Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, ha affermato che entro l’estate il salario minimo sarà realtà, per offrire un supporto a quei lavori non coperti dalla contrattazione e sanare così il gap del nostro paese rispetto ai partner europei. Anche il Pd ha presentato una sua proposta in merito. Insomma quello del salario minimo stabilito per legge è uno dei temi più caldi dell’attuale dibattito economico e del mercato del lavoro. Ma ai sindacati l’intera operazione non piace. Cgil, Cisl e Uil hanno più volte affermato la centralità della contrattazione collettiva e dei contratti nazionali, come gli unici strumenti capaci di garantire non solo la parte economica – che non è composta unicamente dal salario – ma anche tutta quella gamma di diritti che una retribuzione fissata per legge non sembra poter sostenere. Ne abbiamo parlato con Pierpaolo Bombardieri, segretario generale aggiunto della Uil.
Bombardieri sia il Movimento 5 Stelle che il Pd hanno avanzato una propria proposta di legge sull’introduzione di un salario minimo legale. Qual è la vostra posizione in merito?
Abbiamo incontrato sia il Movimento 5 Stelle che il Pd per discutere delle loro proposte. Hanno un’impostazione che sin dall’inizio non abbiamo condiviso. La contrattazione e i contratti nazionali rappresentano il perno delle relazioni industriali. Da questo si deve partire per stabilire non solo l’aspetto economico, ma anche tutti gli altri diritti dei lavoratori. Cosa che con il salario minimo non viene garantita.
C’è stato tuttavia un cambio di direzione dopo che Pd e 5 Stelle vi hanno incontrato.
Questo è vero, ed è uno degli aspetti che abbiamo più apprezzato, così come abbiamo apprezzato il rifermento ai contratti nazionali firmati dalle associazioni più rappresentative come punto di partenza. Ma non si capisce come mai la politica voglia necessariamente legiferare su materie che devono essere lasciate all’iniziativa delle parti sociali.
Nelle due proposte si fa riferimento anche al tema della pesatura della rappresentatività come arma per eliminare i contratti pirati e il dumping. Un tema sul quale tutto il mondo sindacale sembra faticare a trovare una chiusura. Come la vede una possibile regolazione per via legislativa?
Come ho detto prima, ciò che può essere lasciato alla libera azione del sindacato tale rimanga. Noi abbiamo espresso più volte la nostra piena disponibilità a dare attuazione al patto della fabbrica anche per misurare la rappresentatività, la cosa non ci spaventa. Al Cnel ci sono più di 800 contratti, 400 dei quali sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil. Nelle Rsu del privato, così come nel pubblico, i sindacati più votati sono i confederali. Si tratta di un “gioco” al quale anche la stessa Confindustria non si è sottratta. Certo ci sono maggiori difficoltà quando si tratta di capire il soggetto terzo che deve poi effettuare questa misurazione, sia l’Inps o il Cnel.
Tornando al salario minimo, quali sono gli aspetti che maggiormente vi preoccupano di questa misura?
Prima di tutto va fatta una precisazione: il contratto non stabilisce solo la parte salariale, ma tutta una serie di altri istituti e diritti, che vanno dalle ferie alla malattia, la tredicesima e la quattordicesima, e il tfr. Tutto questo non c’è all’interno del salario minimo stabilito per legge, sia che si parli di lordo e di netto.
Quindi il salario minimo comporterebbe un impoverimento del lavoro in senso ampio?
Assolutamente sì, sia per la retribuzione sia per i diritti. E se ci sono dei punti su i quali il sindacato non deve indietreggiare sono questi. Quello che dobbiamo fare è allargare i diritti a chi non ne ha, aumentare i salari e il potere di acquisto. E tutto questo lo si fa attraverso l’applicazione dei contratti nazionali.
I sostenitori del salario minimo affermano che si tratta di una misura volta a dare una rete di sicurezza a quei settori non coperti dalla contrattazione e quindi dai contratti.
Certo, ma nulla vieta di estendere a quei settori i contratti nazionali. Crediamo che sia la mossa più giusta da fare, che, ad esempio, anche il tribunale di Torino ha confermato in merito alla vicenda dei rider. In Italia il mercato del lavoro non coperto dalla contrattazione si attesta a una percentuale tra l’11% e il 14%. Compito del sindacato è garantire a questi lavoratori non solo una giusta retribuzione ma anche diritti. Certo, c’è stata un’iniziale difficoltà da parte nostra nel relazionarci con le nuove forme di lavoro atipiche, che hanno nell’algoritmo il datore di lavoro. Ma questo non toglie che si possa lavorare sui contratti nazionali per intercettare le nuove forme di lavoro.
Vede altri possibili rischi connessi al salario minimo?
Ci potrebbe essere una caduta nel lavoro nero da parte di tutte quelle imprese che non potrebbero sostenere un salario minimo fissato per legge eccessivamente alto. E soprattutto non avrebbe più senso la contrattazione. Le aziende potrebbero decidere di applicare il salario fissato per legge senza firmare i contratti.
Tra i motivi di chi appoggia il salario minimo c’è anche il ritardo del nostro paese rispetto ad altri stati europei dove questa realtà esiste. La ritiene un’argomentazione valida?
No, e le spiego anche il perché. Nell’Europa dell’est, ad esempio, c’è il salario minimo, perché non ci sono i contratti nazionali. Oppure, in altri paesi, manca un sistema di relazioni industriali consolidato e che copra, come da noi, la quasi totalità del mercato del lavoro. Uno dei punti del pilastro sociale europeo è l’attenzione che tutti i paesi dovrebbero avere nell’attuazione e nell’applicazione di contratti collettivi nazionali. Solo in questo modo sarà possibile eliminare tutte le forme di dumping che ancora sussistono tra stato e stato.
Se si arrivasse ad una attuazione del salario minimo chi sarebbe a stabilire gli aumenti?
Credo che a quel punto gli aumenti sarebbero decisi sempre per via legislativa.
Ma quale sarebbe il criterio da seguire? Legare gli aumenti salariali all’andamento dell’inflazione come nella scala mobile?
Ma capisce che si tratterebbe di un notevole passo indietro per il nostro paese che ha imboccato una strada del tutto diversa. Gli aumenti salariali, la produttività sono aspetti legati non solo al contratto nazionale, ma anche alla contrattazione di secondo livello, che tenga conto delle peculiarità, dei bisogni e delle differenze di ogni singolo territorio e impresa.
Come vede questa crescente attenzione della politica a questo tema?
La sensazione è che manchi nella politica una visione a lungo termine, ma che tutto sia legato al momento. E questo anche per il salario minimo. È un tema che ha assunto dignità, anche agli occhi dell’opinione pubblica, con l’emergere della questione dei rider. Ecco perché il nostro auspicio è che il dialogo con le parti sociali sia continuo, proprio per creare una visione di paese che guardi alle sfide future.
Tommaso Nutarelli