L’attenzione del premier Draghi alla coesione sociale è un fatto positivo, ma ora dalle parole si deve passare ai fatti. È questo il giudizio di Massimo Bonini, segretario generale della Camera del lavoro di Milano. I dati del mercato del lavoro del capoluogo lombardo testimoniano, secondo Bonini, come ripresa e occupazione non andranno di pari passo. Sui salari fermi al palo pesano i mancati rinnovi e la diffusione di contratti pirati, da contrastare, per Bonini, con una legge sulla rappresentanza e un’estensione del Patto per la fabbrica a tutti i settori.
Bonini gli ultimi dati certificano una crescita del Pil. Secondo lei, che ripresa sarà?
Si tratta di dati che dovranno essere verificati nel medio-lungo termine. Non tutti i settori partono dagli stessi blocchi di partenza. Se la manifattura e l’edilizia hanno già iniziato a riguadagnare terreno rispetto alla crisi, diverso è il discorso per il turismo, la ristorazione e il terziario. La logistica, a differenza di quanto si possa credere, non ha registrato un aumento degli addetti significativo, che sono invece cresciuti nella finanza, nel credito e nelle assicurazioni.
Uno degli scenari ipotizzati è quello di una jobless recovery, una ripresa senza lavoro. Vede questo rischio?
Il rischio di uno scollamento tra occupazione e ripresa c’è. Nell’aria milanese, ad oggi, i contratti a termine sono calati di 130mila unità, le dimissioni sono state 100mila e i licenziamenti, a fine 2020, sono arrivati a 50mila, proprio nel momento in cui ci sono stati i primi allentamenti al blocco. Al tempo stesso, dopo il crollo del primo lockdown, il numero delle imprese attive è tornato ai livelli pre-covid. Il tessuto produttivo è dunque pronto, ma non è detto che la ripresa e l’occupazione andranno di pari passo.
Bruxelles ha di fatto bocciato il blocco dei licenziamenti che il nostro paese, unico in Europa, ha messo come baluardo per contrastare le ricadute della pandemia. Cosa ne pensa?
Lo ritengo un giudizio strumentale, che soprattutto non presenta un’analisi attenta e profonda delle diversità che ci sono tra i mercati del lavoro dei vari paesi europei. Se anche in Italia avessimo un sistema di politiche attive e ammortizzatori sociali al pari di quello tedesco, allora il blocco dei licenziamenti sarebbe superabile. Ma finché non si riformano questi due strumenti è difficile pensare di eliminarlo.
Come andrebbero riformati ammortizzatori sociali e politiche attive?
Per gli ammortizzatori sociali si deve realizzare una riforma di stampo universale, che copra tutti i settori. Il terziario, oggi, non ha le stesse tutele dell’industria. Quanto alle politiche attive, sarà centrale la formazione. Qui a Milano, per esempio, si tende a pensare che con la ripresa tutti i lavoratori fuoriusciti dal mercato del lavoro durante la pandemia saranno assorbiti o dal turismo e la ristorazione o dal settore tecnologico. Ma sono previsioni destinate a fallire, senza un’azione di reskilling e upskilling dei lavoratori. La verità è che ad oggi nessun settore può avere questa funzione assorbente, tranne l’economia del sociale.
Sulla quale ancora poco si è investito, però.
Purtroppo è così, ma il rafforzamento dei servizi, come la creazione di asili nido, da un lato crea nuovi posti di lavoro, dall’altro libera i genitori, quasi sempre la mamma, dai compiti di cura. A Milano abbiamo proposto la creazione di spazi per il coworking e anche lo smart working, nei quali possono essere impegnati gli addetti alle pulizie o delle mense che hanno visto una riduzione drastica dell’occupazione con il boom del lavoro agile.
Con l’arrivo dell’estate le aziende del turismo, e non solo, stanno denunciando la difficoltà nel reperire gli stagionali, dando la colpa al reddito di cittadinanza. È un’analisi corretta?
Dare la colpa al reddito di cittadinanza è una lettura semplicistica e non veritiera. Certamente lo strumento non ha funzionato nella parte delle politiche attive. Dobbiamo chiederci perché i nostri giovani vanno a fare i camerieri all’estero e non in Italia. Non possiamo dire che non hanno voglia. Ci sono condizioni di oggettiva difficoltà per gli stagionali. Uno dei grossi limiti è la mancanza di un sostegno nei mesi nei quali non lavorano.
Ma c’è anche la questione salariale, con retribuzioni al palo, e dove anche il sindacato ha forse qualche responsabilità.
Il salario è uno dei grandi mali del nostro paese. Ora non per difendere a oltranza il lavoro del sindacato, ma quando le organizzazioni maggiormente rappresentative, sia dei lavoratori sia datoriali, firmano i contratti, il risultato è sempre molto buono. Purtroppo in molti settori il rinnovo manca da molti anni, è questo incide anche sulle retribuzioni. La presenza di manodopera straniera, se da un lato ha un valore sociale, di integrazione, dall’altro, in certe situazioni, causa un abbassamento delle condizioni di lavoro. C’è poi il tema dei contratti pirata che deve essere assolutamente aggredito.
Con una legge sulla rappresentanza?
Sicuramente una legge sulla rappresentanza è un modo per mettere all’angolo il dumping contrattuale. Quello che serve è un’estensione del Patto per la fabbrica a tutti i settori, e arrivare a una seria misurazione della rappresentanza.
La pandemia non solo cambierà il volto del lavoro, ma innescherà o accentuerà processi di impoverimento. Come si può recuperare il suo valore sociale?
La perdita del valore sociale del lavoro è un fenomeno che vediamo da tempo, ben prima del covid, che però lo ha aggravato. Milano è una città a velocità diverse, dove tutele e salari non sono per tutti uguali. La perdita del valore del lavoro si vede nel modo in cui viene impostata la discussione sul Codice degli appalti. La svalorizzazione è andata di pari passo all’impoverimento del ruolo e della funzione dei corpi intermedi, soprattutto del sindacato, additato a capro espiatorio di tutti i mali del mondo del lavoro. Naturalmente il nostro impegno per ridare dignità al lavoro non è mai venuto meno, così come quello di riproporre il ruolo politico del sindacato. La strada da seguire è questa. Durante le chiusure il paese non si è fermato grazie al contributo di migliaia di lavoratori, e proprio a questi non possiamo tagliare diritti e tutele. È un compito difficile, che richiederà tempo e un significativo cambio culturale, per il quale l’apporto del governo e delle parti datoriali è imprescindibile.
Al G7 il premier Draghi ha rilanciato l’importanza della coesione sociale. Siamo sulla buona strada?
A parole Draghi ha più volte detto di voler custodire e rinsaldare la coesione sociale, ma concretamente non si è fatto molto. Nel Pnrr la coesione sociale è al terzo posto, dopo l’ambiente e la digitalizzazione. Ovviamente questo non vuol dire che questi due capitoli non siano importanti, ma sicuramente alla coesione si potrebbe riservare una maggiore attenzione, anche in termini di investimenti. Gli enti locali che hanno il compito mettere in campo ed erogare i servizi, per anni hanno avuto bilanci in rosso o congelati. In questo momento le risorse ci sono, ma occorre saperle spendere. Gli investimenti sulla sanità territoriale, per esempio, non sono stati fatti, e in Lombardia si continua a difendere un modello che ha fallito. Ci sono ancora molte diversità territoriali, non solo tra nord e sud, ma anche tra Milano e i centri limitrofi.
Tommaso Nutarelli