Trump ha perso, anche se non vuole ancora ammetterlo, ma perché? Biden invece ha vinto, ma in che modo? E tutto ciò ha a che fare con noi e l’Europa? E se sì, come?
Trump non ha perso le elezioni perché truffato da una frode elettorale. Le ha perse perché la sua idea di società, di Stato e di mondo non ha convinto gli americani che l’hanno così battuta con il voto. E non può rammaricarsene per non aver fatto tutto ciò che aveva avuto intenzione di fare. Tutto si può dire infatti tranne che, per quattro anni, non abbia provato a fare tutto quanto aveva promesso. Ma man mano che realizzava il suo programma, gli americani che pure erano stati avvinti dall’accattivante slogan dell’American first, hanno capito cosa ci fosse dietro quel first. Hanno compreso che quel first non era solo un’idea di protezionismo economico, bensì un’idea generale di società, civile, etica e morale. Un’idea così estrema da includere anche lo stesso concetto di razza. Tutto ciò che è avvenuto in questi quattro anni sono stati peraltro inequivocabili. Alla fine dei quali si è dovuto anche misurare con il flagello della pandemia. Non è certo dimostrabile, ma forse è anche probabile che se si fosse votato nel novembre del 2019 o nello stesso mese del 2021, a vaccino speriamo somministrato, le cose avrebbero potuto prendere un corso diverso. Ma è successo nel 2020, ed il suo modo cinico, immorale ed irresponsabile di affrontare quel virus, non con l’equilibrio bensì con il rovesciamento dei valori tra vita e business , ne ha costituito il colpo di grazia.
E davanti ad una società lacerata, intimorita e incerta nel futuro, bisognosa di rassicurazioni, di sicurezza e di protezioni, il messaggio quieto e riconciliatorio di Joe Biden è stata una vera e propria arma vincente. Altro che l’ironia su “sleep Joe”. Biden aveva ben compreso cosa si stesse agitando nella società americana e ne ha saputo interpretare i suoi umori più profondi. Anche per questo è stato il presidente più votato, il che vuol dire che ha saputo andare ben oltre i confini elettorali del proprio partito. Basta guardare lo scarto di voti tra quelli presi da Trump e quelli presi dal suo partito, per averne la conferma. Sono stati tanti gli elettori repubblicani che questa volta hanno scelto il candidato democratico. Anzi proprio in quegli Stati dove Trump ha fatto una campagna elettorale ancora più rabbiosa ed aggressiva convinto di giocare in casa, come l’Arizona o la Georgia, è proprio dove i suoi elettori sono invece passati armi e bagagli, dall’altra parte.
Ma tutto ciò non sarebbe sufficiente a spiegare quanto avvenuto se non si comprendesse il ruolo giocato da Kamala Harris. Biden ha vinto anche perché l’accoppiata è risultata vincente. Perché mentre Biden si dedicava a curare le ferite inferte nel corpo sociale da Trump, Kamala Harris invece riusciva ad interpretare il sentimento profondo di quella parte di America vogliosa di cambiamento. L’America delle opportunità, ciascuno con il proprio sogno da provare a realizzare. L’America giovane, moderna e dinamica. Ambiziosa, tollerante, civile. E Kamala Harris di tutto ciò ne costituiva un simbolo vivente, impersonando in se medesima la possibilità di poterlo realizzare davvero quel sogno, anche se donna, anche se di colore, anche se figlia di immigrati. E quando gli analisti del voto ci fanno sapere che i giovani in massa hanno votato per un presidente quasi ottantenne, ciò vuol dire che quel messaggio era penetrato fin nel profondo.
Dunque i democratici hanno vinto proprio perché hanno saputo offrire agli elettori “un campo largo” di proposte e di rappresentanza. Probabilmente Biden non ce l’avrebbe fatta se, come Trump con Pence, avesse presentato, come vice, solo un alter ego. Così come nessun candidato democratico, Sanders compreso, ce l’avrebbe fatta se non avesse avuta l’ambizione di andare ben oltre il recinto del proprio partito e dei suoi ceti tradizionali di riferimento.
Ora però viene il difficile. Perché Trump ha perso, ma ha perso bene. L’eredità di Trump è quella di un’America spaccata tra due modelli alternativi di società, che per riavvicinarsi hanno ora bisogno di atti e fatti, non solo di parole conciliatrici. La scommessa più difficile di Biden sarà proprio quella di riuscire ad interpretare il nocciolo profondo di quel malessere sociale, di quel sentimento che Trump era riuscito a catturare così bene nel 2016, chiamandolo sovranismo, con un termine allora ancora non chiaro di cosa ciò significasse anche per i suoi stessi entusiasti elettori. L’America non scintillante, ma quella dura, difficile degli operai, degli agricoltori di sperdute zone interne, di milioni e milioni di poveri, disagiati e ultimi, senza assistenza e senza diritti.
La risposta del programma di Biden su questo malessere non è però evasiva e si può sintetizzare così: un welfare più generoso e più umano, con più rispetto della persona e dei loro diritti e con un’ economia più protettiva, ma prudente.
Welfare generoso riallacciando l’Obama care nella sanità oltre ad allargare la fascia di assistenza pubblica, gratuita ed universale, con un programma di assistenza per gli ultrasessantacinquenni (il Medicare) al di là del reddito; e un altro programma di aiuto alle famiglie o individui a basso reddito per poter, anche loro, avere il diritto ad assicurarsi (il Medicaid). Ma welfare generoso anche nel sostegno al reddito, con la proposta di raddoppiare il salario minimo da 7.25 a 15 $, visto che la soglia precedente non era mai più stata ritoccata da più di dieci anni.
Ma invece molto prudente sul terreno economico. Biden sa bene che davanti all’America che il virus ha portato in profonda recessione, al primo punto non può non esserci che proprio la priorità dell’uscita dalla crisi. Ecco perché i suoi programmi, Made America e Buy America, finiscono per riecheggiare quelli della presidenza precedente. Al centro del programma economico c’è infatti l’uso massiccio della leva fiscale per poter rilanciare la produzione ed il lavoro americano. Ad esempio la riduzione del 10% delle tasse per tutti coloro che investono e creano occupazione negli Stati Uniti; la riduzione del 20% invece per tutti coloro che riportassero a casa, imprese attualmente delocalizzate fuori dai confini; aumento invece del 28% per quanti allungassero fuori dai confini parte della produzione o dislocassero all’estero funzioni come quelle dei call center. Ed ancora divieto per imprese straniere di poter partecipare a gare di appalto.
Inoltre viene pienamente confermata la politica dei dazi verso la Cina. Anzi con la Cina la sfida per chi sarà a detenere la primazia del mondo, resterà del tutto aperta. Peraltro il “Made America” di Biden non è che l’alternativa, anche linguistica al programma cinese lanciato da Xj del “Made China 2025”. E visti i programmi di entrambi, si prefigura uno scontro, certo più civile ed educato nei toni, ma senza esclusioni di colpi: dall’aerospazio al settore degli armamenti; dall’intelligenza artificiale alle energie rinnovabili; dalle biotecnologie fino alle auto di terza generazione.
E l’Europa? L’Europa nel mondo che ha in testa Biden, riveste un ruolo decisivo, forse un po’ tradizionale, ma strategico. Peraltro è tutto scritto chiaramente nello stesso programma di Biden, al cui centro c’è la proposta di un patto stretto tra Stati Uniti ed Unione europea, per le regole e per la democrazia. La logica cioè di un patto da sancire dentro una visione bipolare, dove da una parte c’è il rispetto delle regole di un mondo multilaterale con società profondamente democratiche per sfidare un’altra parte del mondo, invece autoritaria e con una concezione bilaterale delle relazioni con gli Stati, così da poter imporre agli altri sempre la propria forza.
L’Unione europea, credo, non potrà che essere d’accordo, non solo a Bruxelles, ma anche a Berlino e Parigi. D’altronde la caduta della sponda di Trump ai nazionalismi e sovranisti di casa nostra, finirà con l’indebolire tutti quegli Stati, con quelli di Visegrad in testa, che hanno osteggiato tutto ciò che prefigurava un’Europa più unita ed integrata e metterà oggettivamente in estrema difficoltà Johnson e la sua Brexit così come tutti i fautori delle varie exit. Il 2020, in sostanza è l’anno della rivincita sul 2016, quando ci fu il referendum contro l’Europa e poi la vittoria di Trump alle elezioni. Dopo le incertezze di Theresa May, infatti Johnson ha proceduto con strappi ripetuti e violenti contro l’Ue, spalleggiato dalla sponda che offriva Trump, che ora, purtroppo per lui, invece non c’è più.
Ma in Europa non si potrà che essere d’accordo anche per i rapporti con la Cina. Prima ancora infatti che Biden vincesse, i rapporti con la Cina si erano profondamente deteriorati. Gli ultimi documenti ufficiali dell’Unione definiscono la Cina concorrente economico e “avversario strategico”. Il vertice di fine ottobre ai massimi livelli è fallito e quello previsto per il 16 novembre, rinviato sine die. Si è arrivati a questo punto non solo per il comportamento a dir poco opaco della Cina nella pandemia, ma ancora di più per una concezione, come per la via della Seta, dove la Cina ha negato qualsiasi forma di reciprocità nei rapporti commerciali.
In tutto questo, more solito, un problema in più potrà esserci a casa nostra, visto che non più di qualche giorno fa, il nostro Governo ha appena siglato un accordo facendo alla Cina un gran regalo geopolitico, con l’utilizzo del porto di Taranto che dopo quello di Vado Ligure, fa del Mediterraneo il loro mare privilegiato per traffici a senso unico. D’altronde sappiamo che a casa nostra, fin dentro la stessa maggioranza di governo, permangono ancora sbandamenti, nodi irrisolti e sinologi “a prescindere”. C’è solo da augurarsi che non siano di lunga durata. Perché il mondo adesso prenderà a correre ancora più veloce di prima e la voglia di rallentare, sia a Washington che a Bruxelles, per attenderci rischia davvero di essere sempre meno. Anzi, ad essere più precisi, sempre di più molto meno.
Walter Cerfeda