Qualche settimana fa, dinnanzi alle prime avvisaglie di una nuova ricaduta negativa delle tensioni economiche e geopolitiche internazionali sull’economia italiana, il Governo aveva acceso una vivace discussione con le istituzioni europee e con lo stesso Ministro delle finanze tedesco. Una discussione animata dallo spettro del fallimento del sistema bancario italiano e dal fantasma del bail-in, poi più concentrata sui possibili margini di flessibilità di bilancio da utilizzare per sospingere la crescita, questo e il prossimo anno. Eppure, a dicembre il Governo italiano ha varato una Legge di stabilità e un percorso di risanamento delle finanze pubbliche – già minato dal ridimensionamento della crescita del PIL rispetto alle previsioni istituzionali – in cui nel 2017 e negli anni successivi si prevederebbe un deciso ritorno all’austerità, con progressiva riduzione del deficit spending, privatizzazioni e tagli a spesa e investimenti pubblici, in nome dell’ossessione (mittel)europea sul debito pubblico.
Nei giorni successivi, la discussione con l’Europa ha preso forma con il Documento italiano per l’Europa, dal titolo (in inglese) “Proposta strategica dell’Italia per il futuro dell’Unione Europea: crescita, lavoro e stabilità”. Documento condivisibile in molti tratti: dalla richiesta di Eurobond e di investimenti pubblici, alla sollecitazione a istituire un Fondo monetario europeo e un Superministro delle finanze per l’Eurozona, dalla proposta di Unione bancaria con una garanzia dei depositi al giudizio di insufficienza delle sole politiche monetarie, per chiedere nuovamente uno spazio di bilancio a sostegno diretto della crescita. Di nuovo, spicca un problema di coerenza.
Tuttavia, a schiarire le idee è bastato qualche giro di orologio. All’incontro tra Renzi e Juncker – pacche sulle spalle a parte – veniva ribadito al nostro Paese di continuare a fare i compiti a casa senza lamentarsi. Al di là della propaganda, infatti, il 26 febbraio 2016 nel consueto Country report della Commissione europea sull’Italia si sottolineava che “la ripresa modesta e le debolezze strutturali del Paese influiscono negativamente sulla ripresa e sul potenziale di crescita dell’intera Europa” e che le misure fiscali (in deficit) recentemente varate dal Governo (in sintesi, abolizione della TASI e numerose riduzioni di imposta pressoché generalizzate alle imprese abolizione) “non sono in linea con le reiterate raccomandazioni del Consiglio di spostare la pressione fiscale dai fattori produttivi ai consumi e ai beni immobili”.
In conclusione, il 28 febbraio 2016, il Vice-Ministro dell’Economia Morando apre a un possibile anticipo dell’intervento sull’Irpef – programmato in autunno per il 2018 – già dal prossimo anno. Tuttavia, in pochi minuti si chiarisce che si vorrebbe ridurre il solito famigerato cuneo fiscale e, in particolare, l’incidenza percentuale dei contributi previdenziali e assistenziali, sia ai lavoratori, sia alle imprese. Niente di nuovo. L’operazione resta in linea con la ricerca di svalutazione competitiva per via fiscale, che già ha portato a spendere 11 miliardi di euro nel 2015 e ben 15 miliardi in programmazione nel triennio in corso. Finora senza risultato, soprattutto sul versante degli investimenti privati.
Di fronte alla sfavorevole congiuntura internazionale, alla deflazione e all’impotenza delle politiche monetarie, bisognerebbe aprire una vera e propria “vertenza europea”. Per salvare la stessa Europa. Proprio a fronte dell’importanza del nostro Paese per l’intera economia europea, i margini di bilancio possibili (e oltre) andrebbero spesi meglio, realizzando investimenti pubblici e innovazione per moltiplicare gli investimenti privati e l’occupazione. Non è impossibile. Ed è indispensabile.