Continua a prevalere un’ immagine – spesso giustamente – negativa del lavoro nei call center. La Repubblica del 14 maggio titolava “forzati del telefono” una mini – inchiesta che ricordava le situazioni estreme e patologiche: quelle a rischio del posto del lavoro e connotate anche da una precarietà mal pagata (fino a tre euro l’ora). In realtà nell’articolo si richiamava anche l’evoluzione registrata da una parte del settore grazie agli interventi del governo Prodi – la citatissima circolare del ministro Damiano – che avevano incentivato le assunzioni a tempo indeterminato: un risultato che sembra aver interessato oltre 24 mila lavoratori. Nello stesso tempo veniva citata una riflessione sociologica piuttosto scoraggiante: il call center come “simbolo della decadenza e della spersonalizzazione del lavoro”.
Come orientarsi? E’ possibile esprimere un giudizio univoco?
In questo senso l’inchiesta sulla Vodafone, svolta da Il diario del lavoro, aiuta a mettere a fuoco una parte, meno nota, ma non banale, di questo fenomeno lavorativo. E può consentire di affinare le lenti della comparazione tra casi: come proverò a fare più avanti.
Il quadro che emerge dalla Vodafone – che costituisce uno spicchio significativo del settore – può essere riassuntivamente condensato così: gli occupati di quella azienda – in tutti i siti analizzati che si trovano in aree territoriali differenti – godono di una significativa stabilità ed anche di un trattamento economico dignitoso. Questo produce una – per molti – imprevista relativa soddisfazione verso il lavoro: in qualche modo in linea con gli atteggiamenti dei lavoratori italiani (e non solo) verso il proprio job, messi in luce da diverse ricerche sociologiche. Questo esito che può sorprendere trova spiegazioni nella presenza di diversi fattori che l’inchiesta de Il diario del lavoro mette in evidenza. In Vodafone si registra un orientamento nella gestione del personale che punta in modo non previsto verso la valorizzazione del lavoro. E’ un orientamento che trova le sue radici lontane in una storia di attenzione verso il lavoro – o come si direbbe adesso più elegantemente ‘le risorse umane’ – che viene dalla tradizione più attenta ed aperta dell’Olivetti. Essa è però aggiornata dalla moderna convinzione che il raggiungimento di performance elevate nei lavoratori richieda di investire in direzione della loro soddisfazione. Va qui considerato che questo è un dato essenziale in tutte le attività produttive, ma risulta particolarmente delicato ed essenziale in quelle che hanno un immediato contatto ed un immediato riflesso verso la customer satisfaction. Quindi un’azienda orientata ad investire sulla qualità ha bisogno di una forza lavoro più motivata e più coinvolta: non si tratta dunque di un atteggiamento compassionevole, riconducibile alle istanze umanistiche di Adriano Olivetti, ma di una necessità economica non disinteressata.
Un atteggiamento che si traduce in politiche concrete. Come quelle di incentivazione economica, che si fonda su una quota elevata di salario variabile (fino anche al 30% della retribuzione) e che costituisce un’importante posta in gioco, condivisa dall’azienda e dai lavoratori. Ma anche quelle più immateriali, ed altrettanto importanti, che fanno leva sul coinvolgimento dei dipendenti, e, attraverso la spinta all’orgoglio professionale, producono maggiore identificazione con l’azienda e i suoi obiettivi. Dunque sorprendente, ma vero: anche l’orgoglio professionale. Costruito intorno alla voglia di lavoratori relativamente giovani ed abbastanza istruiti di mostrare le loro qualità, di arricchire con osservazioni e innovazioni le campagne della loro azienda, di non accontentarsi di recitare un copione già scritto.
Ovviamente il quadro, nell’insieme positivo, che emerge dell’inchiesta ha bisogno di ulteriori verifiche riferite ad una porzione più vasta (almeno campionaria) di lavoratori.
Però esso resta emblematico dell’evoluzione plurale di questo settore, finora in espansione. Sarebbe utile effettuare ricerche che confrontino casi e situazioni diverse. Forse uno studio più sistematico è quello cui allude “la Repubblica”, realizzato dal “pensatoio” (Ve.drò) di Enrico Letta: ove fosse così l’auspicio è che questi studi possano aiutare la politica ad avere immagini meno di maniera di fenomeni sociali ormai tanto rilevanti.
Ma anche in mancanza di questo tipo di studi possiamo provare a comporre un piccolo ritratto a più dimensioni del lavoro nei call center, a partire dalle informazioni già esistenti.
La casella più elevata è quella in cui si collocano la Vodafone e casi affini, caratterizzata da lavoro più stabile e dalla presenza di incentivi, più o meno significativi, alla crescita professionale dei dipendenti.
Una casella intermedia ci è suggerita da due sociologhe meridionali Corigliano e Greco (“Un posto nel call center: giovani e lavoro nel Mezzogiorno”) che invitano ad osservare il lavoro nei call center in rapporto al contesto socio-economico in cui esso ha luogo. Così – dati alla mano – le due studiose argomentano che anche lavori poco qualificati e poco tutelati possono avere una loro utilità sociale nelle aree nelle quali è bassa in generale la domanda di lavoro, e poco significativa quella di posizioni qualificate. I punti di arrivo sono problematici: questi lavori salvano i giovani dall’insicurezza o la qualità incerta del loro inserimento diventa una trappola?
Infine la casella più bassa è anche quella più nota, destinata a restare, soprattutto in ragione del riprodursi di aziendine usa e getta, interessate solo al contenimento dei costi. Un’indagine di qualche tempo fa, promossa da Rifondazione Comunista, faceva dei call center l’emblema di un neo-taylorismo arrembante e insoddisfacente: veniva definito come “una sorta di paradigma – anche simbolico – del lavoro poco remunerato, poco gratificante e soprattutto poco e per niente tutelato”. Ovviamente questo piccolo esercizio potrebbe essere affinato e articolato, le caselle aumentate e soprattutto meglio individuati i pesi quantitativi di ciascuna di esse.
In verità questa geografia ampia e le zone d’ombre testimoniano che in questo settore, come in altri, l’affermazione di diritti sociali più solidi passa necessariamente attraverso regole pubbliche più attente e incentivi mirati alla stabilità del lavoro, tali da scoraggiare le forme straccione di concorrenza al ribasso.
Mimmo Carrieri, professore di Sociologia economica e del lavoro
all’università di Teramo