Giavazzi sul Corriere dell’11 settembre notava come gli investimenti sull’innovazione in Italia siano fermi alle cifre del 2007, mentre nella UE sono aumentati mediamente del 20%. La mancanza di innovazione fa sì che la crescita del fatturato dipenda totalmente dall’andamento della domanda aggregata, e questa consapevolezza determina in gran parte degli operatori delle politiche economiche il riflesso pavloviano, radicato nella tradizione ideologica keynesiana, di aumentare la domanda attraverso la crescita dei redditi. A parte il fatto che in tempi di inflazione scarsa o nulla la liquidità che si butta sul mercato non produce un incremento equivalente della domanda (e questo vale per i consumi come per gli investimenti), e fermo restando che la domanda aggregata va comunque sostenuta, soprattutto con la leva fiscale, le imprese per crescere devono creare nuova domanda, o sottrarre quote di domanda ai concorrenti: se un’impresa non può crescere di più della sua domanda tradizionale si ferma, e troverà sempre qualcuno che le sottrarrà il mercato o con prodotti nuovi o con costi più bassi. La creazione di nuova domanda e la competitività sono funzione della capacità di innovare, e l’innovazione è il valore aggiunto che fa crescere l’economia. La gestione dell’esistente, conclude Giavazzi, ci condanna alla stagnazione: infatti la nostra economia è cresciuta, negli ultimi 20 anni, ad una media dello 0,46%.
A conclusioni analoghe giunge una recentissima ricerca del Centro Studi Assolombarda sulla competitività delle imprese manifatturiere lombarde, catalane, bavaresi, del Baden-Wurtenberg e del Rhone-Alpes: i dati smentiscono in maniera abbastanza netta l’idea che un basso costo del lavoro per unità di prodotto (o CLUP) sia da sola condizione necessaria per una elevata competitività internazionale. Viceversa le imprese che offrono bonus, brevettano, utilizzano elevati livelli di digitalizzazione ottengono quasi 30 mila euro per addetto in più rispetto al resto del campione (in Lombardia addirittura € 88.000 contro € 44.000).
E’ chiaro come la capacità di innovare fino al punto di produrre brevetti come esito finale della R&S poggia innanzitutto sulla qualità del capitale umano. Ma questa è gravemente insufficiente. L’Italia è agli ultimissimi posti nell’UE per numero di laureati rispetto al totale della forza di lavoro, per effetto di una dispersione che avviene in due direzioni: è altissima la quota di abbandono universitario (45%) e molto più alta dei livelli medi OCSE la percentuale di laureati (e in genere sono tra i migliori) che si trasferiscono all’estero. Dal 2014 il numero di laureati disponibili per le imprese in Italia non cresce più; Irlanda e Corea sono già a percentuali triple delle nostre, e anche la Polonia ci sta superando.
Questo significa che il Paese non considera una priorità perseguire l’eccellenza nella formazione: non è considerato, né a livello di governo né di opinione pubblica, un obiettivo prioritario delle politiche dell’istruzione e dell’università; i finanziamenti non hanno questo scopo, l’establishment universitario e scolastico ha tutt’altre priorità, nessun interesse organizzato spinge seriamente in questa direzione.
Ho l’impressione che nel Paese vi sia un atteggiamento, assolutamente trasversale, apatico e indolente rispetto a queste sfide. Nell’immaginario collettivo italiano le priorità di gran lunga più sentite si possono ricondurre al termine “protezione”. In parte si tratta dello shock perché le tutele cui la welfare society ci ha abituati, ormai considerate naturali, eterne e dovute, sono messe in discussione; in parte si tratta della paura per le rotture che la globalizzazione ha introdotto nell’economia e nel lavoro.
Ma, mi perdonerete se tento di fare un po’ di antropologia, credo ci sia qualcosa di più profondo, attinente alla nostra tradizione culturale. Proviamo a metterla così: in Italia è stimata la povertà, spregiata la ricchezza. La prima è virtù, la seconda segno di egoismo e ingiustizia. Dalla cultura cattolica a quella “di classe” questa visione è tracimata nell’immaginario collettivo. Non è, si badi bene, una rassegnazione al disagio, ma il convincimento che esso richieda in primo luogo protezione. Quello che nella società occidentale è stato un parametro decisivo per valutare l’incremento del benessere, ossia la mobilità sociale, è visto con sospetto perché in qualche modo implica un venir meno della condivisione di un percorso comune, dei legami di solidarietà, il rifiuto, o la rinuncia, ad un’identità sociale. Il Sindacato nella sua epopea più sfolgorante, l’Autunno Caldo, ha scelto l’operaio-massa, ossia il terzo livello metalmeccanici e su quel profilo ha tarato la propria politica rivendicativa: aumenti uguali per tutti, punto unico di scala mobile, disincentivazione dei percorsi di carriera individuali, disinteresse quando non ostilità (servi dei padroni…) verso i livelli professionali più alti.
Nella scuola, a parte le stupidate del Movimento Studentesco tipo il voto politico o il voto di gruppo (confesso di averle fatte anch’io a 18 anni), tutte intese a contrastare la selezione, è fiorita ed ha attecchito una cultura che ha come sua massima preoccupazione la protezione degli insegnanti: l’accesso al ruolo, la garanzia di non essere mai valutati nel merito, la regola della “libertà d’insegnamento” per non essere sottoposti a verifiche, la progressione di carriera per sola anzianità, la rivendicazione del posto di lavoro sotto casa sono i corollari di una politica della scuola che da decenni ormai si misura, di riforma in riforma, non con l’efficienza e i risultati dell’insegnamento, ma con la rivendicazione di combattere il precariato degli insegnanti.
E, quando si parla di povertà, qual’è la figura cui si pensa subito? Il Pensionato, destinatario peraltro della quota di gran lunga più cospicua della spesa pubblica per la protezione sociale. Vi sarebbe molto da ragionare sulla povertà dei pensionati, ma farlo è assai impopolare. Ancor meno far notare che i giovani sono parecchio più poveri: anzi, qualcuno conclude che bisogna aumentare le pensioni, visto che gli anziani devono mantenere i giovani…
D’altra parte, ed è una buona cartina al tornasole per riscontrare la mentalità dominante, è considerato umano e caritatevole pagare per anni sussidi ai disoccupati piuttosto che investire i soldi per aiutarli a rientrare nel mercato del lavoro.
La cultura della protezione non è di classe: attraversa tutta la società, si declina nella rivendicazione di giammai toccare i baluardi che un’infinità di corporazioni ha eretto a difesa delle proprie rendite di posizione; dalle più modeste (i tassisti..?) alle più prestigiose (notai, farmacisti,…).
Nell’Università, per esempio, i meccanismi di accesso all’insegnamento e alla ricerca sono costruiti per selezionare non in base al merito, ma all’appartenenza (a un clan familiare o alla corte di un cattedratico).
Alla fine bisognerà scegliere: risorse finanziarie e politiche vanno spese per conservare l’esistente, o per consentire di volare a chi ne ha la voglia e la capacità? Continuiamo a considerare più importante redistribuire la ricchezza, o a crearla? Non illudiamoci che, al di sopra di una certa misura, le due cose siano compatibili senza metterci mano in modo significativo. Non si tratta ovviamente di penalizzare i “poveri” ma di ripensare se la spesa sociale che oggi finanziamo serva davvero a proteggere i poveri.
Nella società italiana le capacità e le volontà mettersi a correre ci sono: basti guardare il successo che sta avendo Milano, ormai più vicina a Londra e Monaco che a Roma, e i rilevamenti sull’andamento del valore aggiunto e dell’occupazione della Lombardia.
Il rischio è che la radicata diffidenza nei confronti del successo, il sospetto con cui si guarda all’impresa, il timore per il cambiamento, abbiano la meglio. In questo caso la tensione tra le due velocità cui si muove il Paese potrebbe diventare lacerante con rischi gravi per la tenuta del tessuto sociale, delle istituzioni democratiche e della stessa unità del Paese.