Nel ventennale della morte di Bettino Craxi si sono ricordati (spesso con lacrime di coccodrillo) la statura e l’azione politica del leader socialista. E’ rimasto nell’ombra il rapporto che Craxi ebbe con il sindacato da dirigente socialista, prima, da presidente del consiglio, poi, nel corso di un mandato molto più lungo di quello consueto dei governi della Prima Repubblica e ricco di avvenimenti entrati a far parte della storia del movimento sindacale e del Paese. Prima di essere chiamato alla segreteria del Psi, Bettino Craxi aveva nel suo bagaglio culturale una lunga esperienza politica nella Milano di tradizioni riformiste, allora capitale non solo economica, ma industriale del Paese, con un tessuto manifatturiero diffuso e diversificato e una classe operaia matura e sindacalizzata, occupata nei grandi stabilimenti del risorto capitalismo italiano. Craxi non si “era iscritto da giovane alla Direzione del partito” come si diceva del suo acerrimo avversario Enrico Berlinguer. Veniva dalla gavetta, aveva lavorato nelle sezioni e nel territorio, prima di essere consigliere comunale, poi deputato. Giunto ai vertici del partito, Craxi ne aveva diretto la politica internazionale e in questa veste aveva allacciato stretti rapporti con le grandi socialdemocrazie europee, coltivando la comune appartenenza all’Internazionale socialista in cui il Psi era entrato da qualche anno (dopo l’unificazione socialista). In quei tempi (siamo a cavallo degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso), la sinistra italiana pagava ancora il prezzo del suo provincialismo e della sua osservanza moscovita. Occorreva, dunque, molta lungimiranza per capire che il presente e la prospettiva futura della sinistra democratica stava altrove, come poi i fatti si incaricarono di dimostrare mandando al potere, nella maggior parte dei Paesi europei, i partiti socialisti che si erano conquistati una cultura di governo. Furono queste esperienze a tracciare il perimetro dell’universo culturale di Bettino Craxi. Il suo era un riformismo saldamente legato alle istituzioni delle classi lavoratrici (il sindacato, il movimento cooperativo, l’associazionismo professionale) tanto ricche e diffuse nella Milano erede di Filippo Turati e nell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale. L’azione di queste istituzioni (attraverso l’esercizio quotidiano e responsabile dei diritti loro finalmente riconosciuti come presidio della democrazia) era parte integrante, secondo Craxi, dell’iniziativa riformista del partito, ispirata al gradualismo, alla soluzione dei problemi, al miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, mediante una linea di condotta perennemente ispirata a valori e a principi fermi e immutabili, ma capaci di adattarsi al necessario empirismo della realtà. In fondo, un sindacato, una cooperativa sono per definizione dei soggetti condannati ad una pratica riformista: lo erano, nonostante tutto, anche quando l’aggettivo veniva aborrito come se fosse una parola “malata”, evocativa di una deviazione rinunciataria, opportunista e di destra. E Craxi ne era consapevole, tanto che, assurto alla segreteria dopo la svolta dell’hotel Midas, si impegnò a rafforzare la guida delle componenti socialiste della Uil e della Cgil. L’iniziativa, allora, suscitò anche delle critiche di ingerenza, ma diede certamente degli esiti positivi nell’interesse di tutto il sindacato. Nella Uil governava da anni una maggioranza socialdemocratica-repubblicana (mi rendo conto di evocare vicende di tanti decenni trascorsi, travolte dalle trasformazioni che hanno sconvolto la politica), che a metà degli anni ’70 si era assunta la responsabilità di bloccare (insieme alla minoranza della Cisl) il processo di unificazione sindacale e che esprimeva, come segretario, il repubblicano Raffaele Vanni, una personalità “storica” del sindacalismo italiano, recentemente scomparso. I socialisti erano in minoranza. Con la spregiudicatezza che gli era consueta quando era convinto di operare nell’interesse della causa riformista, Craxi concordò con il gruppo dirigente del Psdi un rovesciamento di alleanze nella Uil. La nuova maggioranza socialdemocratica e socialista portò alla segreteria generale Giorgio Benvenuto, un leader giovane e dinamico, già componente della gloriosa trojka della FLM, che per alcuni lustri fu l’immagine vivente della Uil. Poi, la nemesi volle che fosse Giorgio Benvenuto a sostituire Craxi, per alcuni mesi, al vertice del partito dopo il terremoto di Tangentopoli. Craxi non si occupò solo della confederazione di via Lucullo, ma anche della Cgil promuovendo un ricambio al vertice della componente socialista, dove Agostino Marianetti prese il posto di Piero Boni. Non fu un’operazione facile, perché Boni – uno dei più valorosi sindacalisti socialisti del dopoguerra – non accettò di buon grado di passare la mano. Ma la scelta di Marianetti si rivelò felicissima e riuscì a dare grande prestigio ed autorevolezza ai socialisti della Cgil. A questo punto, specie per i più giovani, è necessario dare qualche spiegazione sul perché i socialisti (una componente ora scomparsa dal sindacalismo italiano) fossero presenti in differenti confederazioni. Nel dopoguerra, la Cgil, in forza di un patto tra i partiti, era una confederazione unitaria, comprensiva di tutte le principali componenti del mondo politico di allora (comunisti, democristiani, socialisti, repubblicani). Dopo il 1948, le correnti democratiche, in varie fasi, uscirono dalla Cgil, dando vita alla Cisl (in cui si riconoscevano i lavoratori cattolici, anche se la confederazione si agganciò subito al sindacalismo democratico occidentale non a quello di impronta confessionale) e alla Uil (dove confluirono i lavoratori socialdemocratici, repubblicani e laici). I socialisti del Psi restarono insieme ai comunisti nella Cgil (anzi lo statuto del partito imponeva l’iscrizione alla Cgil). Dopo l’unificazione socialista del 1966, i lavoratori socialisti si ritrovarono tanto nella Cgil quanto nella Uil. Il nuovo partito respinse l’idea di dar vita ad un sindacato socialista (nonostante che vi fossero notevoli pressioni in tal senso), impegnando le due componenti a lavorare per la riunificazione sindacale. Nel 1969 l’esperienza dell’unità socialista fallì, ma molti dirigenti della Uil restarono nel Psi; così anche in quella confederazione si costituì un’agguerrita componente socialista. Ma il pluralismo sindacale socialista non fu mai un handicap né per i militanti socialisti né per il sindacato nel suo insieme. Craxi fu sempre rispettoso di questo pluralismo e attento a non violare l’autonomia del sindacato. Ebbe rapporti paritari con i socialisti della Uil di Benvenuto e con i compagni della Cgil, con Marianetti prima e con Ottaviano Del Turco poi; con quest’ultimo era legato poi da un’antica militanza autonomista, Soprattutto non ritenne mai che il rapporto col sindacato si esaurisse nel rapporto con le componenti sindacali socialiste. Il Psi non rinunciò, dunque, a relazioni dirette con le confederazioni sindacali. Craxi stimava Luciano Lama, il grande leader riformista della Cgil, il quale – purtroppo quelli erano tempi difficili – gli volle mandare un segnale di attenzione, accettando il suo invito a commemorare, in morte, Pietro Nenni, con toni e riconoscimenti esplicitamente autocritici nei confronti dell’ostracismo che il Pci aveva riservato alle scelte del vecchio leader socialista. Si racconta persino che quando Lama concedeva un’intervista all’Avanti!, Craxi accompagnasse il direttore Ugo Intini per ascoltare. Anche con la Cisl di Pierre Carniti i rapporti furono eccellenti. Addirittura, durante il suo Governo, vi fu una vera e propria convergenza strategica tra Craxi e Carniti, nel senso che il valoroso sindacalista (poi divenuto parlamentare europeo per il Psi) trovò nell’esecutivo diretto dal leader socialista (e nel ministro del Lavoro Gianni De Michelis) un solido interlocutore per dar corso alle proposte di Ezio Tarantelli, poi ucciso dalle BR, in materia di lotta all’inflazione di quegli anni e ai suoi effetti devastanti.
Siamo arrivati così a quel passaggio cruciale del 14 febbraio del 1984 che ha fortemente contribuito a cambiare la storia economica e politica del Paese. Allora il Paese versava in una condizione di emergenza: gli esecutivi in carica cercavano un rapporto costruttivo con le potenti organizzazioni sindacali, allo scopo di combattere il flagello dell’inflazione a due cifre. Nel mirino c’era la scala mobile, un meccanismo di rivalutazione automatica delle retribuzioni collegato al costo della vita, che consolidava e trascinava, nel tempo, l’inflazione. Nei primi anni ottanta cominciò la stagione dei grandi accordi triangolari (tra Governo e parti sociali). La procedura era più o meno sempre la stessa. Cgil, Cisl e Uil redigevano (con laboriose trattative di vertice) una piattaforma rivendicativa, nella quale le disponibilità al negoziato (le cose da dare) erano inserite in un lungo elenco di richieste (la logica era sempre quella dei sacrifici in cambio di sviluppo, equità, riforme). Questo documento veniva portato alla consultazione dei lavoratori. A questo punto interveniva il Pci, le cui strutture di azienda (allora esistevano davvero) intervenivano nella consultazione con propri emendamenti, tesi ad “indurire”, in nome della democrazia di base, mortificata dalle mediazioni di vertice, la posizione dei sindacati. Per i quadri comunisti della Cgil, combattuti tra due discipline in parziale conflitto tra loro, si apriva una partita delicatissima ed imbarazzante. Quella prassi, poi, irritava – e giustamente – i socialisti della Cgil e le altre organizzazioni. Tale stato di cose andò avanti per anni, fino alla citata rottura del 1984, quando, a seguito di una verificata indisponibilità della maggioranza comunista della Cgil ad accettare un modesto intervento sulla scala mobile (un taglio di alcuni punti), il Governo presieduto da Bettino Craxi (di cui era braccio destro Giuliano Amato) varò un decreto legge e ne difese la conversione nonostante una durissima opposizione del Pci in Parlamento ed una dura contestazione nelle piazze ad opera appunto della componente maggioritaria della Cgil e dei consigli di fabbrica “autoconvocati” (così si chiamavano le strutture di base egemonizzate dal Pci). Il movimento sindacale (compresa la stessa Cgil) si spaccò in due come una mela. Cisl e Uil aderirono all’intesa (insieme alla quasi totalità delle maggiori organizzazioni economiche e sociali del Paese) che venne giudicata positiva anche dai socialisti guidati da Del Turco. Lama stette con i suoi, anche se era evidente che, nel corso di quegli anni, il Partito aveva deciso di agire in proprio, di avere rapporti diretti col mondo del lavoro, senza bisogno di intermediari prestigiosi. All’interno dell’organizzazione, poi, vi erano forze (che avevano un punto di riferimento in Sergio Garavini) più attente alle posizioni del partito che alla logica, inevitabilmente compromissoria, dell’unità d’azione sindacale. La vicenda si chiuse nel 1985 all’indomani della sconfitta del Pci nel referendum abrogativo della legge che aveva tagliato la scala mobile. Fu una vittoria di Craxi e di Carniti, i quali sfatare un mito che da anni non veniva più messo in discussione (ne era fedele custode la Dc): l’impossibilità di decidere senza coinvolgere il Pci o non osservando l’esercizio del suo diritto di veto.
Durante la “grande rissa” del 1984-1985, circolarono addirittura alcune leggende metropolitane secondo le quali a Ottaviano Del Turco era stato offerto di diventare il segretario di un costituendo sindacato democratico (Cisl + Uil + socialisti Cgil), ma Ottaviano non prese mai in considerazione tale ipotesi. Craxi era d’accordo con lui e fece tutto il possibile, prima di emanare il decreto legge detto di S. Valentino, poi in sede di conversione, per tenere agganciata e recuperare la Cgil, alla quale dedicò sempre un’attenzione particolare. Da presidente del Consiglio – allora non si verificavano spesso eventi siffatti – Craxi volle intervenire nel Congresso della Cgil. In quella occasione – con un discorso che fece scalpore – denuncio il grande ammontare di risorse trasferito – a fondo perduto – dallo Stato alle grandi imprese. Craxi non era amato dall’establishment imprenditoriale, sempre pronto in Italia, in quei tempi, ad avvalersi del potere democristiano e a genuflettersi ai piedi del Pci.
Giuliano Cazzola