Secondo Schopenhauer il “destino mescola le carte e noi giochiamo”. Bene, ma con una ripresa che c’è (Pil a 1,5%) ma viene ancora giudicata congiunturale e quindi esposta ai venti della fragilità, sarebbe il caso di non giocare sempre con le stesse carte. L’autunno che abbiamo di fronte può essere dirimente a questo proposito: farci capire se dovremo sottostare ad un’economia preelettorale per mesi o se invece ci sarà spazio per rafforzare questa crescita dando ad essa quello che finora non ha: progettualità vera, scelte strutturali forti e lungimiranti, la ripresa di un dialogo sistematico sulle grandi questioni dello sviluppo nella politica e nella realtà sociale.
“Daremo lavoro ai giovani” si sente dire in giro alla vigilia dell’appuntamento al voto in Sicilia. Nel frattempo l’Istat ci ricorda che nel secondo trimestre di quest’anno rispetto al precedente su 10 posti di lavoro in più 8 sono a termine (su 149 mila posti di lavoro in più 123 mila sono a termine). Una tendenza che appare immutabile visto che nel frattempo i passaggi da lavoro a termine a lavoro a tempo indeterminato diminuiscono: dal 24,3% del secondo trimestre del 2015 al 16,5% del 2017. Il tasso di occupazione per giunta sembra voler ridicolizzare certe affermazioni tanto imperiose: se sale dello 0,9% fra coloro che hanno più di 50 anni (benedetta legge Fornero) arranca con uno striminzito 0,1% fra i giovani fino ai 34 anni. Giovani che, dice l’Istat, per trovare il lavoro si affidano in mancanza di politiche attive del lavoro degne di questo nome per lo più ancora ai cosiddetti “canali informali” (è così per l’83,5% dei cerca lavoro) , il passaparola nell’era della digitalizzazione e delle nuove tecnologie.
E potremmo continuare con una formazione che in quanto a laureati ci colloca agli ultimi posti nella Unione Europea, con una scuola tutta da rifondare mentre le migliori intelligenze se ne vanno e i divari territoriali si ampliano ribadendo che la crescita marcia più spedita al nord ed al centro con il sud che naviga lontano dalle loro percentuali.
Colpisce, ma non troppo, il fatto che nelle analisi sulla situazione italiana prevalga la solita litania alla quale non si da certo risposta con dei tweet o con promesse generiche che finiscono per accrescere diffidenza ed incertezze. Cosa deve fare l’Italia per non traccheggiare nelle retrovie della crescita (non si dimentichi che l’aumento del Pil dell’1,5% fa confrontato con il 2,2% della media Ue)? Le ricette sono sempre eguali: debito pubblico, produttività del sistema, investimenti., formazione, efficienza dei servizi pubblici. Semmai manca un riferimento, cruciale invece, al modello di economia e di tenuta civile che dovremmo implementare negli anni futuri. Un terreno di riflessione del tutto sguarnito o quasi che accentua la caratteristica di Paese che naviga a vista, fra scivoloni e provvisorie resurrezioni.
Eppure che il nostro sistema verrà messo alla prova nei prossimi mesi non v’è dubbio alcuno: è facile intuire che la fine dell’immissione di liquidità della Bce che ha acquistato titoli italiani finora per un controvalore in euro pari a 256,6 miliardi (il 13,6% dei titoli di stato in circolazione), sia pure graduale, restringerà il sentiero della ripresa e renderà più selettive le scelte che riguardano le risorse da impegnare. Dovremmo arrivare preparati a questo snodo al quale si aggiunge quello di un euro forte che suona come ulteriore sfida per il nostro export. Ed in prima fila nel rispondere a questa sfida dovrebbero esserci le forze politiche, la sinistra riformista, coloro che si battuti contro le derive liberiste e rigoriste.
Invece scontiamo un evidente ritardo su questo terreno. E’ come se per l’ennesima volta lucrassimo sulla ripresa mondiale che nasconde una parte almeno dei nostri difetti senza però creare fondamenta più solide per i tempi nei quali dovremo procedere contando soprattutto su noi stessi.
Eppure la vitalità del nostro sistema produttivo ed economico continua a fornire buone prove anche per l’atteggiamento del movimento sindacale che ha impresso alla contrattazione una direzione che tiene conto dei profondi mutamenti in corso. La nostra è la rivendicazione di un ruolo da protagonisti concreti in una realtà del lavoro immersa in una mutazione irreversibile. Abbiamo posto le basi per una presenza nel mondo del lavoro che ha ulteriori potenzialità da esprimere per rafforzare il nostro compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Ma dobbiamo sapere che proprio per tale motivo è fondamentale che il nostro Paese abbia la forza di ricostruire quei fondamentali che garantiscano non solo crescita economica ma anche sociale. Che il nostro sistema manifatturiero regga è essenziale, ma come può farlo in un contesto di debolezze, omissioni, mancanza di lungimiranza, egoismi e, perché no, continua corruzione?
Ecco perché deve soccorrerci anche in questa fase economica e politica non solo il bagaglio di risultati che abbiamo ottenuto e che sono la nostra forza ma anche quella tradizione laica e riformista che impone di riflettere sull’insieme elle caratteristiche della società, di leggerne le esigenze e le aspirazioni, di tradurre questo forzo culturale in proposte, in pressione sociale, in opposizione a derive che riducano la partecipazione alle scelte che è chiamata a fare la nostra democrazia.
C’è bisogno di incrementare la circolazione delle idee, delle intuizioni, delle verifiche sul campo che si fanno. Senza nostalgie per il passato che pure offriva in particolare agli inizi dell’autunno sedi di confronto di grande livello imparagonabili con la modestia barocca di Cernobbio o con la ritualità del meeting Cl di Rimini. “Non esiste vento favorevole per i marinai che non sanno dove andare” diceva Seneca. Il vento ora c’è, ma è ancora troppo incerta la direzione di marcia. Ed è un problema che riguarda anche noi.