Lunedì 30 ottobre: dopo 6 settimane di lotta, lo United Automobile Workers, il sindacato nordamericano dei lavoratori dell’auto, ha raggiunto un risultato che potrebbe avere proporzioni storiche. Infatti, dopo aver siglato giovedì scorso un primo accordo con la Ford, e dopo averne firmato, sabato 28 ottobre, un secondo con Stellantis, all’inizio di questa settimana è arrivata l’intesa con la General Motors, ovvero l’intesa che chiude il cerchio con le Big Three, le tre grandi case costruttrice di auto storicamente sviluppatesi a Detroit.
Sei settimane, abbiamo detto. Infatti è stato a metà settembre che lo UAW ha lanciato la sua lotta, volta a rinnovare gli accordi esistenti nelle Big Three: GM, Ford e Stellantis, il gruppo cui la FCA costruita da Marchionne ha portato in dote non solo la Chrysler, ma anche Dodge, Jeep e Ram, ovvero tre marchi molto noti negli Stati Uniti.
Ora diciamo subito che con queste tre intese non si è ancora giunti al rinnovo vero e proprio dei precedenti accordi. Nel gergo sindacale nordamericano, si è infatti fin qui parlato solo di tre tentative agreements. Il che significa che le parti hanno siglato quelli che noi chiameremmo bozze di accordo. La democrazia sindacale, infatti, non è, come talvolta si è portati a credere, una pratica diffusa solo nei modelli sindacali europei. Al contrario, negli Stati Uniti, almeno in certi settori, l’esistenza consolidata di procedure democratiche nella vita sindacale comporta una serie di passaggi codificati tra la definizione di un tentative agreement e la sua ratifica definitiva.
Per fare un esempio, subito dopo l’intesa provvisoria di lunedì con GM, lo UAW ha reso noti i cinque passaggi di questo percorso democratico. Primo: sigla della bozza di accordo con la controparte, ovvero, in questo caso, con la General Motors. Secondo: discussione dell’intesa nel Consiglio nazionale UAW dei rappresentanti dei lavoratori della GM. Terzo: discussione pubblica su Facebook sui contenuti della pre-intesa. Quarto: riunioni a livello territoriale con i dirigenti delle sedi locali. Quinto: riunioni a livello di sedi locali e, infine, votazione della pre-intesa.
Il risultato di questo percorso non è dunque scontato. Anche se diversi osservatori ritengono che il tentative agreement sarà accolto favorevolmente dalla maggioranza dei dipendenti delle Big Three.
E veniamo dunque ai contenuti di queste tre intese. Fin dall’inizio, il leader dello UAW, Shawn Fain, ha dato alla piattaforma rivendicativa della sua organizzazione un taglio prevalentemente salariale. “Record Profits Equal Record Contracts”, ovvero “A profitti record, debbono corrispondere contratti record”: questo è stato lo slogan della campagna sindacale.
A monte di questo slogan sta il fatto che, secondo vari analisti, dopo le restrizioni e le difficoltà produttive che hanno caratterizzato il periodo dominato dalla pandemia da Covid-19 e dalle sue conseguenze, negli USA, a partire dal 2021, si è assistito a un’impennata della domanda di auto. Ciò ha consentito alle case costruttrici di autovetture e pick up di realizzare dei forti incassi. Incassi che, fra l’altro, hanno consentito ai top managers delle medesime case costruttrici di distribuirsi dei premi annuali più che congrui. Cosa che pare abbia irritato non poco migliaia di lavoratori già precedentemente insoddisfatti dei propri salari.
Ed è stato proprio su tale diffusa insoddisfazione che Shawn Fain ha fatto leva, avanzando richieste di aumenti salariali che arrivavano al 40% delle retribuzioni in essere. Le reazioni delle case costruttrici, di fronte a tali richieste, sono state prevedibilmente negative. Ciò nonostante, un’abile conduzione della lotta ha consentito al sindacato di ottenere risultati, a dir poco, notevoli.
A quanto si è potuto capire, infatti, Fain non ha seguito lo schema della lotta a oltranza muro contro muro, ovvero uno schema che rischia di sfiancare gli scioperanti. Al contrario, Fain e il gruppo dirigente raccolto attorno a lui hanno scelto un modello articolato di lotta, volto a concentrare gli scioperi negli stabilimenti in cui vengono prodotti i modelli più redditizi per i fabbricanti di auto. Ciò ha consentito al sindacato, da un lato, di arrecare il maggior danno economico possibile alle Big Three, e, dall’altro, di ridurre il numero degli scioperanti in una singola giornata, permettendo agli altri lavoratori di contribuire con i loro salari a mantenere sufficientemente alte le risorse finanziarie che alimentano i fondi che risarciscono i lavoratori in lotta delle loro perdite retributive.
Risultato. Come ha scritto Alberto Annichiarico sul Sole 24 Ore del 30 ottobre, i salari degli operai addetti alle linee di montaggio dovrebbero crescere del 25%. Inoltre, le pre-intese prevedono un meccanismo che ricorda la nostra vecchia scala mobile, ovvero un meccanismo che lega le retribuzioni al costo della vita. Ciò dovrebbe far crescere i loro salari nominali oltre il 30%.
Ciò significa che entro il termine dei nuovi accordi, ovvero entro l’inizio del 2028, i salari orari dei lavoratori degli impianti di assemblaggio finale potrebbero passare dagli attuali 32 dollari a più di 40. Più alti, poi, gli aumenti delle paghe orarie per i lavoratori assunti con contratti a tempo determinato.
Come sempre accade, questi risultati, che si presentano come una bella vittoria sindacale, aprono dei problemi. Il primo problema che si presenterà davanti a Shawn Fain sarà quello di riuscire a sindacalizzare gli stabilimenti delle altre case costruttrici. Infatti, non siamo più ai tempi in cui le Big Three – GM, Ford e Chrysler – monopolizzavano il mercato Usa dell’auto. Adesso negli Stati Uniti sono presenti e attive anche altre case costruttrici come Tesla e Toyota che, fin qui, sono riuscite a tenere i sindacalisti lontani dai propri stabilimenti. Ora, come è ovvio, gli aumenti salariali adesso pattuiti ridurranno i margini per le attuali Big Three (GM, Ford e Stellantis). Tesla, Toyota e altre case non sindacalizzate potrebbero quindi approfittare di un vantaggio competitivo per loro favorevole. Ma se ciò sfavorisse le imprese firmatarie in termini di costi e quindi di prezzi finali, il tutto potrebbe risolversi in un danno futuro per il sindacato. E chi ha visto Norma Rae, il bel film di Martin Ritt con Sally Field (1979), sa quanto può essere difficile sindacalizzare una fabbrica statunitense.
Tuttavia, va anche detto che Shawn Fain, un ex operaio che ha lavorato per anni come elettricista in uno stabilimento della Chrysler sito nell’Ohio, appare come un dirigente sindacale dotato di sufficienti capacità strategiche per individuare rapidamente questo nodo problematico.
Durante gli scioperi delle settimane scorse, sorprendendo molti, il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si è presentato a un picchetto dello UAW, davanti ai cancelli di uno stabilimento sito nel Michigan, ovvero in uno degli Stati che, come l’Ohio, compongono la cosiddetta Rust Belt, la “cintura della ruggine”, ovvero l’insieme degli storici distretti industriali degli Stati Uniti. Facendo, quanto meno, un dispetto a Trump, Biden ha così mostrato di essere più vicino ai blue collars, noi diremmo alle tute blu, che non a Wall Street. Facile immaginare che l’antipatia per Biden che alberga nella mente di Elon Musk, il padrone della Tesla, sia notevolmente cresciuta dopo quel giorno. È infatti ormai prevedibile che i militanti dello UAW si presenteranno, fra non molto, anche davanti agli ingressi delle sue fabbriche.
@Fernando_Liuzzi