Emanuele Ghiani ha intervistato Andrea Borghesi, segretario generale NIdiL Cgil, in merito alla situazione dei lavoratori atipici e precari. Per Borghesi, il settore è in lenta ripresa ma solo in alcune attività. Il decreto Rilancio ha contribuito a sostenere addetti e imprese, ma per il segretario contiene alcune criticità importanti.
Borghesi, qual è la situazione nel vostro settore?
Il nostro “settore” riguarda tutto il mondo del lavoro atipico e precario. Da una parte il lavoro in somministrazione, che è dotato di regole proprie, e dall’altra il lavoro atipico puro, cioè il mondo delle collaborazioni, dell’autonomia e delle partite iva. La situazione è complessa, in generale il settore è in lenta ripresa, ma solo per alcune attività.
Cosa pensa del decreto Rilancio?
Noi abbiamo espresso un giudizio sostanzialmente positivo dal punto di vista del tentativo, da parte del governo, di dare una copertura più larga possibile di aiuti a lavoratori e imprese. Il decreto ha comunque delle sue criticità, in relazione alle prospettive del Paese, ad esempio il sostegno all’Irap per le imprese è oggettivamente indiscriminato, poteva essere organizzato diversamente. I 4 miliardi sono stati messi a disposizione sostanzialmente a tutte le imprese, senza riuscire a distinguere efficacemente quali sono le realtà in difficoltà più bisognose di aiuti. Ad esempio ci sono state imprese che durante il lockdown non si sono mai fermate.
Per quanto riguarda il vostro settore il decreto ha aiutato?
Per le nostre figure abbiamo apprezzato l’aumento del periodo di disoccupazione di ulteriori 60 giorni e la riproposizione e l’aumento di una serie di indennità. Però ci sono alcune criticità che devono essere risolte: la prima sono per le collaborazioni co.co.co. Nel decreto è previsto, per il mese di aprile, l’indennità di 600 euro a tutti coloro che l’avevano ottenuta a marzo, ma per maggio è stabilito che si deve essere interrotto il rapporto di lavoro al momento dell’entrata in vigore del decreto, cioè il 19 maggio. Questo criterio tiene fuori tutti i lavoratori che hanno avuto una sospensione del rapporto di lavoro.
In che senso?
Prendo il caso di una persona che si è rivolta a noi: lavorava in un call center, e quando è iniziato il lockdown l’azienda ha sospeso il suo lavoro e non gli ha interrotto il contratto. Da una parte è un elemento positivo, dall’altra è nato un paradosso, cioè questa persona si ritrova senza reddito. Non percepisce reddito né dal lavoro, né dall’indennità e neanche la Discoll, dato che non è disoccupata. Ciliegina sulla torta, ha un contratto a scadenza e questo è un tipo di lavoro autonomo, quindi è possibile che alla scadenza del contratto l’azienda non lo rinnovi.
Come si può risolvere il problema?
Come sindacato abbiamo chiesto di modificare questo criterio del decreto in sede di conversione, speriamo che il Parlamento operi in questo senso. L’altra situazione critica riguarda i collaboratori autonomi e occasionali. Per ottenere l’indennità, al lavoratore deve avere due requisiti: il primo è un rapporto di lavoro appunto di collaborazione occasionale; il secondo è aver dichiarato nel 2019 almeno un mese di contribuzione alla gestione separata Inps. E quest’ultimo punto è problematico.
Un mese di contribuzione in un anno sembra ragionevole
Esatto, sembra. Ma i collaboratori occasionali, fino a 5.000 euro annui, per legge non hanno l’obbligo della contribuzione previdenziale. Inoltre, l’altro requisito è avere un rapporto di collaborazione occasionale prima del 23 febbraio ma non in quella data. Quindi il combinato disposto di questi requisiti comporta che saranno molto pochi i lavoratori che percepiranno l’indennità.
Se un collaboratore occasionale avesse versato volontariamente i contributi, anche se sotto i 5.000 euro annui, rientra nei requisiti?
No, perché per legge è proprio vietato versare alla gestione separata se il collaboratore guadagna meno di 5.000 euro annui. L’assoggettamento previdenziale non è una scelta, è un obbligo. Questo è un principio che vale per tutte le casse di previdenza. Solo per alcuni determinati casi, previsti dalla legge, è permessa la contribuzione volontaria.
Se invece un collaboratore avesse superato la soglia dei 5.000 euro può accedere all’indennità?
Si. Chi supera quella soglia viene assoggettato alla contribuzione e quindi con un mese ha i requisiti per l’indennità. Ma sono poche le persone che hanno superato questa soglia, in tutto il Paese sono complessivamente poco più di 10.000. I restanti lavoratori, secondo le nostre stime diverse decine di migliaia, non percepiranno nessuna indennità. Sono così tanti perché spesso la ritenuta d’acconto viene utilizzata dalle imprese per non contrattualizzare i lavoratori. Come ha fatto per esempio Uber Eats. Questa tipologia contrattuale è stata pensata per i lavoretti, e non avendo obblighi previdenziali sotto la soglia di reddito di 5.000 euro, crea possibilità di abuso da parte delle imprese.
Qual è la vostra proposta per risolvere la situazione?
Chiediamo che venga eliminato il requisito della contribuzione di un mese nel 2019 per accedere all’indennità. Non ha senso che lo Stato escluda dalla contribuzione i collaboratori occasionali sotto i 5.000 euro e poi la chieda come requisito. Queste persone vengono trattate come se non avessero mai lavorato. Potranno forse accedere al reddito di emergenza e di cittadinanza ma noi vogliamo che in quanto lavoratori gli venga riconosciuta l’indennità.
Si potrebbe obbiettare che queste persone, sotto la soglia dei 5.000 euro, non avendo versando contributi, non meritano questa particolare indennità dallo Stato in quanto lavoratori.
Questo ragionamento sarebbe accettabile se anche l’impresa non fosse stata beneficiata di vantaggi fiscali accordati anche dalle ultime leggi. Inoltre con la collaborazione occasionale, l’impresa ha un vantaggio competitivo: non pagando la contribuzione ha un basso costo del lavoro, mentre le imprese che contrattualizzano i lavoratori, anche gli autonomi, e hanno un peso contributivo più elevato. Il mercato del lavoro deve essere equilibrato.
In che senso?
Il tema dell’equilibrio non è soltanto tra lavoratore e impresa o tra lavoratore e lo Stato, ma anche tra le imprese stesse. Oggi esiste una vasta scelta di tipologie contrattuali e l’impresa tenderà a scegliere quella con meno oneri da sostenere. Siccome la collaborazione occasionale è esente dal pagamento dei contributi, è facile abusarne. Noi pensiamo che non possa esistere una forma contrattuale che non abbia una sua contribuzione.
Dal punto di vista del lavoratore, il pagamento dei contributi su un piccolo guadagno annuo, per esempio 3.000 euro, potrebbe essere percepita come una tassa ingiusta.
Sono consapevole del rischio che venga percepita come una tassa e non come una soluzione migliorativa. La contribuzione preciso che non è una tassazione, perché dovrebbe servire a degli scopi precisi, per esempio la pensione. Il vero scopo della nostra proposta è fare in modo di alzare i compensi dei collaboratori, ad oggi troppo bassi. Inoltre, se si pagassero i contributi, emergerebbe la posizione previdenziale del lavoratore e renderebbe meno appetibile per le aziende scegliere questo tipo di rapporto, perché queste ultime pagherebbero due terzi dei contributi totali e non ne abuserebbero.
Come si alzerebbero i compensi? Inoltre, l’azienda potrebbe abbassare ulteriormente il salario per compensare i nuovi contributi e il lavoratore si troverebbe semmai ancora più in difficoltà.
È possibile non solo evitare il pericolo da lei indicato ma anche alzare i compensi esistenti se si creasse una pavimentazione salariale: sia i collaboratori occasionali, sia i colleghi che hanno altre forme contrattuali, dovrebbero avere lo stesso salario di base.
Come si può ottenere questa pavimentazione salariale?
Legando i salari minimi delle collaborazioni occasionali ai minimi tabellari del contratto collettivo nazionale di riferimento. In questo modo parifichiamo il costo delle imprese, adoperando finalmente un parametro che stabilisca con chiarezza qual è il costo di un’ora di lavoro oppure di un determinato incarico. Senza un parametro di questo tipo, continueranno ad esserci abusi composti da troppo lavoro e compensi bassi.
In questo modo cambierebbe il ruolo della contrattazione è individuale?
Si rafforza, perché in sede di trattativa individuale il collaboratore può contrattare un compenso che comunque non potrà essere inferiore ai minimi del contratto nazionale. Ricordo che in teoria il lavoro autonomo dovrebbe essere pagato in misura maggiore del lavoro dipendente, mentre spesso succede il contrario. Nel nostro ordinamento non abbiamo un solo rifermento di questo genere. L’equo compenso, nel settore giornalistico per esempio, penso sia uno dei pochi casi dove si stia sperimentando in questo senso; vedremo i risultati della Commissione finalmente insediata.
L’azienda però potrebbe fare dumping contrattuale, evitando in questo modo la pavimentazione salariale da lei indicata.
La pavimentazione salariale prende come riferimento i compensi, quindi sarebbe difficile per l’impresa fare dumping, perché i vari contratti sono simili dal punto di vista dei minimi tabellari. Certo, per risolvere alla radice il problema servirebbe una legge per dare forza alle regole sulla rappresentanza. Il contratto di riferimento per le collaborazioni autonome, per essere realmente valido, dovrebbe essere firmato dalle parti sociali più rappresentative e l’accordo interconfederale sulla rappresentanza si muove in tal senso, ma ancora attendiamo una legge in tal senso per avere l’erga omnes. Inoltre, servirebbe anche diminuire il numero dei contratti nazionali, sia nel lavoro dipendente che autonomo.
Con la vostra proposta, quali vantaggi avrebbe una azienda di assumere un collaboratore piuttosto di un dipendente?
Con regole chiare e parametri certi, le aziende sceglieranno quale tipologia di lavoro gli occorre in base alle esigenze e alla professionalità necessarie non, come oggi accade, secondo la logica dello sfruttamento dei collaboratori a basso costo.
Emanuele Ghiani