interroga anche noi e deve spingere il sindacato a una profonda riflessione, per ricucire il filo con una parte del lavoro autonomo non organizzato in forma di impresa. Non dimentichiamoci che nelle camere del lavoro erano rappresentati, alle origini, calzolai, panettieri ossia tutti quei lavori, ovviamente con le dovute differenze, che oggi inseriamo nel mondo degli autonomi.
Come legge il risultato delle elezioni regionali?
Penso che il fenomeno principale che dobbiamo registrare è quello dell’astensionismo e della crisi di rappresentanza che investe tutta la politica e la democrazia stessa. A farne le spese è prevalentemente la sinistra, perché le persone hanno perso la fiducia nel fatto che la politica sia capace di risolvere i problemi e migliorare la condizione soprattutto di chi sta peggio. La destra ha retto meglio l’urto, attraverso una maggiore capacità di coalizzarsi e intercettando con maggior efficacia uno specifico bacino elettorale. Ma se poi guardiamo i numeri assoluti anche la destra ha perso voti, sia alle regionali che alle politiche.
Che rapporto deve esserci tra sindacato e politica?
Il sindacato non può essere neutrale ed equidistante nei confronti della politica. Ovviamente l’autonomia del sindacato è una cosa consolidata che segna l’uscita da una logica tipicamente novecentesca nella quale esisteva una cinghia di trasmissione tra sindacato e politica. La Cgil ha una sua visione programmatica sulla società e sul mondo del lavoro, è sindacato programmatico, e valuta l’operato di ogni governo sulla base delle scelte e non dell’orientamento. Ma questo non vuol dire lavarsi le mani dalla crisi di rappresentanza del lavoro che ha colpito la sinistra perché riguarda anche noi in prima persona. Così come non possiamo condividere la nostra idea di società e di lavoro, che trova le sue radici nella Carta costituente, con chi questa Carta la vuole stravolgere, a partire dalla destra. Purtroppo è vero che in questi anni anche la sinistra ha spesso abbandonato i valori contenuti nella Costituzione.
Cosa ne pensa delle difficoltà che sta vivendo il Partito democratico e del percorso delle primarie?
Anche se in crisi e in calo nei consensi il Pd – è un dato di fatto uscito dal voto – resta il principale partito politico di riferimento per chi non si riconosce in un Paese di destra. Il percorso che sta portando alle primarie ci “tocca”, per il semplice fatto che tre dei quattro sfidanti provengono da questa regione. È un fatto positivo che, almeno nel nostro territorio, la contesa sia stata ricca di passione ma con toni moderati. Detto questo, alla fine non conta tanto il nome del leader quanto il progetto politico intorno al quale il Pd vuole ripartire. In questi anni un eccessivo leaderismo ha allontanato le persone dalle urne e ha bruciato i leader stessi.
Secondo lei anche i Cinque Stelle possono farsi carico di ricucire la rappresentanza con il mondo del lavoro?
Il Movimento Cinque Stelle nasce prima come forza anti sistema per poi trasformarsi in forza di sistema. Ha delle idee che possono essere ascrivibili al perimetro della sinistra, ma la sua storia politica è troppo breve per poterne valutare lo sviluppo futuro. Certamente più è ampio è il campo di chi vuole rimettere al centro il valore del lavoro, tanto meglio sarà per le lavoratrici e i lavoratori.
Tommaso Nutarelli