Mi sono trovato due giorni fa all’università Roma Tre nel quartiere di San Paolo, a parlare di Bruno Trentin. C’era un dibattito sui diari di questo dirigente sindacale, ed erano presenti molti ragazzi, una quindicina, molti considerando le abitudini delle giovani generazioni. Non so se ricevevano dei crediti restando lì, ma sono stati attenti per tre ore a sentire questi vecchi professori, e vecchi giornalisti, che parlavano di un uomo morto dieci ani fa. Voglio credere che siano rimasti lì perché la figura di questo sindacalista anomalo li aveva incuriositi.
Io introducevo il dibattito e, proprio pensando a loro, ho cercato di delineare la figura storica di Trentin. Ho parlato dell’autunno caldo, di come un gruppetto, sparuto, di sindacalisti avesse saputo governare la fiammata operaia che squassò nel 1969 le vecchie relazioni industriali, cavalcando quella tigre, come si diceva in quegli anni. Ho parlato del ruolo che Trentin aveva avuto nella sua confederazione, di come avesse salvato dalla sua crisi la Cgil quando ne diventò segretario generale, del suo progetto del sindacato dei diritti, del famoso epilogo del confronto triangolare del 1992, quando Trentin firmò con Giuliano Amato un accordo che non gli piaceva e che non rispondeva affatto al mandato che lui aveva ricevuto dagli organi della sua confederazione, ma che firmò, perché credeva intimamente che fosse importante se non decisivo farlo, e subito dopo si dimise; perché allora ci si dimetteva ancora. E anche di come un anno dopo firmò l’altro accordo, quello del 1993, il grande protocollo con Carlo Azeglio Ciampi, col quale si dettarono quelle regole della contrattazione che in buona parte ancora sono vive oggi.
Non so quanto di questo racconto sia arrivato a quei ragazzi. Voglio credere che qualcosa sia piaciuto, che io sia riuscito a trasmettere loro l’ammirazione che io avevo per Bruno Trentin. Che era un grande uomo e un grande sindacalista. Un grande intellettuale prestato al mondo del lavoro, che non so quanto fosse contento di aver avuto questo regalo, perché capirlo era difficile, assumerne le indicazioni ancora di più. Trentin non è stato del tutto amato dal mondo del lavoro. Eppure ha dato ispirazioni importanti, che forse non sono state realizzate, ma hanno caratterizzato, inciso, la vita delle organizzazioni sindacali. E’ stato il primo a parlare del sindacato dei diritti, diritti in capo alla persona, non solo alla classe. Lui non amava parlare di classe, preferiva altri termini, un po’ anche perché non è mai stato marxista fino in fondo, lui che era comunista, ma aveva forti radici azioniste, il suo primo partito.
Ma quello che più di tutto Trentin ha cercato è stato il traguardo della conoscenza. Alla base del suo ragionamento c’era sempre la necessità di far crescere la preparazione del lavoratore. In tutti i sensi. Era una sua intuizione il diritto alle 150 ore di studio che i metalmeccanici riuscirono a ottenere con il contratto del 1973. E al di là di questo strumento, così utile per tanti, Trentin aveva sempre chiara l’esigenza che si faceva del bene ai lavoratori solo aumentando il loro sapere. E’ da lui che ho sentito parlare per la prima volta del sapere, questo verbo usato come sostantivo. Trentin insisteva sempre a chiedere che si riconoscesse il diritto ad avere, e a trasmettere, i saperi. Perché solo un lavoratore acculturato, che conosce il suo lavoro e come questo si incastra nel lavoro di tutti i suoi compagni, solo lui ha la forza per dialogare davvero da pari a pari con il padrone. Trentin non aveva pudori a parlare di “padroni,” perché, diceva, questo sono i nostri interlocutori, padroni della fabbrica, ma non delle persone che vi lavorano. Le quali hanno il diritto di crescere culturalmente per potersi realizzare.
I diari di Bruno Trentin, pubblicati a dieci anni dalla morte da Ediesse, la casa editrice della Cgil, per la volontà forte di sua moglie, Marcelle Padovani, ci aiutano molto a capire quest’ uomo, la sua cultura multiforme, che spaziava in tanti campi diversi senza disprezzarne alcuno, il suo bisogno di lasciare qualche segno nel mondo del lavoro. Ci descrivono, i diari, anche un uomo solo, molto triste, che capiva i limiti, forti, del sindacato dei suoi giorni e cercava di porvi rimedio, senza farsi troppe illusioni, ma con la consapevolezza di doverlo fare. C’è in quei diari anche tutto il suo grande amore per la montagna, come arrampicarsi non fosse solo uno sport praticato con passione, ma una medicina che gli calmava i nervi e gli colmava il cuore. Del resto è proprio così, quando sei in arrampicata tutto il resto sparisce, devi prestare la sua attenzione solo a quello che fai, non c’è spazio per niente altro. Bruno provava in quegli anni a ritrovare le stesse sensazioni anche con il suo giardino ad Amelia, in Umbria, ma non era la stessa cosa. A parte il fatto che il gelo gli rovinava sempre tutto, il giardinaggio non gli dava quel calore che trovava in montagna.
Quei diari possono essere letti in tanti modi, anche i più maliziosi, ma mettono a nudo quello che in fin dei conti sapevamo: che Bruno Trentin era un uomo forte, pieno di tensioni, caparbio tanto da non desistere nonostante le delusioni, attaccato al dovere e pronto per questo a sacrificare molto. Un grande uomo. Ci servirebbe adesso, in questo passo difficile del mondo del lavoro che vede svanire, diluirsi i suoi valori e non riesce a fermare questa pericolosa emorragia.