Sabato 26 giugno le confederazioni sindacali svolgeranno delle manifestazioni in alcune importanti città per rivendicare un’ulteriore proroga del blocco dei licenziamenti – a valere per tutte le aziende – fino al 31 ottobre. Inoltre chiederanno l’apertura di un confronto con il governo sul tema delle pensioni in vista della scadenza di quota 100. A tal proposito Cgil, Cisl e Uil hanno elaborato una linea che non si limita a gestire il venir meno della deroga introdotta nel 2019, ma si avventura lungo un ridisegno organico dell’intero sistema pensionistico. Poiché ogni giorno ha la sua pena, ci basta esprimere un’opinione sul punto iscritto nell’agenda del Paese per la fine di giugno corrente ovvero tra pochi giorni. Che fare del blocco dei licenziamenti in vigore – con alcune varianti – da quindici mesi?
Sappiamo che cosa è previsto nel decreto Sostegni bis, conosciamo anche il tentativo di mediazione del presidente del Consiglio che è parte delle norme sottoposte a conversione e siamo consci del parere contrario dei sindacati. Ci accorgiamo nello stesso tempo che in sede parlamentare non è maturato, fino ad ora, un progetto di modifica provvisto di un adeguato sostegno, perché, almeno fino ad ora, ogni gruppo va per conto suo. Tutto lascia credere che le norme in questione usciranno come sono entrate. Ma l’interrogativo che ci angoscia è un altro: i dirigenti sindacali si rendono conto di essersi imbottigliati in una strada senza uscita, da cui si può rientrare solo in retromarcia?
Mettiamo pure, per ipotesi, che il governo – come ha fatto il precedente – acconsenta di prorogare il blocco fino ad ottobre. E dopo? Immagino che il leader di Cgil, Cisl e Uil abbiano ascoltato o letto ciò che ha detto il Governatore Ignazio Visco nelle sue Considerazioni finali. Glielo ricordiamo. “Ci vorrà tempo per comprendere quali saranno, dopo la pandemia e nella transizione digitale e ambientale, i nuovi “equilibri” di vita sociale e di sviluppo economico; siamo tutti chiamati a far si che cresca e sia diffuso il benessere, siano adeguatamente protetti coloro che più saranno colpiti, chiari i costi da sopportare e progressivamente ridurre. E certo però – ha proseguito Visco – che verrà meno lo stimolo, in parte artificiale, che oggi proviene da politiche macroeconomiche straordinarie ed eccezionali. Cesseranno quindi il blocco dei licenziamenti, le garanzie dello Stato sui prestiti, le moratorie sui debiti. E andrà, gradualmente ma con continuità, ridotto il fardello del debito pubblico sull’economia”. In sostanza, prima o poi, un “dopo” non può non arrivare. I sindacati sono pronti ad affrontare questo “dopo” o si accaniscono nel conservare un presente che non ha futuro? Lo stanno facendo, senza argomenti, perché è la scelta che pone meno problemi, salvo rendere più complessa la ripartenza della produzione e dell’economia. La loro risposta è: aspettiamo la riforma degli ammortizzatori sociali.
Il ministro Orlando ha promesso di presentare un progetto entro luglio. Ma in questo caso gli ammortizzatori sociali riformati non sono una bacchetta magica; non possiamo aspettarci che al Lavoro dispongano di una “arma segreta”, di una soluzione a cui nessuno, finora, ha mai pensato. La pandemia ha messo allo scoperto i limiti del nostro sistema di welfare e di protezione sociale. Citiamo di nuovo il Governatore: “Andranno corrette le importanti debolezze nel disegno e nella copertura della rete di protezione sociale che permangono nonostante le riforme degli ultimi anni; la pandemia le ha rese manifeste, richiedendo l’adozione di interventi straordinari. Siamo inoltre ancora lontani dalla definizione di un moderno sistema di politiche attive, in grado di accompagnare le persone lungo tutta la vita lavorativa: in Italia un disoccupato su dieci riceve assistenza attraverso un centro per l’impiego, contro sette su dieci in Germania.
Non è solo una questione di risorse stanziate, da noi comunque modeste; si tratta soprattutto di innalzare e rendere più omogenei sul territorio gli standard delle prestazioni fornite dalle diverse strutture”. Certo, un moderno sistema di politiche attive non si improvvisa, ma almeno per la gestione degli esuberi ci sono in Italia esperienze e strumenti che possono essere utilizzati, attraverso un serrato confronto tra le parti sociali e le autorità pubbliche. Proprio per la diversa rilevanza “sociale” dei licenziamenti collettivi, il legislatore ne detta una disciplina specifica rispetto alla fattispecie del recesso individuale (comunque azionabile in giudizio). L’accento viene posto sul coinvolgimento della parte sindacale e, più in generale, sulla c.d. procedimentalizzazione del potere di recesso. In altri termini, si vuole che il datore di lavoro deciso a licenziare collettivamente i propri dipendenti debba seguire un iter estremamente articolato, nell’ambito del quale spicca il coinvolgimento dei soggetti portatori degli interessi opposti in gioco e il filtro preventivo dell’intervento della Cigs.
In sostanza si apre un negoziato motivato e riferito ad un numero di lavoratori anonimi fine alla conclusione della procedura, conclusa la quale con un accordo o un mancato accordo, l’azienda può portare a termine l’operazione secondo una gerarchia di criteri previsti dalla legge. Durante il negoziato subentra l’esame degli strumenti messi a disposizione dal legislatore per la tutela dei lavoratori che perdono il posto. È previsto un istituto specifico, la Naspi, una prestazione che viene erogata per assicurare un reddito, per un periodo determinato, a chi è disoccupato.
Poi sono previste norme che accompagnano i lavoratori al pensionamento anticipato. Lo scivolo pensionistico è inerente ad un c.d. contratto di espansione e consente a un’impresa (il decreto Sostegni bis riduce il limite ad meno 100 dipendenti) di mandare in pensione i dipendenti stessi che si trovano a non più di cinque anni dall’età della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata, avendo regolarmente maturato il requisito contributivo minimo richiesto. Ovviamente l’impresa non può decidere in maniera unilaterale il pensionamento del proprio dipendente, ma deve ricevere sempre il consenso da parte del diretto interessato. Durante il periodo dello scivolo pensionistico, il datore di lavoro è chiamato a versare al dipendente un’indennità mensile che deve essere commisurata al trattamento pensionistico maturato al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Inoltre, il titolare dell’azienda deve versare anche i contributi previdenziali nell’eventualità che la prima decorrenza utile della pensione sia quella prevista dal pensionamento anticipato. Lo Stato viene incontro al datore di lavoro soltanto per un massimo di 24 mesi, vale a dire contribuendo al 100% alla copertura della Naspi: una volta scaduti i due anni, il versamento del trattamento economico da destinare al lavoratore è totalmente a carico dell’impresa. E’ altresì utilizzabile il pacchetto Ape (nelle tipologie di sociale e aziendale). L’APE sociale permette di far valere 63 anni di età e – a seconda dei casi – 36 o 30 anni di versamenti contributivi. L’Ape aziendale ha più o meno le medesime caratteristiche del contratto di espansione. Per i c.d. precoci (che hanno iniziato a lavorare prima dei 19 anni) è definita alle medesime condizioni precedenti, in modo strutturale, una possibile uscita a quota 41 anni di contribuzione. Certo queste misure hanno delle condizionalità ancorché molto ampie. Ma rispondono a criteri di equità e di tutela per coloro che presentano dei disagi e dei problemi effettivi.
Vi è poi la gamma dei contratti di solidarietà che intervengono però, attraverso riduzioni di orario e di retribuzione, in costanza di rapporto di lavoro, secondo criteri distributivi tra tutti i dipendenti, allo scopo di scongiurare gli esuberi. Come è sempre avvenuto – oltre a quanto già segnalato – la previdenza potrebbe venire in soccorso della disoccupazione. Già negli anni ’80 del secolo scorso la ristrutturazione di importanti settori produttivi fu messa a carico del sistema pensionistico attraverso i c.d. prepensionamenti (circa 400mila per un costo di 50mila miliardi di lire) il cui onere fa parte ancora dei trasferimenti ordinari dal bilancio dello Stato a quello dell’Inps. Ecco perché, se si vuole discutere di pensioni, non ha senso infilarsi in un riordino di carattere generale a disposizione di tutti, anche di coloro che non hanno particolari problemi di lavoro e di salute in una fase come l’attuale. Si veda piuttosto come – a certe condizioni sostenibili – il pensionamento anticipato (in Italia largamente prevalente) possa essere usato alla stregua di un ammortizzatore sociale. Ma perché ciò sia possibile non serve sparare nel mucchio.
Abbiamo già visto che i turn over automatici (tanti purchessia vanno in pensione, altrettanti purchessia prendono il loro posto) appartengono alle teorie economiche dei Bar Sport della provincia profonda. Un altro paio di maniche sono gli interventi mirati, lo sviluppo dei fondi bilaterali (che già durante la pandemia hanno fatto la loro parte ovviamente dove c’erano ed operavano): strumenti che, nella transizione, possono intervenire nella prospettiva di una svolta a livello delle politiche attive. Poi smettiamola di sparare cifre di esuberi per sentito dire. Il solo dato certo è che il combinato perverso tra le restrizioni dell’attività produttiva (è bastato riaprire per assistere ad una robusta ripresa) e la pretesa di congelare la normale gestione del personale nelle aziende non ha impedito la perdita di un milione di posti di lavoro.
Giuliano Cazzola