Valerio Gironi – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali Mon, 06 Jun 2022 17:35:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.3 https://www.ildiariodellavoro.it/wp-content/uploads/2024/02/fonditore.svg Valerio Gironi – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it 32 32 Unità sfarinata https://www.ildiariodellavoro.it/unita-sfarinata/ Mon, 06 Jun 2022 17:08:32 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=152310 Nel suo editoriale del 3 giugno, il direttore Mascini fotografa in modo plastico le incomprensioni (eufemismo) tra le grandi centrali confederali. Incomprensioni, scrive il direttore e io sottoscrivo, che non avranno facile soluzione. D’altro canto dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda (ancora col Muro?!) niente sarebbe stato più come prima; purtroppo – lo scrivo con un filo di rabbia e tanta nostalgia – l’unico memorabilia sopravvissuto, cioè la granitica unità sindacale, si è sempre più eroso fino a sfarinarsi. Ci sono voluti più di trent’anni, ma il destino era segnato. Ad essere onesti il sindacato, in questi trenta e passa anni, non ha fatto la pessima figura delle altre organizzazioni di massa, ma tant’è.

Però la colpa di questa situazione e delle già citate incomprensioni non è, per dirla con Saragat, del destino cinico e baro, ma di un gruppo dirigente che ha sempre anteposto la propria unità interna agli interessi più generali e sbandierato più diritti che doveri. Esagerato? Sì, ma anche no.

Per fare una sintetica analisi: la Cisl ha sempre sottolineato come “privato” il rapporto con le controparti, privilegiando la contrattazione aziendale e la necessità di una intesa negoziata e ha (mal)digerito le incursioni del legislatore sui temi del lavoro; la Cgil, al contrario, ha sempre fatto del conflitto e del rapporto con la politica il suo punto di forza, favorendo anche una legislazione mirata al lavoro ed alla rappresentanza. Per dirla più semplicemente: erano fatti per non capirsi. Però, bisogna dirlo, nel passato i gruppi dirigenti si sono sempre spesi (anche drammaticamente, come testimoniano le dimissioni di Trentin del luglio del ’92) per non rompere del tutto.

È francamente imbarazzante che di fronte ad una questione centrale del salario minimo e del cuneo fiscale non si senta tonante la voce dei sindacati, né tantomeno si veda una piattaforma negoziale per una concertazione 4.0 (e anche in viale dell’Astronomia non ci si agita più di tanto).

Viene da chiedersi se oggi sia prevalente più lo spirito morettiano del “mi si nota di più se non vado”,   che non un sano  e militante pragmatismo.

Io resto del parere che piuttosto che niente e meglio piuttosto.

Valerio Gironi

 

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Tutti a casa https://www.ildiariodellavoro.it/tutti-a-casa/ Mon, 30 May 2022 10:58:14 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=152094 Seguendo le cronache sindacali di questi giorni mi è tornato alla mente il film di Luigi Comencini del 1960, “Tutti a casa”. Il film racconta le ore e i giorni immediatamente successivi l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ore e giorni in cui nessuno sapeva cosa fare. Una scena memorabile del film è quella in cui il sottotenente Innocenzi (uno strepitoso Alberto Sordi), ignaro dell’armistizio, viene preso a fucilate dai tedeschi che lui credeva alleati, perciò, piuttosto allarmato chiama il comando per informare che i tedeschi si sono alleati con gli americani: una formidabile sintesi appunto di quelle ore e di quei giorni

Francamente non saprei, tra il ministro Orlando e il presidente di Confindustria Bonomi, a chi affidare la parte dello sprovveduto sottotenente. Infatti, il Ministro da l’impressione di occuparsi di faccende di “alta politica”, piuttosto che di materie inerenti al suo dicastero. Su quella poltrona, quella di Ministro del Lavoro, si sono seduti gente del calibro di Brodolini, Donat-Cattin (Statuto dei Lavoratori), Gino Giugni, Tiziano Treu (accordi concertativi anni ’90), solo per fare qualche esempio e per significare che lì il tuo mestiere è favorire il dialogo sul lavoro e per il lavoro.

Il Presidente di Confindustria, anche lui sta seduto su di una poltrona che ha visto augusti lombi, però da l’impressione di essere lì per caso piuttosto che di esercitate tutta la potenziale forza d’urto della più importante associazione d’imprese italiana. Certamente la mia analisi è grossolana, però è difficile immaginare che la possibilità di un accordo per un nuovo e rinnovato patto sociale, che tenga conto delle opportunità del PNRR, che (al netto della tragedia) colga quanto di innovativo è avvenuto nel mondo del lavoro durante la pandemia, non sia il primo punto all’ordine del giorno tra costanti e continui colloqui tra Ministero e parti sociali; anzi di venga derubricato tra le varie ed eventuali.

Ecco, mentre scrivevo, mi sono accorto che in realtà la parte di Alberto Sordi potrebbe essere tranquillamente affidata anche al duo Bombardieri-Landini, che in quanto a sedersi inutilmente su poltrone già occupate da gente che “levete” (per dirla alla romana), non sono secondi a nessuno.

Per restare nella metafora cinematografica, parlare oggi di relazioni industriali è come respirare quell’aria d’incertezza e di sbando così ben descritta nel film di Comencini; ma non siamo nel settembre del ’43 siamo nel terzo millennio e continuare a discutere se i tedeschi si sono alleati con gli americani, non serve a nessuno

Valerio Gironi

]]> Lo scambio tra governo, imprese e sindacati si può fare https://www.ildiariodellavoro.it/lo-scambio-tra-governo-imprese-e-sindacati-si-puo-fare/ Tue, 17 May 2022 10:15:58 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=151641 Una recente indagine (di cui ho letto solo qualche sommario) informa che nel laborioso Veneto ci sono state ben 66mila dimissioni negli ultimi quattro mesi (il doppio rispetto all’anno scorso); dimissioni in larga parte motivate dal fatto che non c’è o non si trova, dicono gli intervistati, un giusto equilibrio tra vita e lavoro: mi pare un campanello d’allarme per imprese e sindacati.

Anzi no, è un allarme vero e proprio.

Non sono un sociologo né uno storico, però non si può ignorare che quelle terre sono da sempre sinonimo di “silente e operosa fatica”, per dirla come il poeta; che in alcune fabbriche di quelle aree, con tanto di accordo aziendale, le ferie anziché in agosto si facevano in settembre per poter attendere alla vendemmia: e adesso gli impressionanti numeri di cui sopra.

Come – più in generale – non si può ignorare la sempre più ridotta dimensione aziendale e due anni (e oltre) di home working, che hanno fatto perdere la centralità della fabbrica come luogo di una comunità e di un orgogliosa identità.

Allora, oggi, è necessario e urgente che l’azione di  Governo, imprese e sindacati si concentri sulle nuove  aspettative che avanzano: e questo può essere un elemento di scambio – la ricerca di un nuovo equilibrio tra vita e lavoro -; soprattutto per chi volesse immaginare l’Italia al lavoro, l’Italia del post -pandemia, l’Italia del PNRR. Insomma un’Italia nuova.

Per prestatori d’opera e datori di lavoro, ma anche per governanti nazionali e locali, ci vorrà uno sforzo di fantasia e coraggio e magari qualche strappo per aprire le porte al lavoro, favorirne le condizioni e creare quei nuovi equilibri invocati. Possibile, possibilissimo,  basta guardare avanti. Guardare avanti come fecero i Padri Costituenti che all’articolo 1 scrissero che siamo una Repubblica fondata sul lavoro… anche nel 2022!

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Un sindacato che non contratta che sindacato è? https://www.ildiariodellavoro.it/il-futuro-e-anche-il-lavoro-che-cambia/ Mon, 21 Feb 2022 11:13:31 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=148598 Nel suo editoriale settimanale di venerdì 18 febbraio, il direttore Mascini disegna una sorta di mappa storica dei vari tentativi di unione/fusione delle varie sigle che rappresentano i lavoratori e i datori di lavoro.

L’occasione per questa mappatura, credo prenda spunto  anche dalla preoccupazione espressa da Maurizio Landini alla conferenza di organizzazione  della Cgil, circa i rapporti con Cisl e Uil. Tale preoccupazione, se non ho capito male, induce Landini a vagheggiare una unione/fusione delle tre sigle storiche sindacali in un unico soggetto.

Personalmente credo che la possibilità che ciò avvenga è pari ad una vittoria della nostra Nazionale di rugby nel trofeo “Sei Nazioni”; cioè non impossibile ma molto, molto improbabile (e forse neppure auspicabile). Fuori dalla metafora sportiva mi pare che non ci siano oggi e neppure in prospettiva, le condizioni storiche, politiche ed economiche. Faccio un passo indietro per spiegare il mio scetticismo.

Come tutti sanno, il patto sindacale unitario del 1944 era figlio della alleanza antifascista e non resse ai venti di guerra fredda che cominciarono a soffiare appunto appena finita la seconda guerra mondiale;  già nel 1948 l’ accordo era carta straccia. Però questo (la guerra fredda) non basta a spiegare il perché di quella  divisione e il fatto che la stessa non si sia mai sanata (come dimostra anche l’esperienza della Flm). La “frattura” tra Cgil è Cisl è qualcosa di più di un diverso riferimento politico o ideologico. La diversità è culturale e di approccio alle questioni d’affrontare, in fabbrica e fuori dalla fabbrica. Per la Cisl la regola è sempre stata quella del “piuttosto che niente è meglio piuttosto”. Una battuta certo, però figuratevi quanta compatibilità ci può essere tra chi gli accordi li firma e chi neppure si presenta al tavolo delle trattative. Il pragmatismo della Cisl è figlio di quella cultura non dogmatica e statalista, che affida alle parti sociali, al loro confronto, alla possibilità di raggiungere un’intesa, la ragione stessa della propria esistenza. Un sindacato che non contratta che sindacato è? Tanto per fare un esempio di come la Cisl pensava riguardo ai rapporti che regolano il mondo del lavoro, basta ricordare l’intemerata dell’allora segretario Bruno Storti che al grido, “Il nostro Statuto sono i contratti”, si oppose  a quella che, nel maggio del 1970, sarebbe poi diventata la legge 300, più nota come “lo statuto dei diritti lavoratori”.

Non era una posizione aprioristicamente critica (la Cisl, in seguito, “sfrutto” appunto con grande pragmatismo lo Statuto), ma la consapevolezza che se il legislatore avesse messo mano alle norme che riguardavano il lavoro e i rapporti di lavoro, il rischio di un marginalizzazione del sindacato poteva esserci. Dopo Storti la spinta all’ originalità del ruolo e della proposta del sindacato fu confermata, giusto per citare qualche altro esempio, da Pierre Carniti con l’accordo di San Valentino (taglio della scala mobile e tutto quello che ne segui), da Franco Marini con l’accordo sul fiscal drag, da Sergio D’Antoni con gli accordi concertativi degli anni ’90 del secolo scorso (per dovere di  verità, con la partecipazione di Uil e  – con qualche sofferenza – della Cgil). Sia chiaro, sono tutti accordi fatti con i governi di turno (e le controparti naturali) e dunque nessuna “repulsione” nei confronti della politica, ma sempre con l’idea di contrattare. È opportuno anche ricordare che già nel 1953 la neonata Cisl “inventa” la contrattazione aziendale o decentrata o articolata o comunque la si voglia chiamare, che è e sarà un forte tratto distintivo, quasi un vessillo (non dico in “hoc signo vinces”, però siamo lì). Landini, dunque, fa bene a guardare al futuro, ma il futuro è banalmente il poi di un passato e di un presente e non solo inteso come lo scorrere del tempo. Il futuro è anche il lavoro che cambia, è il lavoro che scompare, è il lavoro che s’inventa, è la libertà d’impresa; insomma chiunque voglia intestarsi la rappresentanza del nuovo che avanza – anzi che già c’è – dovrà accettare, con grande pragmatismo, tutte le sfide che questo comporta. Carniti  ripeteva spesso che se il sindacato fosse nato solo nell’autunno caldo non sarebbe sopravvissuto al primo inverno freddo; dunque ben venga tutto quello che può migliorare ed aumentare la rappresentanza del lavoro però  nessuno speri di poter campare di un glorioso passato.

Valerio Gironi

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Franco Marini, l’uomo che era https://www.ildiariodellavoro.it/franco-marini-luomo-che-era/ Tue, 09 Feb 2021 17:28:13 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=134065 Del Franco Marini sindacalista e uomo delle Istituzioni, tutti ne hanno parlato, a me, invece, piace ricordarlo per l’uomo che era. Uno spirito libero e gaudente e non catalogabile negli stereotipi che servono più ai semplificatori ed ai “pregiudicatori” di professione.

Certo era un cattolico e anche un democristiano (le due cose non necessariamente coincidono) e proprio per questo ha speso una vita  per dimostrare che ciò non significa essere bigotti baciapile o obbedire a ordini dall’alto (anche se arrivano da molto in alto). Praticava un anticomunismo laico (suo “fratello” Carniti era molto più rigido) e l’esercizio del confronto duro ma sereno con le controparti: in politica come nel sindacato cercava sempre la mediazione. Ma prima di tutto veniva la vita, la vita di tutti i giorni, l’amore per la sua famiglia, il figlio Davide, la moglie Luisa, il padre dallo strano nome (Loreto, a cui telefona per primo appena nominato ministro), i suoi fratelli e le sue sorelle. C’erano gli amici di sempre con i quali incrociare le stecche a biliardo o accalorarsi per una scopa mancata. Quegli amici che andavano dal vicino di casa, un contadino dallo schietto dialetto abruzzese a dall’incerto italiano fino al cattedratico di chiarissima fama.

Poi i “compagni di banco” del Centro Studi Cisl di Firenze, dove lui , già laureato, seguiva diligentemente i corsi,  premurandosi la sera di scavalcare il muro di cinta per una “gita” by night, tirandosi spesso dietro qualcuno di loro. Impossibile dimenticare il legame con gli Alpini, di cui era stato ufficiale.

Dunque una persona di una effervescente normalità. Lo chiamavano il “lupo marsicano”, però era nato a San Pio alle Camere nell’Altopiano dei Navelli, che sempre Abruzzo è, ma non nella Marsica; la faccenda del lupo però gli piaceva (io l’avrei catalogato fra le volpi!), per cui non si affannava sui distinguo geografici.

Era felice, e si vedeva, quando, in  santa pace, poteva attaccarsi un toscano e bersi un bicchiere di vino, unici argomenti dove non accettava mediazioni: i sigari dovevano  essere della Manifattura di Lucca  e il vino essere un gran vino italiano.

Adesso se qualcuno pensa che Franco Marini sia stato un santo, beh si sbaglia di grosso: è stato semplicemente un uomo leale e per bene. Che di questi tempi, avercene.

Valerio Gironi

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I mali delle relazioni industriali e non solo https://www.ildiariodellavoro.it/i-mali-delle-relazioni-industriali-e-non-solo/ Sun, 08 Nov 2020 23:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/i-mali-delle-relazioni-industriali-e-non-solo/ Nella Newsletter del Diario del 6 novembre, Massimo Mascini mette il dito nella piaga e rileva come le relazioni industriali siano, diciamo, in una sorta di stallo. Il direttore vede tra i “mali” di cui soffrono le relazioni industriali anche la politica salariale che ruota ancora intorno a dinamiche di contenimento dell’inflazione, nonostante questa sia da tempo sotto controllo, anzi la sua totale scomparsa, sottolinea, si sta rivelando quasi un fattore negativo. Fatta questa lunga premessa arrivo al punto (Mascini lo fa con più garbo): relazioni industriali, contrattazione e salario hanno urgente bisogno di una bella svecchiata.

Personalmente non ho dubbi che tutto questo possa avvenire solo da una precisa e manifesta volontà delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati. Volontà che passa dal superamento di categorie di rappresentanza e rappresentatività, dalla presa di coscienza che ci troviamo in un assetto economico e finanziario basato sulla competizione mondiale e che, come se non bastasse, la pandemia ha  cassato ulteriormente tutto l’armamentario produttivo in essere. Il Covid, oltre i guai che ha combinato, ha, contrattualmente parlando, svelato qualche altarino. Come per esempio esaltare alcune figure professionali – tipo infermieri e rider pagati una miseria però considerati essenziali   e deprimendone altre, cioè  sempre per fare un esempio ,quasi tutta la pubblica amministrazione. Ciò detto  e senza la pretesa di avere la risposta giusta, provo ad immaginare qualche (possibile) soluzione.

Prima di tutto bisognerebbe distinguere in modo netto le politiche contrattuali tra i settori esposti al mercato, per quali va privilegiata la contrattazione aziendale e quelli che invece al mercato non sono esposti quindi la quasi totalità del settore pubblico, dove, invece una solida contrattazione nazionale, soprattutto per i ruoli dirigenti, sarebbe sufficiente. Va anche detto che le relazioni industriali, sempre in chiave svecchiamento e rilancio, devono considerarsi un ” dialogo tra privati”, per cui meno il legislatore ci mette mano meglio è. 

Poi c’è il problema della malattia endemica del nostro Paese, lo squilibrio e la disuguaglianza tra macro aree socio-economiche che per comodità traduciamo in Nord e Sud. Certo non saranno le relazioni industriali a superare il problema, però se un patto nazionale tra produttori stabilisse che sul territorio e in azienda si possono sperimentare forme alternative di salario e orario, indiscutibilmente le  stesse relazioni avrebbero un ruolo non secondario in termini di attrattive per investimenti produttivi e conseguenti ricadute positive in occupazione e distribuzione di redditi. Per finire, credo che la pandemia ci lascerà in eredità lo smart working, la valorizzazione dei servizi alla persona e soprattutto un sostanziale cambio del nostro stile di vita: tutte opportunità  contrattuali e occasioni per ridisegnare figure professionali, salari e orari.

Ecco, per dirla tutta, non è “ai posteri l’ardua sentenza”, bisogna muoversi per tempo e il tempo è adesso.

Valerio Gironi

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Cinquant’anni di Statuto dei lavoratori https://www.ildiariodellavoro.it/cinquantanni-di-statuto-dei-lavoratori/ Thu, 07 May 2020 22:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/cinquantanni-di-statuto-dei-lavoratori/ Giusto cinquant’anni, 20 maggio 1970, il Parlamento approvava la legge 300, “norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e della attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, più conosciuta come Statuto dei diritti dei lavoratori.

Una legge che vide in Gino Giugni il principale artefice e nel combinato disposto di due ministri del lavoro ex sindacalisti (Giacomo Brodolini, socialista Cgil e Carlo Donatt Cattin, democristiano Cisl) i sostenitori-promulgatori (per inciso, il Pci in sede parlamentare si astenne al momento del voto). Una legge che raccoglieva quelle istanze, appunto, di libertà, ma anche di progresso e modernità che arrivavano dal mondo del lavoro e che nell’autunno caldo (e forse anche prima nelle rivendicazione dei metalmeccanici di metà degli anni sessanta) avevano avuto l’espressione e più forte.

Nonostante sia passato mezzo secolo, lo spirito di quella legge rimane intatto e innovativo.

Quello che è da allora è cambiato è il lavoro e nel maggio 2020 c’è anche il Covid-19.

Già la globalizzazione e la tecnologia avevamo messo in seria difficoltà il modo di produrre e lavorare e oggi la pandemia l’ha spazzato via. Provate solo a pensare cosa significa per i genitori-lavoratori e anche per uffici, negozi, fabbriche, aziende, l’entrate e relative uscite, distanziate di 15 minuti per singole classi scolastiche. Questa però, può essere anche un’occasione d’oro per le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera per avviare una “primavera calda”, che interpreti (ripeto, interpreti) nuovi diritti e doveri, valorizzando la contrattazione decentrata nel territoro e sul luogo di lavoro e la flessibilità contrattata sia la  parola d’ordine. Detta così non sembra neanche difficile, purchė non ci si perda dietro slogan fumosi e datati, stanchi riti o improbabili quanto pericolosi, interventi legislativi. La rinascita intelligente, nemica giurata della decrescita felice, passa inevitabilmente da lì.

Valerio Gironi

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Pernigotti, l’accordo di cartone https://www.ildiariodellavoro.it/pernigotti-laccordo-di-cartone/ Sun, 29 Sep 2019 22:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/pernigotti-laccordo-di-cartone/ Che l’accordo per il salvataggio della Pernigotti (accordo storico, secondo  l’allora titolare del Ministero dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio), mostrasse qualche, diciamo, debolezza era chiaro sin da subito, ma che saltasse per aria a meno di due mesi dalla firma era francamente difficile prevederlo. 

Per comprensione di tutti è necessario un passo indietro per ricordare che la proprietà dello storico marchio del made in Italy, ė turca; proprietà che manifestando pubblicamente il proprio interesse solo per il marchio e non per la produzione, di fatto ha aperto la crisi Pernigotti. Tuoni, fulmini e saette del Ministro Di Maio. I marchi italiani vanno tutelati, mai e poi mai perderemo un posto di lavoro, fu il suo grido di battaglia per arrivare allo “storico  accordo”. Accordo che di fatto si risolve con uno  “spezzatino”: il marchio Pernigotti (immaginate il valore di un marchio del Made in Italy alimentare nato nel 1860) rimane in mano turca e separato dalla produzione, a sua volta rilevata da due distinte società. Questo, pur in presenza di pubbliche manifestazioni d’interesse di aziende italiane del settore che garantivano sia il marchio che l’unitarietà dell’azienda. Già in quei giorni sulla stampa  si mettevano le mani avanti e qualcuno dei protagonisti dell’intesa chiariva che senza un non ben precisato intervento pubblico, ci sarebbero stati rischi per il futuro dell’ accordo stesso. Come puntualmente è finita. Oggi,come si legge da alcune ricostruzioni giornalistiche, tra veti incrociati e ripicche tra le aziende protagoniste ( la turca Toskoz per il marchio, la torinese Spes per il comparto cioccolato e torrone e Emendatori per quello del gelato) rimandano in alto mare la soluzione della vertenza.

Che, appunto, non poteva considerarsi chiusa con lo “storico accordo”.

Adesso la speranza di salvare il marchio e i lavoratori della Pernigotti, è nelle  mani di quelle aziende italiane che si erano fatte avanti per acquisire  marchio e produzione (non ultima la Sperlari di Cremona) . Certo a condizione di trovare un interlocuzione politica degna di questo nome che le rimetta in gioco. Poi se la vedranno gli amministratori delegati e il mercato.

Valerio Gironi 

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Più che unitario, il sindacato ci servirebbe più incisivo e rappresentativo dei lavoratori esposti al mercato https://www.ildiariodellavoro.it/piu-che-unitario-il-sindacato-ci-servirebbe-piu-incisivo-e-rappresentativo-dei-lavoratori-esposti-al-mercato/ Thu, 22 Nov 2018 23:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/piu-che-unitario-il-sindacato-ci-servirebbe-piu-incisivo-e-rappresentativo-dei-lavoratori-esposti-al-mercato/ Sembra tornata la stagione dell’unità sindacale. Anzi, continuando nella metafora  metereologica e dando credito  ad una vulgata molto diffusa e cioè che le mezze stagioni non ci sono più, siamo  addirittura nella stagione del sindacato unico. Non ci giro intorno e dico subito che mi pare una di quelle proposte che servono solo a dare un quarto d’ora di notorietà a chi le fa.

Sulla questione dell’unità sindacale si sono scritte migliaia di pagine e altrettante migliaia di parole si sono dette e allora atteniamoci ai fatti. Ricordate che fine ha fatto la federazione Cgil Cisl Uil? Ricordate la fine che ha fatto la Flm? Qui per inciso andrebbe ricordato che Fim e Uilm fecero persino i congressi di scioglimento per poter costituire il nuovo, grande sindacato unitario dei metalmeccanici. La Fiom no. Oltretutto, visti i tempi che corrono, il problema non è quello o solo quello, di un unico grande sindacato, ma di un sindacato che risponda alle sfide della tecnologia e della globalizzazione. Ancora con la tecnologia e la globalizzazione? Sì, ancora! O forse qualcuno non si è ancora  accorto che i soldi non dormono mai (film di Oliver Stone) e  che sono algoritmi che muovono investimenti e fondi?

Dunque, la vera novità, sarebbe quella di un sindacato che abbia il coraggio di una  più incisiva e mirata (anche competitiva tra loro!) rappresentanza verso i lavoratori esposti al mercato, cioè che allarghi il più possibile la contrattazione aziendali e che sappia, fatti saldi i principi, adattare le tutele e l’organizzazione del lavoro: con un occhio ben aperto a quello che succede fuori dai cancelli della fabbrica – magari a Singapore o New Delhi – …vogliono fare il sindacato unico e siamo ancora al no Tav, no Tap, no, no…

 Valerio Gironi 
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Italiaonline, la globalizzazione si può e si deve governare https://www.ildiariodellavoro.it/italiaonline-la-globalizzazione-si-puo-e-si-deve-governare/ Mon, 02 Apr 2018 22:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/italiaonline-la-globalizzazione-si-puo-e-si-deve-governare/ Come molti lettori del “diario del lavoro” sanno è in atto una vertenza aziendale alla Italiaonline (le vecchie Pagine Gialle) di Torino. La vertenza, purtroppo e come sempre è fatta di esuberi e trasferimenti. Non entro nel merito della questione di cui peraltro conosco solo i contorni che danno le cronache dei giornali, però è forse l’occasione d’interrogarsi sulle opportunità che nascono dalle difficoltà. Nel caso specifico l’azienda chiude, o dovrebbe chiudere, la sede di Torino lasciando a casa qualche centinaio di lavoratori e offrendo a qualche altro centinaio il trasferimento a Milano. Inutile, non perché tale, ma perché ovvio, sottolineare il disagio e il malessere dei lavoratori coinvolti, però, come si diceva una volta, quando si chiude una porta spesso si apre un portone. Se così fosse, come spero sia, allora il tipo di vertenza deve essere “giocata” in un modo nuovo: lungi da me spiegare ai sindacati, ai lavoratori e all’azienda come giocarsela. Certo la globalizzazione, il mondo che cambia, l’esigenze degli utenti mettono di fronte il lavoro a nuove sfide e sottrarsi sarebbe sbagliato, come sbagliato è scaricare sulle spalle dei soli lavoratori il peso dell’innovazione o magari di scelte aziendali più comode per sistemare i bilanci. La globalizzazione si può, si deve, governare, per questo pensare alle tradizionali forme di lotta ma anche di organizzazione aziendale, non può limitarsi a seguire regole di un impianto industriale che deve affrontare sfide mondiali, ma guardando ad un sistema di relazioni industriali che ha nella partecipazione dei lavoratori e in un sistema di welfare mirato nuove occasioni.

Valerio Gironi 

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Cittadini e lavoratori, come tutelare i diritti di entrambi https://www.ildiariodellavoro.it/cittadini-e-lavoratori-come-tutelare-i-diritti-di-entrambi/ Tue, 20 Jun 2017 22:00:00 +0000 http://www.ildiariodellavoro.it/cittadini-e-lavoratori-come-tutelare-i-diritti-di-entrambi/ Lo scorso venerdì lo sciopero dei trasporti ha riportato a galla la questione della tutela dei diritti dei lavoratori, ma anche di  quelli dei  cittadini. Non solo, ma è apparso evidente che c’è e va risolto in fretta, un problema di rappresentanza. Sui diritti, in generale  ma soprattutto in campo sindacale, di solito la discussione deraglia in faccende più complesse che quasi mai coincidono con l’oggetto del contendere. Dunque meglio lasciar perdere principi e valori  ma, per  le stesse ragioni, è altrettanto rischioso invocare il Parlamento.
Sulla rappresentanza almeno nel pubblico impiego e derivati – nel privato sono e resto convinto che la faccenda è  appunto privata, dunque regolata dalla libera contrattazione tra le parti (a proposito che fine ha fatto l’accordo sindacati-Confindustria sulla rappresentanza?) – nel pubblico, dicevo, senza scomodare il legislatore,ma usando gli “strumenti”  a disposizione qualche proposta semplice si può azzardare. Anzitutto, senza toccare il principio di libera associazione, le stesse, per costituirsi come rappresentanze d’interessi, devono presentare uno statuto-regolamento con tutti i crismi di libertà e democrazia previsti dalle norme vigenti. Tale statuto-regolamento deve avere l’imprimatur, magari, come già avviene per le libere professioni dal Ministero di Giustizia, attraverso il Cnel. 
Già il tanto vituperato ma sempre vivo Cnel che dovrebbe anche “certificare” gli iscritti del settore privato come previsto dal disperso accordo sulla rappresentanza tra Cgil Cisl Uil e Confindustria. Torniamo alla certificazione di rappresentanza nel pubblico, aggiungendo che allo statuto-regolamento deve essere allegato  anche il bilancio –  certificato da terzi – di ogni singola organizzazione e non quello confederale o federale che sia, ma di chi rappresenta direttamente i lavoratori.
A questo punto entrano in ballo Aran e Commissione di Garanzia per gli scioperi. Aran per certificare sia il tasso di sindacalizzazione – non semplicemente il numero degli iscritti -, sia il numero dei distacchi sindacali relativi – ovviamente a totale carico della sigla che accede al diritto – . La Commissione deve imporre, senza se e senza ma,  il tentativo di mediazione tra le parti. Fallita la mediazione, attraverso un referendum vincolante,  la parola passa ai lavoratori. A tutti i lavoratori e non solo agli iscritti.  Solo allora, nel caso prevalga l’adesione alla protesta, si può proclamare lo sciopero (che in ogni caso, nei trasporti in particolare, non può essere solo di mansione). Sembra facile. Sembra.
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Il Cnel in navigazione https://www.ildiariodellavoro.it/il-cnel-in-navigazione/ Thu, 11 May 2017 22:00:00 +0000 http://www.ildiariodellavoro.it/il-cnel-in-navigazione/ Per ottemperare alla volontà popolare che ha respinto le proposte di modifica costituzionale, tra queste la soppressione del Cnel, è stato necessario avviare le procedure di ripristino della piena funzionalità dello stesso. Lo scorso 11 aprile sulla Gazzetta Ufficiale – Serie Generale – n.85,  è comparso l’invito alle “organizzazioni sindacali di carattere nazionale a designare i nuovi rappresentanti per il prossimo quinquennio”. Mentre il successivo 5 maggio il Consiglio dei Ministri ha nominato Tiziano Treu Presidente del Cnel.

Ci sono state alcune reazioni da parte dei commentatori che vanno dalla indignazione di chi vede l’ennesimo spreco di danaro pubblico, a quelli che invece leggono la nomina di Treu come propedeutica alla chiusura definitiva dell’organo di rilevanza costituzionale. Ai primi andrebbe ricordato che il No al referendum comportava il mantenimento dello status quo e costi relativi; ai secondi, se sanno qualcosa che a noi mortali non è dato sapere, tipo la portata del mandato del Presidente, è meglio che la dicano, anziché auspicarla.

Non ho visto invece, ma forse è una mia distrazione, commenti in senso positivo del tipo: facciamolo funzionare. Va aggiunto che la proposta di autoriforma presentata dai superstiti della (ormai) passata Consiliatura è stata prima incardinata e poi scardinata, nella Commissione Affari Costituzionali del Senato; inoltre in Parlamento sono presenti proposte di legge di modifica costituzionale per l’abolizione dell’articolo 99, quello appunto che istituisce il Cnel.

Dunque acque agitate per il pur navigato Presidente. Come la “barca” del Cnel affronterà queste acque non dipende solo dal “timoniere”, dipenderà molto anche dai “vogatori”. Fuor di metafora significa che le organizzazioni sindacali richiamate in Gazzetta, hanno da giocarsi una partita molto importante e delicata, con evidenti riflessi anche fuori Villa Lubin. Una partita che passa dalla scelta dei propri rappresentanti: nomine che devono rispondere a criteri oggettivi di “qualità” (i nomi non mancano) e di volontà d’impegno. Chi scrive non può, né vuole, rilasciare attestati di qualità, ma di una cosa si può essere certi: il tempo dei premi di fine carriera e quello del parcheggio istituzionale è finito. 

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