Mercoledì mattina, a Torino, tappa conclusiva di Safety Car, la campagna di iniziative regionali lanciata dalla Fiom-Cgil ai primi di gennaio e che, dopo aver toccato varie parti d’Italia, è approdata nel capoluogo piemontese, ovvero nella città che è stata a lungo, e in parte è ancora, la capitale dell’industria italiana dell’auto.
Stiamo parlando dell’Assemblea nazionale dei quadri e dei delegati dell’automotive, convocata dal sindacato dei metalmeccanici Cgil; assemblea che è stata ospitata dal Teatro Q77, in corso Brescia, e si è articolata in due parti. In mattinata, una classica riunione sindacale, nel cui corso le voci dei delegati di vari stabilimenti si sono alternate con gli interventi di alcuni dirigenti sindacali, conclusi da quello di Maurizio Landini, il Segretario generale della Confederazione. Nel pomeriggio, una tavola rotonda ha consentito alla stessa Fiom, rappresentata dalla Segretaria generale, Francesca Re David, di confrontare le sue tesi con quelle di autorevoli ospiti esterni.
Va detto, subito, però, che l’atmosfera in cui si è svolto l’appuntamento torinese non era, con ogni probabilità, la stessa che era stata immaginata da chi, il mese scorso, aveva lanciato la campagna denominata Safety Car. Alle pur gravi preoccupazioni sul futuro del settore automotive nel nostro Paese, che stavano a monte dell’iniziativa, si sono infatti aggiunte quelle – del tutto inattese fino a poco tempo fa – legate al ritorno della parola “guerra” come parola usata per descrivere eventi incombenti sulla scena europea. “Siamo di fronte a un rischio di guerra molto concreto”, ha infatti esordito lo stesso Landini, con un evidente riferimento agli eventi che già si profilavano ai confini fra Russia e Ucraina. Aggiungendo subito dopo che “in queste ore stiamo discutendo con Cisl e Uil per chiamare lavoratrici e lavoratori, ma anche cittadini e associazioni, a prendere la parola e scendere in piazza”.
Ma torniamo ai temi posti originariamente al centro dell’assemblea svoltasi nella mattinata di mercoledì 23 febbraio. Un’assemblea che è parsa avere un duplice scopo: uno esterno e l’altro interno all’organizzazione.
Cominciamo dal primo. Nel suo intervento, Michele De Palma, Segretario nazionale Fiom responsabile per il settore automotive, ha sostanzialmente ribadito la posizione elaborata assieme a Fim-Cisl, Uilm-Uil e Federmeccanica e poi resa nota con una conferenza stampa tenuta congiuntamente a Roma il 3 febbraio scorso dalle quattro organizzazioni di rappresentanza sociale del settore metalmeccanico (i tre principali sindacati dei lavoratori più la federazione delle imprese). Posizione che consiste nella richiesta, rivolta al Governo, di governare effettivamente, se ci consentite il bisticcio, la duplice transizione, ecologica e tecnologica, che impatta oggi, in senso lato, con l’industria manifatturiera, e, con particolare forza, proprio sugli assetti attuali dell’industria dell’auto.
Nello specifico, De Palma ha affermato che quello che serve oggi è l’istituzione di un’unità operativa, collocata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che metta a punto e gestisca un piano straordinario di investimenti per il settore dell’automotive. Piano dotato, peraltro, di risorse anch’esse straordinarie e finalizzato a favorire l’innovazione conciliando le esigenze dell’ambiente con le prospettive occupazionali.
A monte della formulazione di questa richiesta ci sono due fenomeni.
Da un lato, c’è un fenomeno che si sta sviluppando a livello europeo. Si tratta delle conseguenze della direttiva, assunta dall’Unione Europea, secondo cui, entro il 2035, non potranno più essere vendute, nei 27 Paesi della stessa Unione, nuove autovetture i cui motori producano emissioni di carbonio (lo stesso varrà per i furgoni entro il 2040). Direttiva che ha innescato un diffuso processo di transizione dalla produzione di autovetture dotate dei cosiddetti motori endotermici, alla produzione di auto elettriche. Con un conseguente sconvolgimento non solo e non tanto degli assetti delle grandi fabbriche dove vengono realizzati i montaggi finali, quanto della funzione stessa di buona parte delle medie fabbriche della componentistica, a partire da quelle che producono le varie parti dei motori.
Dall’altro lato, c’è invece un fenomeno specificamente italiano, derivante dalle conseguenze della fusione dell’italo-americana Fca, erede della vecchia Fiat, con la francese Peugeot nel gruppo automobilistico Stellantis, nato poco più di un anno fa (gennaio 2021). Ebbene, ha sottolineato De Palma, mentre la capacità produttiva annua installata negli stabilimenti del Gruppo presenti nel nostro Paese ammonta a 1 milione e mezzo di veicoli, quelli che vengono effettivamente prodotti sono circa 700 mila. E quel che è peggio è che l’occupazione nei singoli stabilimenti tende a ridursi.
Quindi, a una discesa dei volumi prodotti e, conseguentemente, dell’occupazione nell’industria dell’auto propriamente detta (discesa in parte mascherata da un crescente ricorso agli ammortizzatori sociali), tende ad aggiungersi una nuova crisi, anche più rapida nei suoi sviluppi, nella componentistica. Con un risultato complessivo già oggi negativo e, in prospettiva, ancora più allarmante. Perché l’industria dell’auto, nel nostro Paese, non costituisce un ramo produttivo qualsiasi ma, come è stato ricordato anche il 3 febbraio, una realtà che viene chiamata, non per caso, “l’’industria delle industrie”. E il cui stato di salute non riguarda solo il settore metalmeccanico, ma anche tutti gli altri settori che concorrono a produrre la sua componentistica, a partire dall’industria chimica (copertoni e finestrini, in primo luogo).
Restando all’assemblea di mercoledì mattina, abbiamo accennato a quello che abbiamo definito come un suo scopo interno all’organizzazione. Scopo consistente nell’offrire ai delegati Fiom – provenienti sia dagli stabilimenti Stellantis, che da quelli della componentistica – una duplice occasione. Da un lato, assistere a un confronto qualitativamente alto sui temi a loro più vicini. Dall’altro, confrontare fra loro le esperienze vissute nei rispettivi luoghi di lavoro, condividere con l’organizzazione le loro anche diverse esigenze e, in prospettiva, assumere un ruolo attivo nell’iniziativa rivolta, in primo luogo, al Governo, e, in senso lato, ai poteri pubblici.
Delegate e delegati hanno effettivamente approfittato dell’occasione, animando in mattinata un denso dibattito. Che, specie per quelli provenienti dagli stabilimenti Stellantis , ha anche costituito un momento di orgoglio di organizzazione. Un’organizzazione, la Fiom, che, ad esempio a Pomigliano, dopo essere scesa dai 700 iscritti dell’inizio degli anni 2000, ai 70 del dopo-vertenza del 2010, è poi risalita ai più di 400 di adesso. Un’organizzazione, ancora, che non si sente più isolata, come negli anni successivi allo scontro con Marchionne, ma è tornata, come si è detto, a fare fronte comune non solo con Fim e Uilm, ma, addirittura, con la Federmeccanica (organizzazione imprenditoriale in cui, peraltro, Stellantis non è presente).
L’assemblea mattutina, però, ha costituito anche il luogo in cui si è percepito che negli stabilimenti Stellantis non c’è un buon clima. In questi stabilimenti, infatti, regna la preoccupazione per il futuro dei posti di lavoro e accade così che quando in una fabbrica, o in un ufficio, vengono offerte dimissioni incentivate, la somma delle lavoratrici e dei lavoratori che si candidano all’esodo è superiore al numero delle uscite previste. E questo non è certo un indizio incoraggiante.
Ma veniamo alla tavola rotonda del pomeriggio. Tavola rotonda che è stata aperta da Federico Fubini, noto giornalista delle pagine economiche del Corriere della Sera nonché coautore di una recente intervista (18 gennaio) col numero 1 di Stellantis, il portoghese Carlos Tavares. Fubini ha dunque condotto il confronto cui hanno partecipato la già ricordata Francesca Re David, il ministro del Lavoro, Andrea Orlando (Pd), il Presidente della regione Piemonte, Alberto Cirio (FI), e il Presidente di Federmeccanica, Federico Visentin.
Nel corso di questo confronto, in merito alla questione del prospettato stop alle emissioni nocive delle auto, si sono profilate, per così dire, due scuole di pensiero. Scuole la cui diversità non sembra possa essere ricondotta a differenti orientamenti politico-culturali, quanto a differenti funzioni e, quindi, a differenti punti di vista.
Per capire a cosa ci riferiamo, prenderemo qualche passo della sopracitata intervista, così intitolata dal Corriere della Sera: “Tavares (Stellantis): ‘Auto elettrica scelta dei politici, la brutalità della svolta crea dei rischi sociali’”.
Ecco dunque l’Amministratore delegato di Stellantis affermare: “L’elettrificazione è una tecnologia scelta dai politici, non dall’industria”. Al che gli viene chiesto: “Perché dice questo?”.
E Tavares risponde: “Perché c’erano modi più economici e veloci di ridurre le emissioni. Il metodo prescelto non permette ai costruttori auto di essere creativi per trovare idee diverse. È una scelta politica”.
Osservazione degli intervistatori: “In sostanza lei dice che, dal punto di vista industriale, le cose si stanno muovendo troppo in fretta…”. Ulteriore risposta di Tavares: “È ovvio che se vietiamo la vendita di veicoli termici in Europa a partire dal 2035, come è stato deciso, dovremo iniziare a trasformare tutte le fabbriche molto rapidamente. Noi di Stellantis abbiamo già iniziato ad affrontare questa svolta. Senza una transizione graduale, le conseguenze sociali saranno profonde. Ma noi non siamo soli. Abbiamo un intero ecosistema di fornitori intorno a noi. E dovranno muoversi velocemente come noi”.
Dunque, se ben comprendiamo, da parte di Tavares non c’è stata, ufficialmente, un’opposizione alle scelte dell’Unione Europea, quanto una presa d’atto seguita da un avvertimento relativo alle conseguenze “sociali” (leggasi: occupazionali) che la scelta compiuta verosimilmente creerà.
Ora, come si è già detto, le imprese italiane del gruppo Stellantis, ancorché siano, in tutta evidenza, imprese metalmeccaniche, non aderiscono a Federmeccanica. E ciò in conseguenza dell’uscita di Fca da Confindustria, decisa da Marchionne nell’autunno del 2011 e poi attuata all’inizio del 2012. Indipendentemente da questo dato di fatto, sarebbe stato impossibile non notare una certa somiglianza fra il ragionamento abbozzato da Tavares nella citata intervista e quello svolto dal Presidente di Federmeccanica, Visentin, nel suo primo intervento alla tavola rotonda tenutasi a Torino. Laddove Visentin ha innanzitutto osservato che non è ancora chiaro se il 2035 sia una data limite per la vendita di nuove auto ancora dotate di motore endotermico, oppure per la loro circolazione. Il che, evidentemente, non farebbe una piccola differenza.
A parte ciò, Visentin ha citato il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture della Germania, il liberal-democratico Volker Wissing, secondo cui è impossibile raggiungere nel 2035 l’obiettivo fissato dalla Ue. E lo ha fatto per combattere l’immagine che potrebbe essere cucita addosso ai nostri imprenditori, ovvero l’immagine secondo cui le imprese attive in Italia nel campo dell’automotive punterebbero principalmente a spostare più avanti nel tempo lo stop ai motori endotermici. In realtà, secondo Visentin, l’Italia è il Paese che dovrebbe assumere l’iniziativa di rivendicare l’utilità di una scelta tecnologica diversa da quella della sostituzione della motorizzazione endotermica delle autovetture con quella elettrica, puntando invece sullo “sviluppo” di carburanti alternativi a benzina e diesel: i cosiddetti “biocarburanti”.
Paradossalmente, o forse non paradossalmente, è parso di cogliere una simile linea di pensiero anche nell’intervento svolto, in mattinata, da Marco Falcinelli, Segretario generale della Filctem, il sindacato Cgil dei lavoratori dell’industria chimica e dell’industria tessile. Ovvero di due settori significativamente coinvolti sia nella componentistica auto, che nella produzione dei carburanti.
Ebbene, partendo dal suo angolo visuale, Falcinelli ha sostenuto, fra le altre, due tesi. Innanzitutto quella che potremmo definire come critica ai tempi di attuazione previsti per la citata direttiva dell’Unione Europea. Per il sindacalista, infatti, il 2035 si presenta coma una data troppo ravvicinata. E ciò non solo per ciò che riguarda i mutamenti da progettare e concretizzare rispetto alla produzione delle auto elettriche, ma anche per ciò che riguarda l’infrastrutturazione necessaria per far sì che quello dell’auto elettrica diventi un disegno effettivamente realizzabile (produzione, installazione e alimentazione delle famose “colonnine” per la ricarica delle batterie).
In secondo luogo, lo stesso Falcinelli ha sottolineato i vantaggi che deriverebbero dalla scelta dei biocarburanti come soluzione per abbattere l’inquinamento: da un lato, niente emissioni di carbonio; dall’altro, mantenimento della tecnologia del motore endotermico.
Diversa la linea di pensiero seguita da Andrea Orlando che, attualmente, è Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali ma che, nel Governo Letta (2013-2014), è stato anche Ministro dell’Ambiente. Ebbene, dopo essersi dichiarato sensibile alla tematica della difesa del ruolo manifatturiero dell’Italia e dell’Europa, Orlando ha detto che, guardando al futuro del nostro Pianeta in termini ambientali e climatici, la data del 2035 gli appare semmai troppo lontana come data entro cui completare il processo di abbattimento degli effetti inquinanti dei motori degli autoveicoli.
Lo stesso Orlando, che si è poi detto molto dubbioso circa l’ipotesi che l’Unione europea muti i suoi programmi ecologici, ha invece parlato di quello che ha definito il suo “piano B”. In parole povere, il Ministro pensa a un ampio investimento europeo volto a gestire quelle che ha chiamato “transizioni gemelle”, ovvero, come si è già detto, la coppia costituita da transizione ecologica e transizione tecnologica. In particolare, ha dichiarato che sta pensando, anche con alcuni dei suoi colleghi europei, a una trasformazione ad hoc del fondo Sure (Support to Mitigate Unemployment Risks in an Emergency), ovvero del fondo istituito dall’Unione europea nel 2020, e cioè in piena crisi pandemica, per finanziare nei vari Paesi della stessa Unione piani nazionali di lavoro a tempo ridotto e di Cassa integrazione. Insomma, a quel che si comprende, una cornice europea che sostenga ammortizzatori sociali progettati per attenuare le conseguenze occupazionali negative del previsto cambio di tecnologia motoristica.
Se a tutto quello che abbiamo visto sin qui, si aggiungono le conseguenze sicuramente negative della guerra nel frattempo effettivamente scoppiata con l’invasione russa dell’Ucraina, guerra che -come minimo – sta già portando e porterà a rincari delle materie prime energetiche e quindi del costo dell’energia, si capirà facilmente che la somma di problemi che si stanno addensando sull’intero settore dell’automotive comincia ad essere qualcosa di più che non solo preoccupante.
Sarà dunque bene che, appena le questioni di politica internazionale glielo consentiranno, il nostro Governo prenda molto sul serio l’appello che gli è stato rivolto, il 3 febbraio scorso, dalle parti sociali metalmeccaniche e che è stato ribadito nell’appuntamento torinese del 23 febbraio. Ne va delle sorti non solo di un decisivo comparto della nostra industria metalmeccanica, ma, più in generale, dell’assetto della nostra industria manifatturiera.
@Fernando_Liuzzi