Giuseppe Berta, storico dell’industria alla Bocconi, vede grigio il futuro dell’economia italiana e spiega che la pandemia ha amplificato le nostre storiche lacune: “anche senza l’effetto del corona virus, il 2020 sarebbe stato un anno della verità per la nostra industria, per lo più arretrata e fragile”. Gli chiedo se e quando, dal suo punto di vista, potremo recuperare quanto abbiamo perso nei nefasti mesi di lockdown, e la risposta è poco consolante: “L’Italia non recupera mai i livelli precedenti alle crisi. Basta vedere come è andata dopo il 2008-2009: eravamo ancora sotto i livelli precedenti alla crisi anche prima che arrivasse la nuova crisi del covid 19”.
Il motivo di questo ritardo?
Lo conosciamo bene, è la forte dicotomia del sistema industriale italiano: da un lato le imprese del gruppo di testa, dinamiche, internazionalizzate, e dall’altro un quadro desolato di imprese che stentano, lottano per la sopravvivenza. Il primo gruppo è circa il 25% del totale delle imprese, il secondo è tutto il resto; e di questa massa solo alcune potranno risollevarsi, altre non hanno chance. Dunque il 2020 sarebbe stato comunque l’anno della verità, anche senza la pandemia. Sarebbe stato il giro di carte decisivo per il nostro sistema industriale.
Dopo la pandemia questo quadro è destinato ad accentuarsi, suppongo.
Certo, perché abbiamo meno risorse, e meno sostegno rispetto agli altri paesi europei. Basta confrontare i piani per l’auto di Francia e Germania per chiedersi: il nostro governo, che piani ha in mente, quale posto pensa di dare all’industria? E’ una domanda legittima, che ha posto a Conte anche il neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Non ottenendo risposta, peraltro.
In effetti, malgrado le tante task force e i fluviali Stati generali, non si capisce cosa intenda fare il governo.
Non lo sanno. Non hanno idea di come rinsaldare i capisaldi della nostra industria. Hanno in mente solo misure tampone, per arginare le varie falle che si aprono, ma nessuna prospettiva di lungo o medio termine.
Si parla però anche di nazionalizzazioni, di ingresso del governo nelle imprese, di una nuova Iri, in sostanza. Che ne pensa?
Più che nuova Iri, direi una nuova Gepi, dove riversare i settori decotti di cui non sappiamo che fare e ai quali si pensa di assicurare, al massimo, una sopravvivenza a tempi brevi. Nulla di strategico. E quello che preoccupa è proprio questa incapacità di reazione. Lo vedo bene dal mio osservatorio qui a Torino: il Piemonte è messo malissimo, il rapporto di Banca d’Italia dice che ha una caduta superiore alla media nazionale. Il Piemonte industriale non c’è più, ma non è stato sostituito da nulla. Non c’è nessun progetto, nessun disegno. Reggono le filiere che vanno verso la Francia, la Germania, paesi che sapranno correre e trascineranno nella loro scia le nostre imprese migliori; ma non c’è un progetto nazionale per il nostro capitalismo industriale.
E le grandi aziende pubbliche? Penso a Eni, Enel, Finmeccanica Leonardo, Fincantieri, o le stesse Ferrovie, o Poste. Aziende dinamiche, in crescita, e a forte contenuto di innovazione. E alla faccia di chi critica lo “stato imprenditore”, aggiungerei.
Ma guardi che in realtà anche queste grandi imprese sono in ritirata, sono scese di diversi punti nelle classifiche internazionali. Non abbiamo, da nessun punto di vista, una presenza industriale paragonabile a quella di altri paesi. E aggiungo, scontiamo anche una diffidenza, nei confronti di queste aziende, proprio da parte di altri paesi: non si fidano della presenza pubblica. Così come i nostri stessi imprenditori non si fidano a investire. Ha un bel dire, Bonomi, che va alzata la produttività: ma si alza con gli investimenti, non con altro. E sono quelli che mancano da decenni.
Ma perche siamo messi cosi male?
Non lo sa bene nessuno, in verità. Marcello De Cecco, grande economista scomparso, affermava che tutto questo era iniziato negli anni Settanta. E’ allora che si vide che il paese era arrivato al suo limite massimo. Poi ha avuto ancora qualche sprazzo di vitalità, ma non è mai più riuscito a rafforzare i capisaldi industriali.
Mi sta dicendo che il nostro miracolo economico è durato si e no una decina di anni, e poi il nulla?
Si, meno di dieci anni. Abbiamo tenuto le posizioni per un po’, dopodiché è iniziato il lungo ripiegamento che ci ha portato alla attuale situazione.
Chiedo ancora: perché?
Perche, come diceva Einaudi, l’Italia non è un paese di grandi imprese. E’ un paese di imprese anche brillanti, ma sempre con un piede, diciamo, nell’artigianato; e sulle quali si sono innestate poche grandi industrie che hanno tentato di disegnare quell’architettura industriale che il nostro paese, contadino, artigiano, appunto, non aveva. Per fare un esempio: siamo un po’ come la Svizzera o la Danimarca, non vere potenze industriali, ma una ha la Nestlè, l’altra la Tuborg. Questo va benissimo per paesi di pochi milioni di abitanti, non in un paese come l’Italia, da sessanta milioni. La verità è che negli ultimi decenni in Italia è cresciuta una sola grande azienda privata, ed è Luxottica. La cui sorte, tuttavia, è legata al suo fondatore e patron. Che ha 85 anni.
E non abbiamo avuto altro? Possibile?
Le faccio un altro esempio, la Corea del sud. Negli anni 60 era un paese contadino, come e più dell’Italia del dopoguerra. Nel 65 il marchio Kia produsse la prima auto su licenza: era la Fiat 124. Guardi ora dove sta la Corea del Sud, nel mercato mondiale dell’auto, con Kia Yundai, e dove siamo noi.
Il miracolo coreano meglio di quello italiano, dunque?
Quello coreano non è stato un miracolo, ma una scelta ragionata e precisa. E’ un paese di quasi 50 milioni di abitanti, quindi simile a noi, e con una storia economica e industriale che inizia un decennio dopo la nostra. Rispetto a noi, negli anni Settanta e Ottanta era arretrato. Il miracolo è stato piuttosto un enorme investimento in innovazione e soprattutto in formazione. Vantano la maggiore spesa per formazione del mondo. Il risultato è che oggi hanno l’auto, l’acciaio, l’elettronica, tutto. E non solo: nella pandemia hanno avuto pochissimi contagi e ancor meno decessi, senza chiudere niente, senza lockdown, ma soltanto grazie a un’app efficace sugli smartphone di tutti i cittadini e un grandissimo spirito di comunità.
Noi invece abbiamo Immuni e un invincibile individualismo, è cosi?
Noi non siamo stati capaci di lavorare nel lungo periodo, abbiamo dissipato un patrimonio di sapere e di conoscenza e abbiamo confinato gli animal spirit verso il basso. Per questo, finirà che le nostre realtà migliori saranno risucchiate verso Francia e Germania, mentre il resto ripiegherà ulteriormente.
A proposito di questo, si sta realizzando una grande operazione Italia-Francia con la fusione tra Fca e Psa. Come la vede?
Intanto, osservo che i tempi sono strettissimi, marzo 2021 è dietro l’angolo. Elkann li ha confermati, ma ho qualche dubbio. Qualche altro dubbio mi arriva dalla lettura del piano per l’auto del governo francese, dove non si cita mai questa operazione, ma solo le due case, Psa e Renault, e dove si annuncia un poderoso sostegno dello Stato per raggiungere l’obiettivo di un milione di auto elettriche entro il 2025 e per realizzare 100 mila punti di ricarica entro il 2021.
E perché questo le suscita dubbi?
Perché da noi la 500 elettrica ancora non c’è, doveva essere presentata il 4 luglio ma con la pandemia chissà; la fabbrica che la realizza, Grugliasco, ha 250 addetti, e lavorano alcuni giorni a settimana soltanto. Mi chiedo come si concilierà questo con l’obiettivo indicato dal governo francese che, ricordo, è azionista di Psa. Ciò detto, una volta realizzata la fusione, la guida del nuovo gruppo sarà in mano a Carlos Tavares, dunque sarà francese e dubito che si farà influenzare dal governo italiano nelle scelte strategiche. Che potrebbero essere anche dolorose, per noi. Davvero pensiamo che si terranno Mirafiori, fabbrica inaugurata nel ’39? O Pomigliano, dove fanno la Panda? E vogliamo parlare dell’Alfa Romeo, o della Maserati, che nemmeno si vedono più in giro su strada?
E dunque?
E dunque, l’operazione è interessante per Psa, più che altro perché le apre la via dell’America, con Chrysler. Per il resto, i francesi non mi sembrano gente che fa beneficenza. Dunque, sulla parte italiana, non è da escludere un ridimensionamento degli impianti, e probabilmente qualcosa, per esempio Pomigliano, potrebbe finire per essere nazionalizzato. D’altra parte, ha anche dato i natali a un importante esponente del governo, non mi stupirei.
Lei è terribilmente pessimista, lo sa, vero?
Io purtroppo vedo e sento tante diagnosi, ma zero terapie.
Nunzia Penelope