Alessandro Genovesi – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali Fri, 04 Mar 2022 15:22:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.3 https://www.ildiariodellavoro.it/wp-content/uploads/2024/02/fonditore.svg Alessandro Genovesi – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it 32 32 Il lavoro come elemento di qualità https://www.ildiariodellavoro.it/il-lavoro-come-elemento-di-qualita/ Fri, 04 Mar 2022 14:27:04 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=149110 Ogni rinnovo contrattuale ha la sua storia e le sue specificità. Questo vale anche per l’ipotesi di rinnovo del CCNL dell’Edilizia, avvenuta la sera del 3 Marzo, tra FILLEA CGIL, FENEAL UIL, FILCA CISL e Ance e Alleanza delle Cooperative. Eppure ritendo che sia importante socializzarne i contenuti non solo per l’importanza del settore in sé (che sta contribuendo non poco alla ripresa economica e cui valenza strategica è nota), per il fatto che riguarda un milione e passa di lavoratrici e lavoratori, ma soprattutto per il messaggio che prova a dare al Paese.

Prima di tutto perché essendo quello delle opere pubbliche e della rigenerazione privata (i vari bonus e super bonus, ma anche i vari piani della Missione 5) uno dei settori dove il Sindacato sta governando in termini di investimenti, priorità, aspetti contrattuali, occupazionali e di organizzazione del lavoro, le risorse del PNRR, le risorse ordinarie e le risorse del Fondo Complementare – grazie ad una serie di accordi con il Governo e con le grandi aziende commettenti (Accordi con il Mims, Atti di Indirizzo, Accordi con i Commissari straordinari, Accordi con RFI, ANAS, ecc.) -aver inserito e generalizzato tutte quelle conquiste nel rinnovo del CCNL consolida una strategia, valida per l’oggi ma anche per il domani.

Quindi per il merito specifico delle parti normative (dal sotto inquadramento alla formazione, dalla salute e sicurezza al contrasto alla precarietà) e salariali. Soprattutto in una stagione così complicata dove – tra alta inflazione e scarsa qualità della crescita – siamo tutti impegnati a rilanciare la funzione della contrattazione collettiva, intesa anche come autorità salariale.

Questo rinnovo punta sul lavoro come elemento per dare qualità al settore e alle stesse imprese, aumentandone quindi le capacità innovative e la stessa produttività. Abbiamo “convinto” le aziende ad assumere la qualità del lavoro, la formazione (in particolare sulla sostenibilità), la crescita professionale e la sicurezza nei cantieri come elementi per contribuire a qualificare il settore. Per chi conosce la storia delle relazioni industriali nel settore non è poca cosa.

Anche i riconoscimenti salariali, importanti, evidenziano come sia strategico oggi più che mai investire sui lavoratori, confermando il Contratto Collettivo Nazionale come autorità salariale, anche redistributiva, andando cioè oltre il recupero del potere d’acquisto (che comunque quando torna a crescere l’inflazione è già tema non da poco).

Insomma un rinnovo che, coinvolgendo oltre un milione di lavoratrici e lavoratori, operai, tecnici, impiegati, vuole trasmettere fiducia nel futuro e vuole dimostrare che un sistema forte e innovativo di relazioni industriali può fare la differenza.

Se il rinnovo del CCNL nel 2018 – in piena crisi – è stato il contratto della “messa in sicurezza” dei nostri enti bilaterali (tra i pochi ancora a mutualismo solidale collettivo e non a “posizione individuale”) e della nascita della Sanità Integrativa di Settore, questo CCNL sistematizza una strategia che ha visto la categoria agire alleanze, mobilitazioni, accordi e avanzamenti normativi, tutti segnati dalla stessa filosofia che ora trova una sua stabilizzazione.

Dalla vittoria sui modelli commissariali “non modello Genova” agli accordi con il Ministro De Micheli, dalla difesa del codice degli appalti fino al decreto 77/2021 con la parità di trattamento per i lavoratori in sub appalto, passando per i protocolli con le grandi stazioni appaltanti, alle intese con il MIMS e relativi atti di indirizzo con il Ministro Giovannini, dal Durc di Congruità (molto più serio ed efficace di quanto l’INPS va pensando in queste ore in materia di appalti) fino al decreto del 25 Febbraio 2021 che vincola gli incentivi solo ai CCNL di settore sottoscritti da chi è comparativamente più rappresentativo (merito del Ministro del Lavoro Orlando che ha ascoltato le parti sociali)… Ecco il rinnovo del CCNL accoglie questa visione e assume questa strategia.

Non a caso il rinnovo introduce un meccanismo automatico di contrasto al sotto inquadramento, per cui all’operaio comune, con almeno un’anzianità di 36 mesi nel settore, di cui 12 con la medesima azienda e che abbia frequentato con esito favorevole almeno un corso di formazione professionalizzante presso gli enti di settore, sarà riconosciuto l’inquadramento di operaio qualificato; all’operaio qualificato, con un’anzianità di settore di almeno 48 mesi di cui 12 con il medesimo datore di lavoro e che abbia frequentato con esito favorevole almeno un corso di formazione professionalizzante presso gli enti di settore sarà riconosciuto l’inquadramento di operaio specializzato.  E comunque, nell’ipotesi di nuove assunzioni, gli operai specializzati e gli operai qualificati, non potranno più essere inquadrati come operai comuni. Si valorizza così, una volta per tutte, la professionalità acquisita nel settore, contrastando la pratica di sotto inquadrare i lavoratori ogni volta che cambiano datore di lavoro. Una condizione che, data la forte mobilità e discontinuità in edilizia, è molto presente. La portata di questa norma sta nel combinato disposto di assumere l’anzianità anche del settore (e non solo aziendale) e nel fatto che la formazione “fa” lo scatto di inquadramento, con una clausola di “non ritorno indietro”.

Importanti sono gli investimenti sulla formazione, con la definizione di un Catalogo Formativo Nazionale, offerto dalle Scuole Edili/Enti Unificati con particolare attenzione al green building, al rischio sismico, alla bio edilizia, al risparmio energetico, al recupero ecc.  con il versamento di un +0,20% sulla massa salari a carico delle aziende (dal 1° Ottobre 2022) specificatamente dedicato. Questo al fine di sostenere la domanda di lavoratori sempre più qualificati e professionalizzati: le gambe, le braccia e le teste senza le quali non si potranno mai raggiungere gli obiettivi di sostenibilità, di risparmio energetico, di rigenerazione di cui alla Agenda Ue e ONU. Insomma il CCNL e la formazione come un pezzo di “politica industriale”, contro i colli di bottiglia spesso presenti quando magari si incentiva una domanda (bonus e super bonus vari), ma mai la capacità di offerta!

Con questo spirito viene anche introdotto per la prima volta un “Premio di Ingresso nel Settore”, per cui ai giovani di età inferiore ai 29 anni, dopo 12 mesi di permanenza nella stessa impresa, sarà riconosciuto un importo aggiuntivo di 100 euro. Questo anche per dare un “messaggio” di attenzione ai giovani che scelgono il settore delle costruzioni come esperienza lavorativa.

Prevista poi la possibilità di fare formazione al sabato presso le scuole edili, regolarmente retribuendo i lavoratori (governando così di fatto anche il ricorso al 6° giorno, ora finalizzato alla formazione) e con meccanismi premiali, che saranno definiti al 2° livello.

Formazione tanta, quindi, ma anche – per essere coerenti tra quello che diciamo e quello che facciamo – tanta sicurezza.

Viene portata all’1% in tutta Italia (a partire dal 1° Ottobre 2022) la contribuzione destinata agli enti territoriali formazione e sicurezza, garantendo così gli stessi standard di qualità e tutele in tutto il Paese. Viene inoltre prevista la gratuità per i corsi per la formazione dei preposti in materia di sicurezza sul lavoro.

Viene costituita un’anagrafe di tutti gli RSL eletti in ciascuna azienda, con l’obbligo di comunicazione all’ente bilaterale per sicurezza territoriale e inoltre viene prevista la formazione sulla sicurezza cosiddetta di “richiamo”, ogni tre anni per tutti i lavoratori invece di 5 anni previsti dalla normativa vigente. Una deroga in meglio, che, quando si parla della vita dei lavoratori, non è mai abbastanza.

Sempre in tema di rafforzamento della prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni vi sarà, poi, uno specifico piano nazionale per la sorveglianza sanitaria tramite gli enti bilaterali, a sostegno delle imprese che spesso, piccole o piccolissime, non riescono concretamente a garantirla ai lavoratori (il 42% delle aziende sanzionate dall’Ispettorato del Lavoro era per motivi legati alla sorveglianza sanitaria).

Sempre dentro il capitolo “la salute prima di tutto” viene introdotto il “Patto di Cantiere” per cui saranno registrate nelle Casse edili tutte le imprese che entrano in cantiere (lavoratori autonomi, somministrati, ecc. compresi), con verifica sulla corrispondenza tra le attività effettivamente svolte e il CCNL applicato, offrendo alle imprese applicanti correttamente altri CCNL, la possibilità di accedere a corsi di formazione sulla sicurezza in cantiere a prezzi agevolati, anche ai fini delle premialità di cui al dlgs. 81/2008.

Sempre nella logica di puntare su un lavoro sicuro, di qualità e stabile sono state confermate le norme sul mercato del lavoro con il mantenimento di percentuali e causali per i contratti a termine (25% massimo e mai eccedente in totale i 24 mesi), cioè norme e tutele più stringenti e di miglior favore rispetto sia alle norme di legge che ai principali CCNL dei settori privati, in quanto solo investendo su un rapporto di lavoro stabile e a tempo pieno si possono qualificare meglio, in termini professionali, lavoratori e lavoratrici. Perché quando si dice che dobbiamo combattere la precarietà è giusto farlo chiedendo al Governo leggi che riducano le tante tipologie precarie e l’abuso dei contratti a termine, ma dobbiamo avere la stessa “grinta” anche quando ci sediamo al tavolo con le aziende.

In termini di governo degli orari di lavoro il CCNL recepisce e generalizza poi le norme contenute in diversi accordi sottoscritti dal Sindacato con il Governo per le opere commissariate, del PNRR e del Fondo Complementare (accordi 2020 e 2021 con il MIMS) per cui, sia per le grandi opere pubbliche che per le opere e per i lavori privati di particolare significato e interesse, si potrà ricorrere al ciclo continuo, h 24 e 7 giorni su 7, solo mediante l’attività minima di 4 squadre operanti su turni di massimo 8 ore a turno e previa contrattazione collettiva. In questo modo si generalizza un’organizzazione del lavoro e un governo degli orari di fatto che mettono la salute e sicurezza e la creazione di occupazione al primo posto.

Significativi infine gli aumenti salariali: a fronte di una richiesta di 100 euro di aumenti al primo livello (parametro 100, operaio comune), gli aumenti a parametro 100 saranno di 92 euro (107,6 per l’operaio qualificato; 119,6 euro per l’operaio specializzato).

Di questi 92 euro 52 euro (60,8 al 2°, 67,6 al terzo) saranno in busta paga sin dal mese di marzo 2022, ovvero sia subito.

I restanti 42 euro a parametro 100 saranno erogati a partire da luglio 2023, con scadenza del CCNL al 30 Giugno 2024 (cioè con un allungamento di solo qualche mese rispetto alla ordinaria durata che da noi rimane triennale!).

Tutti aumenti, che evidenziamo superiori all’inflazione registrata e attesa, andranno sui minimi retribuitivi, quindi valevoli per tutti gli istituti salariali e previdenziali, di legge e contratto.

Ora – in conclusione – riteniamo che anche il Governo e gli enti locali devono fare la propria parte, sostenendo come stanno facendo a livello normativo e di atti di indirizzo, la qualificazione del settore, ma incoraggiando e sostenendo tali processi anche affrontando i problemi che, tra aumento dei prezzi e scarsità di manodopera, rischiano di rallentare l’importante contributo che il settore sta dando alla ripresa, sostenibilità e competitività del Paese. Il fatto che sia il Ministro del Lavoro che delle Infrastrutture hanno pubblicamente lodato questo rinnovo ci fa ben sperare che, oltre ai complimenti, continuino a seguire scelte concrete coerenti.

Insomma le parti sociali dimostrano che si può fare e che prima di chiedere agli altri, si fanno con serietà, ognuno per quel che gli compete, i “compiti a casa”.

Alessandro Genovesi – Segretario Generale Fillea Cgil.

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Inflazione e salari: perchè è importante una vertenza generalizzata per aumenti importanti https://www.ildiariodellavoro.it/inflazione-e-salari-perche-e-importante-una-vertenza-generalizzata-per-aumenti-importanti/ Mon, 07 Feb 2022 16:25:27 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=147976 Prima di avventurarci sul tema dell’inflazione è utile ripassare alcuni concetti di base del rapporto tra inflazione, produttività e salari. Così come tra Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro e contrattazione di secondo livello.

Primo concetto: l’inflazione è un male per l’economia solo quando è troppo bassa o troppo alta, per periodi medio lunghi. Con un dato storico in più: un’inflazione troppo bassa non è mai stata un bene per l’economia del nostro Paese. Ovviamente anche un’inflazione fuori controllo alla lunga non è sostenibile, ma la bassa inflazione è comunque – soprattutto in economie interconnesse come quella Europea – il pericolo peggiore, perché deprime i consumi e gli investimenti in economia reale (al massimo sostiene quelli puramente finanziari, con gli eccessi che abbiamo visto tutti).

Tanto è vero che già da qualche anno, ben prima della Pandemia, i principali istituti economici e le grandi banche centrali (tra tutti la BCE e la Fed) puntavano come obiettivo delle proprie politiche monetarie e indicavano come target ai vari paesi, un tasso di inflazione almeno del 3%.

Ovviamente intesa principalmente come inflazione legata tanto all’aumento dei consumi che degli investimenti, in particolare quelli a medio periodo con evidenti effetti moltiplicativi (infrastrutture, energia, welfare, ecc.). Cioè un’inflazione legata a maggiore circolazione di moneta nell’economia reale.

Aspetto diverso è una inflazione superiore al 5% soprattutto se “importata” e per periodi medio-lunghi in quanto, anche se in presenza di un sistema di adeguamenti salariali o fiscali efficiente, alla lunga non reggerebbe per la nota spirale “inflazione-atteso aumento inflazione-aumento preventivo dei prezzi”. Essendo noto che l’inflazione “prima” si scarica sui prezzi e poi, nel tempo (più o meno breve) viene recuperata (totalmente o in parte) da aumenti della capacità di spesa delle famiglie.

Una cosa è comunque certa: troppa inflazione nel medio periodo (le statistiche internazionali parlano di 4-5 anni) è pericolosa, per i periodi più brevi, quando è troppo poco recuperata, perché produce solo povertà e contenimento di investimenti nel medio termine.

In sintesi, con un’inflazione tra il 2 e 3% medio, anche nei prossimi anni, nessuno si dovrebbe preoccupare. A meno che non si voglia strumentalizzare una cosa che è pacifica per tutti gli economisti, al fine di ridurre ulteriormente i salari di fatto a favore di (ulteriori) maggiori profitti. Allora l’inflazione, come le congiunzioni astrali, è solo una “scusa” per riproporre politiche di austerità. Quelle politiche che, come la Pandemia ha dimostrato accelerando diversi processi, ci avevano condannato a bassa crescita e aumento delle disuguaglianze (e quindi aumento anche dell’inefficienza).

Secondo concetto: la produttività è la capacità, per un determinato fattore (in questo caso il fattore lavoro), di produrre più valore aggiunto (e quindi teoricamente più ricavi, rispetto ai costi) per unità di riferimento (in questo caso il tempo, l’ora di lavoro per esempio).

La produttività è quindi il risultato di più fattori sia interni che esterni (o di sistema).

A livello aziendale è legata o a maggior concentrazione di investimenti in innovazione di processo o prodotto (per cui in un’ora si produce un bene o servizio di maggiore qualità che quindi “vale” di più) o a maggiori sforzi del lavoratore (che può essere uno sforzo quantitativo, cioè più ore di lavoro, così da ridurre i costi e quindi aumentare i ricavi; oppure uno sforzo qualitativo, in quanto il lavoratore divenuto più bravo o con maggiori dosi di creatività aumenta il valore di quanto produce in un’ora, ma anche in questo caso potremmo parlano effetto indiretto di investimenti in capitale se ciò è frutto o di una maggiore formazione fornita dall’impresa o di un’organizzazione del lavoro che permette momenti di creatività, autonomia, ecc.).

A livello di sistema (che può essere anche di “filiera” o di distretto, non per forza “fisicamente” prossimo; potenza del digitale e della tecnologia!) vale lo stesso principio: investimenti diffusi in capitale (dalle infrastrutture che abbattono i costi logistici, introduzione di nuovi macchinari o procedure in questa o quella parte della filiera, a monte o a valle, ecc.) o sul lavoro (formazione, riconversione, assunzione di giovani laureati, ecc.).

Il sistema contrattuale – che deve cambiare, innovarsi, puntare su maggiore partecipazione, adattarsi ai vari contesti in alto (multinazionali tascabili, ecc.) e in basso (piccole e piccolissime imprese) ecc. ma non è questo l’oggetto di questo articolo – risponde quindi a tre funzioni diverse proprio in relazione all’inflazione, alla produttività a livello aziendale, alla produttività esterna o a livello di sistema.

Ed i due livelli della contrattazione collettiva – nonostante quanto ha scritto Dario Di Vico sul Corriere Economia del 7 febbraio, e nonostante sia un decano delle relazioni industriali – hanno funzioni diverse.

Il Contratto Nazionale di Lavoro, anche per la sua funzione di regolatore delle condizioni minimi e di lotta alla concorrenza sleale (tra le altre cose), ha il compito sia di difendere il potere di acquisto dei salari dall’inflazione, indipendentemente dalla sua origine (agendo quindi sui minimi contrattuali, cioè sui soldi “cash”) sia di redistribuire la c.d. “produttività” di sistema, cioè tutti quegli elementi che aumentano la quantità/qualità della produzione di un bene e servizio, lungo la filiera o nel territorio, non direttamente legate a investimenti e scelte aziendali (non rimando qui a tutte le teorie dei “Beni relazionali”, dell’economie esterne di sistema, distrettuale e non solo, note alla ricerca scientifica in materia).

Se non lo fa: da un lato acuisce gli effetti di un’inflazione che si scarica sui prezzi ma, non conoscendo adeguamenti nella capacità di spesa delle famiglie, genera alla fine decrescita e depressione, dall’altra non incentiva ulteriori interventi sulla produttività di sistema o li confina ad una spesa (magari pubblica) e ad un aumento degli extra profitti. Questo, indipendentemente dagli indicatori scelti, è il motivo per cui oggi occorre una politica di rivendicazione salariale importante.

Il Contratto di secondo livello (aziendale o dove previsto territoriale) deve invece redistribuire la produttività, generata espressamente per interventi dentro l’ambito di impresa: deve cioè redistribuire lo sforzo che i diversi fattori (nel caso specifico il lavoro) fanno, nell’aumentare il valore. Anche per questo l’impresa stessa, se intelligente, è propensa a farli.

Sia per riconoscere l’effetto indiretto di investimenti in nuovi prodotti e processi (si premia l’adattabilità, la capacità di esaltare gli investimenti fatti in capitale) sia per riconoscere l’effetto del proprio diretto contributo da parte dei dipendenti (partecipo di più, propongo di più, lavoro in squadra meglio, lavoro di più). Con tutta una nuova “gamma” di indicatori che, rispetto a ieri, non possono più ridursi solo alla presenza (per quanto importante) o essere il risultato di un numero finale (magari il MOL) per cui altri fattori possono intervenire e che comunque sono “meno visibili” rispetto allo sforzo del lavoratore.

E’ tutto il tema di come, per esempio, nei Premi di Risultato, si codifica lo sforzo formativo, la partecipazione, il “team building”, comportamenti responsabili e sostenibili, ecc. Insomma è tutto il tema di come, cambiando il lavoro, cambiano anche i “parametri” di calcolo e valorizzazione. Secondo un mix dove vecchi e nuovi indicatori dovranno convivere.

Perché queste, per molti, banali considerazioni a mo’ di ripasso? Perché se da un lato ha ragione  Di Vico, nel denunciare come l’argomento “innovazioni nelle relazioni industriali e produttività” sempre essere caduto nel dimenticatoio per molti, dall’altro sento troppe sirene annunciare, per una via o per l’altra, l’intenzione di non riconoscere la funzione di autorità salariale al Sindacato tramite la contrattazione collettiva nazionale.

Perché avverto i rumori di fondo di una prossima crociata ideologica contro i CCNL e perché oggi – ritengo – serva invece più contrattazione collettiva, a tutti i livelli, per governare una transizione tecnologica, ambientale e finanche demografica, dove o la partecipazione e il riconoscimento anche delle legittime aspettative di lavoratrici e lavoratori viva nella sua totalità o presto la “macchina” rischierà di ingolfarsi.

Il rischio è quindi quello di farci perdere l’occasione perché la ripresa segni anche una nuova stagione di relazioni industriali, innovative e a tutto tondo. Quello che serve, insomma, non solo per godere di tutte le potenzialità connesse anche al PNRR e al nuovo ciclo economico, ma anche per trasformare un apparato produttivo sotto dimensionato, poco propenso all’innovazione, ancora una volta tentato di percorrere la via bassa allo sviluppo (quello della precarietà e dei bassi salari). Dimostrando di non aver capito nulla di quello che serve, non solo per essere un Paese più giusto (categoria che forse agli imprenditori o ad una loro parte poco potrebbe interessare), ma anche più efficiente e innovativo (e questo dovrebbe interessare tutte e tutti).

Alessandro Genovesi, segretario generale Fillea Cgil

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Vaccinazione, il sindacato chieda al governo di renderla obbligatoria https://www.ildiariodellavoro.it/vaccinazione-il-sindacato-chieda-al-governo-di-renderla-obbligatoria/ Tue, 17 Aug 2021 15:40:42 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=141102 I diritti individuali o convivono con i diritti collettivi oppure sono lesivi di una concezione democratica delle relazioni sociali. Anzi solo dentro tutele collettive si possono meglio distinguere e rafforzare i diritti individuali. Per tanto, di fronte alla tutela della salute che è un bene comune, il limite alla libertà individuale diventa il dovere di ognuno di noi di prendersi cura degli altri, a partire da chi, pur volendo  non può vaccinarsi e quindi è più esposto, e in generale a tutela dei più fragili.

Per questo, pur consapevole della delicatezza del tema, ritengo che non possano esserci furberie, ambiguità o peggio un “gioco del cerino” tra le stesse forze politiche e di Governo ed ogni giorno che passa alimenta solo caos e tensioni, soprattutto in vista di un ritorno a lavoro, dopo la pausa agostana. Dobbiamo essere noi che chiediamo al Governo di procedere ad un intervento legislativo chiaro che sancisca l’obbligo vaccinale per tutti e tutte, ovviamente salvaguardando chi non può per ragioni mediche vaccinarsi e prestando maggiore attenzione ai soggetti più fragili. Il Governo non può scaricare su altri responsabilità che devono essere prima di tutti del decisore istituzionale e che poi devono vedere – questo sì – protagonisti tutti i soggetti, comprese aziende e organizzazioni sindacali.

Ovviamente tutti siamo consapevoli che il vaccino per quanto riduca di molto sia il rischio a contrarre la malattia sia la sua manifestazione più pericolosa (ricovero, ecc.) non è risolutivo e non porta al rischio zero. Per tanto anche di fronte all’obbligo vaccinale, fondamentale rimane il rispetto dei protocolli sanitari connessi a distanze minime, mascherine, igienizzazione degli strumenti e degli spazi di lavoro, misurazione della temperatura all’inizio della prestazione, all’ingresso in mensa, ecc. oltre che rafforzare al massimo con mezzi e risorse quelle realtà più complesse, a partire da scuola e trasporti pubblici. Per questo continueremo a pretendere il rispetto dei protocolli anti Covid e sosterremo le rivendicazioni per la massima sicurezza possibile nelle scuole e sui mezzi pubblici.

Inoltre occorre che l’autorità sanitaria rafforzi il tracciamento dei singoli non vaccinati. Anche sulla vicenda privacy si rischia, infatti, di compromettere il giusto equilibrio tra tutela dell’uso dei dati personali e dovere del pubblico a garantire la salute e sicurezza delle persone. Oggi il paradosso è che non si pongono di fatto limiti a soggetti privati (come Amazon, Facebook, ecc.) a tracciare i nostri comportamenti e orientamenti in tutti i campi a fini commerciali, ma qualcuno vorrebbe porre limiti che, ad eseguire tracciamenti degli spostamenti e contatti sia il Pubblico/lo Stato.  Pubblico che invece deve agire al massimo delle potenzialità che la tecnologia offre,  per  un interesse legittimo e primario (la salute pubblica) e che sicuramente potrebbe dare più garanzie e tutele sull’uso dei dati stessi, rispetto ad una multinazionale privata.

Ovviamente ognuno deve fare la propria parte, compreso il sindacato: per questo sarebbe utile e saggio che si costituiscano già nei prossimi giorni in tutte le aziende comitati per la vaccinazione (ricorrendo ai comitati con RSU e RLS previsti dai protocolli vigenti), anche per rendere operativo il protocollo sulle vaccinazioni nei luoghi di lavoro.

In particolare dobbiamo essere noi, espressamente e formalmente, a chiedere al Governo un provvedimento legislativo  che preveda l’obbligo di vaccinazione e che rimandi alla contrattazione collettiva la gestione della fisiologica fase transitoria (2/3 mesi) per governare nei posti di lavoro l’obbligo stesso (per  riorganizzazione dei turni mensa o sostituzione mensa con pasto caldo in cestino, ticket, ecc., attivazione di postazioni singole fino a che tutti non si siano vaccinati, definizione delle certificazioni mediche necessarie per esenzione,  riorganizzazione dei turni o del lavoro in remoto per avere meno contatti con altri, riorganizzazione delle squadre, ecc. sempre in attesa di vaccinarsi, ecc.). Insomma rivendichiamo che la legge, che impatterà sui luoghi di lavoro, sia condivisa e se possibile “definita” insieme alle forze sociali per gli impatti che avrà dentro le aziende.

Il provvedimento dovrebbe inoltre: prolungare la validità dei protocolli anti Covid almeno fino a Giugno/settembre 2022, tenendo il tutto monitorato insieme alle parti sociali; codificare le procedure di certificazione medica per l’eventuale esenzione e per identificare in modo stabile e permanente, anche ai fini assicurativi e previdenziali, la figura del “lavoratore fragile”, questo anche alla luce di possibili nuove pandemie. La legge dovrebbe riconoscere le giuste tutele (trattamento di malattia e non cumulabilità con i periodi di comporto) sia per i lavoratori in quarantena che, si pensi agli impatti previdenziali, per gli stessi fragili (si veda da ultimo il messaggio INPS del 6 Agosto 2021 che invece va in direzione opposta). Occorre prevedere modalità certe ed efficaci per assicurare il tracciamento in automatico per tutti coloro che non si sono ancora vaccinati ricorrendo al potenziamento di strumenti come Immuni ecc.

Infine se poi dovesse rimanere – invece – la possibilità di non vaccinarsi, perché l’obbligo sarebbe quello del green pass (che a parer mio genererà solo più caos nella gestione concreta e per questo ritengo strategica la vaccinazione obbligatoria), non può passare che per chi sceglie di non vaccinarsi – e quindi di fatto obbligato a fare un tampone ogni 2 giorni – il costo di questo ultimo sia a carico delle aziende (che nella pratica potrebbe voler dire solo delle grandi) o della collettività solo per i lavoratori.  Cosa diversa e più giusta è invece un’azione più generale per rendere il costo del tampone gratuito per i più fragili e chi non può vaccinarsi, e  più accessibile a tutti gli altri, vaccinati e non, lavoratori e cittadini, precari e pensionati, disoccupati e casalinghe, autonomi e subordinati, introducendo un prezzo calmierato (se non fosse possibile la gratuità universale), come fu per le mascherine, quando venne fissato dal commissario straordinario un prezzo massimo.

Alessandro Genovesi

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Decreto semplificazioni, un primo commento ragionato https://www.ildiariodellavoro.it/decreto-semplificazioni-un-primo-commento-ragionato/ Sat, 05 Jun 2021 10:30:24 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=139028 Primo commento sul Decreto Semplificazioni 2021: analisi, proposte, spunti per iniziative successive

Il presente lavoro non riguarda ovviamente l’intero decreto, ne le parti che incidono sul codice appalti o sulle diverse procedure di accelerazione della fase pre gara (Via, Conferenza dei Servizi, Commissione Speciale presso il Consiglio Nazionale dei Lavori Pubblici, Sovra intendenza nazionale, riduzione tempi per il dibattito pubblico, proroghe dei termini del decreto “sblocca cantieri” e del decreto “semplificazioni 2020”, ecc.) ed ovviamente ci riserviamo, insieme alla Cgil, una valutazione più compiuta su aspetti problematici presenti nel decreto stesso (si pensi alla riduzione degli inviti nelle procedure negoziate, al cambio delle soglie per evitare il bando pubblico, ecc.). Il presente lavoro si concentra esclusivamente sugli aspetti “più sindacali” connessi all’appalto e all’organizzazione dei bandi per gli effetti che questi avranno sulle condizioni di lavoratori ed imprese.

 

Sub appalto: una mossa del cavallo per rimettere al centro il lavoro. Si apre una grande occasione per il sindacato, per qualificare le imprese e per riunificare il mondo del lavoro secondo il principio “stesso lavoro, stessi diritti, stesso contratto”. E’ una grande occasione per qualificare in termini industriali i settori degli appalti pubblici.

Ora dobbiamo:

  • difendere la norma e migliorarla ulteriormente sul versante della qualificazione di impresa (patente a punti e non solo);
  • aprire una grande iniziativa sulla qualificazione delle stazioni appaltanti sia in termini di contrattazione preventiva (pensiamo alle stesse potenzialità insite nelle clausole per favorire l’occupazione giovanile e femminile) che, soprattutto, per indirizzarne l’attività al fine di cogliere tutte le potenzialità connesse alle nuove norme (compreso l’obbligo di inter connessione con la Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici e il fascicolo di impresa);
  • saranno forse necessarie linee guida volte a favorire tanto la collaborazione con le Prefetture che la corretta definizione di opera o servizio complesso, nonché per garantire maggiori controlli e sicurezza nei luoghi di lavoro oltre che occorre rendere da subito operativo e funzionante il Durc di Congruità.

Su questo dovremmo mettere in campo iniziative politiche diffuse perché il 1 Novembre 2021 segnerà un cambio di modello e dobbiamo arrivare preparati a quell’appuntamento.

 

Quando lotta, unità, confronto pagano

Un mio amico ha detto, commentando la vertenza che ha portato a condividere con il Governo gli interventi in materia di sub appalto, “la lotta paga”. Certo la lotta che abbiamo fatto, edili in testa, è stata importante: e se siamo riusciti a sconfiggere prima il tentativo di generalizzare il “massimo ribasso” e poi la totale deregolamentazione dei sub appalti, qualche merito lo abbiamo come Fillea e come Federazione Lavoratori delle Costruzioni (FLC).

Per primi, insieme alle categorie del terziario, abbiamo denunciato i rischi di una visione liberista degli interventi sul Codice per cui, invece di usare le risorse pubbliche per qualificare settori ed imprese, per migliorare le condizioni di lavoro, queste si sarebbero “dovute adattare” a quello che c’è (nanismo e sottocapitalizzazione, logica del risparmio sul lavoro invece che investimento sulla qualità, disattenzione – conseguente – ai temi della sicurezza).

Per primi abbiamo unitariamente messo in campo iniziative di mobilitazione, dichiarando la nostra volontà di giungere ad uno sciopero generale e le stesse piazze occupate il 26 Maggio (da Ancona a Bergamo, da Palermo a Napoli ad Alessandria e a Roma) si sono inserite nella più generale vertenza aperta da CGIL, CISL e UIL per contrastare gli infortuni sul lavoro (tema che rimanda direttamente a come è organizzato il ciclo produttivo e l’ambiente di lavoro, alla dimensione di impresa ecc.).

In particolare gli edili hanno messo la propria forza politica e organizzativa a disposizione di una più generale battaglia confederale a tutela anche delle lavoratrici e lavoratori più in difficoltà (si pensi al vasto mondo dei servizi ad alta intensità di manodopera) secondo quella pratica inclusiva e solidaristica tipica, in particolare, della CGIL.

Solidarietà, unità sindacale, capacità di mobilitazione hanno portato ad un risultato importante: prima hanno obbligato il Governo a incontrare i sindacati (giovedì scorso) e poi ad aprire un tavolo di confronto vero e proprio. In quella trattativa, gestita con spirito unitario e competenza da parte di tutti, ha preso forma una “mossa del cavallo”.

La “mossa” è stata quella di sganciare la discussione dalla percentuale in sé di sub appalto (come del resto già, come CGIL, avevamo indicato: si veda il documento del 17 Gennaio 2021 a cura della Segreteria Nazionale scritto con il coinvolgimento delle principali categorie) per portarla sul terreno della qualificazione di impresa, della crescita dimensionale, dello spostamento del sub appalto dal terreno del risparmio a quello della specializzazione produttiva.

Aprendo una strada alla possibilità di un’azione vertenziale e contrattuale sui posti di lavoro inedita, perché finalizzata a ricongiungere parte alta e parte bassa della filiera (questa è contrattazione inclusiva, riguardi lavori edili, servizi o forniture) attraverso il principio “stesso lavoro, stessi diritti, stesso contratto collettivo” (battaglia che come edili abbiamo lanciato anni fa con lo slogan unitario “stesso lavoro, stesso contratto”).

L’articolo 49 del decreto semplificazioni (che novella l’art. 105 del Codice e generalizza la piena operatività della Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici di cui all’art. 81; aspetto quest’ultimo da non banalizzare, si vedano i commenti e le proposte avanzate nella parte finale di questo testo) trova infatti un nuovo equilibrio “di sistema” che – per logica – dovrebbe anche comportare che la materia stessa del sub appalto (risolto il problema sorto con la Commissione Europea) non sia oggetto della eventuale nuova legge delega di riforma del Codice stesso (come annunciato in sede di presentazione del PNRR).

Perché un’affermazione così forte? Vediamo ora nel dettaglio le norme approvate in Consiglio dei Ministri, i loro effetti pratici, gli spazi che aprono e quello che da subito riteniamo come Fillea Cgil occorra fare.

Prima questione: potevamo difendere il 30% o 40% di limite al sub appalto sugli importi di lavori, ma lasciare la condizione di debolezza degli attuali lavoratori in sub appalto così come è, oppure potevamo cambiare “l’unità di misura” per valutare cosa è attività principale in appalto e cosa non lo sia, cosa è elemento di competizione (specializzazione versus mero risparmio sui costi) e cosa non lo sia. Potevamo prendere tempo o giocare all’attacco (e abbiamo fatto così): riscrivere le regole del gioco pensando che, qualunque percentuale vi sarà domani nei sub appalti (fatti i salvi i limiti quantitativi posti dal nuovo comma 1 del 105 sulla nullità del contratto), questa è condizionata da elementi (come la parità di trattamento economico e normativo, l’applicazione dello stesso CCNL, le caratteristiche di impresa e sua qualificazione) e da possibili processi (l’azione collettiva sindacale, questa dipende da noi) tali da favorire una specializzazione produttiva delle imprese lungo la filiera e quindi una maggiore qualità del lavoro.

Seconda questione: “quantità versus qualità”. Il nuovo comma 1, secondo e terzo periodo dell’art. 105 del dlgs. 50/2015 opera prima di tutto una corretta “contemperanza” tra due principi (presenti in specifiche direttive europee anche, quella sugli appalti ma anche quella sulla concorrenza): quello di favorire la partecipazione delle PMI nel mercato dei contratti pubblici, con quello della trasparente e certa concorrenza tra imprese.

Nello specifico un contratto di appalto da domani sarà nullo se ceduto ad un terzo (vince l’impresa X, ma poi si cede il lavoro all’impresa Y che non ha partecipato alla gara, e allora chi è arrivato secondo – quando scopre la cessione – fa giustamente ricorso in quanto falsata la gara stessa), se l’integrale esecuzione dell’opera (sub appalto cioè il 100%, ricorso del secondo classificato) viene data ad altri, ma anche in caso di realizzazione da parte di altri (terzi, appunto) della “prevalente esecuzione delle lavorazioni” relative al complesso delle categorie prevalenti (le categorie OG dell’edilizia per intenderci) o in caso di contratti ad alta intensità di manodopera (del resto se devi pulire 4 piani di un Ministero che vuoi sub appaltare? Qui correttamente si richiama il concetto di alta intensità di manodopera su cui tanto le direttive europee quanto lo stesso articolo 50 del Codice prevedono, riferendosi a contratti dove l’elemento lavoro è così prevalente, anche una specifica “clausola sociale”).

Insomma il principio è che chi vince una gara deve poi “fare”, al di là degli importi, la parte prevalente. Ovviamente sarà a questo punto la singola stazione appaltante che, in base ai tipi di lavorazione e servizio, dovrà valutare cosa è sub appaltabile, quali caratteristiche dovrà avere, tenendo conto della nullità in caso di violazione del nuovo comma 1 (di fatto si passa da un’unità di misura – il valore dell’importo su cui vi era la percentuale – ad un’altra unità di misura, la quantità di lavorazioni e prestazioni in relazione alle categorie). Del resto, per onestà, diverse associazioni di impresa stesse si erano schierate per evitare un’eccessiva deregolamentazione delle quantità sub appaltabili.

La stessa Unione Europea del resto contestava la predeterminazione di una percentuale a priori (il 30% poi divenuto 40%) e non il diritto della stazione appaltante di porre limiti specifici che però dovessero avere un indicatore caratteristico (non più gli importi, ma appunto la quantità e/o la tipologia delle prestazioni specifiche, che variano da appalto ad appalto).

Insomma il rischio della destrutturazione del ciclo è limitata dal riferimento ai rischi di possibile nullità del contratto stesso. E una parte della sfida vera sarà, dal 1° Novembre, come agiremo sulla qualificazione delle imprese, sugli obblighi nuovi imposti alle amministrazioni competenti (la parte finale dell’articolo 50 del Decreto varato dal CDM) a partire dall’adozione della congruità dell’incidenza di manodopera e delle linee e procedure antimafia della l. 159/2011.

Dovremmo anche noi agire come sindacato verso le stazioni appaltanti che dovranno tenere conto della natura e complessità delle prestazioni o lavorazioni, del rafforzamento dei controlli in cantiere e nei luoghi di lavoro (servizi), delle possibili infiltrazioni (da qui anche il ruolo riconosciuto alle Prefetture). Importante è inoltre aver ribadito l’attenzione alle attività così dette super specialistiche (le c.d. SIOS per cui non è ammesso l’avvalimento; il decreto cita espressamente l’articolo 89 comma 11 del Codice attuale) così come il rinvio al regolamento (a questo punto da emanare urgentemente da parte del Ministero degli Interni, di concerto con il Ministero della Giustizia e con il Ministero delle Infrastrutture) del Codice Antimafia, art. 91 c. 7 del dlgs 159/2011.

Regolamento che dovrà individuare le diverse tipologie di attività suscettibili di infiltrazione mafiosa per cui è sempre obbligatoria l’acquisizione della documentazione antimafia indipendentemente dal valore del contratto, sub contratto, concessione.

Insomma: se forse saranno necessarie Linee Guida (da parte di Anac o qualche altra istituzione) per spiegare alle circa 40 mila stazioni appaltanti cosa fare, sarà invece “obbligatorio” per noi avviare un’intensa attività di concertazione (anche noi come CGIL dovremmo darci delle linee guida sia di merito che di metodo/controllo per evitare che ogni struttura CGIL vada per conto suo, facendo poi disastri).

Sapendo – se ci riferiamo all’edilizia – che per fortuna non partiamo da zero, tra accordi sulle opere commissariate, Anas, RFI, edilizia sanitaria, scolastica, ecc. e che in molti territori, insieme alle confederazioni, vi sono già principi e procedure codificate in materia di appalti.

Ma la “svolta vera”, inutile prenderci in giro, è il nuovo comma 14 primo periodo dell’articolo 105 che non a caso sostituisce quanto attualmente previsto (per cui ai sensi del “primo periodo” del comma 14 ante decreto, si poteva sub appaltare con un risparmio ulteriore fino al 20%) con una norma che è la riproposizione, in chiave aggiornata, di quella che i giuristi chiamavano la “regola d’oro” dell’art. 3 della legge 1369/60.

Norma a cui “abbiamo chiesto di aggiungere” (ed ottenuto) anche il rinvio rafforzato all’applicazione dello stesso Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.

Un punto questo all’epoca non considerato dal legislatore per ovvi motivi: a fine anni 50, inizio anni 60 il tema della sovrapposizione dei perimetri contrattuali nei CCNL sottoscritti dalle categorie di CGIL, CISL e UIL come quello della super fetazione di contratti “pirata” o comunque sottoscritti da sindacati autonomi poco rappresentativi non era presente nel panorama delle relazioni industriali e quindi non si poneva di fatto.

La nuova norma recita “il sub appaltatore, per le prestazioni affidate in sub appalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazioni previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l’applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro”, ovviamente “qualora le attività oggetto di sub appalto coincidano con quelle caratterizzanti l’oggetto dell’appalto” (caso generale) “ovvero riguardino le lavorazioni relative alle categorie prevalenti” (caso anche di dettaglio in caso di lavori edili che sono ricompresi e classificati per OG e OS) e ovviamente “siano incluse nell’oggetto sociale del contraente generale” (esempio We Build, perché nessuno chiede di applicare obbligatoriamente il contratto edile alla società che fa pulizie nei campi base…).

Qui è la grande scommessa sindacale ed industriale di fronte a noi e all’intero sistema degli appalti pubblici.

Stiamo dicendo che un sub appaltatore di We Build che fa in quell’opera lavorazioni edili (quindi attinenti all’oggetto appalto “nuova ferrovia”, categoria prevalente) deve garantire ai suoi dipendenti salario e tutele come quelle di un dipendente di We Build e deve anche applicare il CCNL dell’Edilizia (che si porta sia per obbligazione contrattuale che per riferimento al codice stesso, art. 30 dlgs. 50/2016, anche il secondo livello territoriale).

E’ pacifico infatti che per stesso CCNL si intenda quello sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale in quanto previsto dall’art. 30 comma 4 del dlgs. 50/2016 in modo esplicito (la nuova norma va infatti letta inserita nel Codice complessivo e il decreto non “novella” questa parte del Codice).

Immaginiamo il portato di questa norma, anche in termini di potenziale iniziativa sindacale e contrattuale: stiamo dicendo che per lo stesso lavoro (oggetto dell’appalto) i trattamenti non possono essere inferiori ne in termini di salari che di diritti (pensiamo alla formazione e ai costi per la sicurezza del CCNL dell’edilizia) e quindi che viene meno la “convenienza basata sulla compressione dei costi del lavoro” tale per cui l’azienda sarà spinta a sub appaltare quelle attività specialistiche, ad alto valore, ecc. tale da potersi permettere un costo uguale o superiore (perché comunque conveniente in termini di tecnologie, mezzi, produttività, conoscenza, non possedute per quella specifica lavorazione o servizio).

Stiamo inserendo un potente incentivo o ad internalizzare (“se tanto devo pagare uguale a questo punto meglio assumerlo” e quindi ecco incentivata anche la crescita dimensionale, la strutturazione organizzativa, ecc.) o a selezionare solo imprese più specializzate (per cui la loro produttività giustifica il costo maggiore) che si pongono nella parte alta del ciclo produttivo e del valore.

Aziende anche da accompagnare nel riallineamento dei costi in un’azione combinata tanto verso la stazione appaltante e l’appaltatore (ora devono redigere bandi e presentare progetti consapevoli di questa nuova condizione normativa) che verso lo stesso sub appaltatore (passaggi contrattuali, eventuali armonizzazioni, ecc.).

Quindi stiamo dicendo che “a stesso lavoro, stesso salario e stessi diritti”. E questo oltre a ricomporre il mondo del lavoro, agisce prepotentemente sulle condizioni sia di sicurezza sia di innalzamento della qualità della prestazione. Quindi a stesso lavoro, stesso costo (pensiamo alle norme del nostro contratto specifiche per la sicurezza, le 16 ore obbligatorie, i versamenti per i CPT e le Scuole, gli RLST, ecc.).

Ma c’è di più e qui c’è uno spazio per il sindacato importante: stiamo anche dicendo che se si fa lo stesso lavoro si deve anche applicare lo stesso CCNL.

Quindi stiamo di fatto ricomponendo e riordinando i perimetri contrattuali in funzione di cosa si fa concretamente (che era poi l’obiettivo per esempio di quella parte inattuata del c.d. “patto per la fabbrica”) e di come si è inseriti nella filiera e stiamo semplificando e ricomponendo la stessa rappresentanza sindacale, perché banalmente stesso CCNL vuol dire anche stessa categoria della Cgil, delegati che possono più facilmente costituire coordinamenti, RLST, RLS di sito, ecc.

E questo vuol dire, anche, un colpo micidiale ai contratti c.d. “pirati”. Quelli cioè non firmati da sindacati rappresentativi. Non sarà più possibile che, se l’appaltante applica un contratto sottoscritto dalla Filcams per esempio o dalla Fillea, il lavoro sarà svolto in sub appalto da lavoratrici e lavoratori con CCNL sottoscritti magari dalla Cisal o dalla Fials, ecc.

Insomma per questo ritengo un punto importante quello raggiunto nel confronto con il Governo Draghi, a vantaggio del lavoro, della qualità degli appalti e a vantaggio anche delle imprese più serie e strutturate.

Un punto di partenza però e non certo di arrivo.

Ora nei prossimi giorni:

  • dobbiamo continuare la nostra azione verso il Parlamento perché alcune delle nostre richieste non sono state pienamente accolte (penso alla c.d. “Patente a punti”, ma non solo, sarebbe utile allora inserire all’articolo 49 del decreto al comma 3 una nuova lettera d) “adottano quanto previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica ai fini dell’articolo 27 del dlgs. 81 del 9 Aprile 2008 e successive modifiche ed integrazioni”);
  • dobbiamo presidiare e difendere la sintesi trovata con il Governo da possibili incursioni durante l’iter Parlamentare di conversione del decreto legge;
  • dobbiamo continuare la mobilitazione affinché il Ministro del Lavoro acceleri l’emanazione del Decreto attuativo della Congruità, a questo punto fondamentale per rafforzare l’intero impianto;
  • Dobbiamo aprire, un momento dopo aver confermato in legge di conversione l’articolato, una serie di interlocuzioni con Anac, Governo, Ispettorato Nazionale, ecc.

Dovremmo attrezzare una stagione unitaria di vertenzialità per avviare quel “riallineamento contrattuale”, quella “pulizia” lungo la filiera, sostenendo tutti quei soggetti economici che, con l’occasione, punteranno a specializzarsi e a strutturarsi nel pieno rispetto delle regole e dei nostri contratti collettivi.

Dovremmo condividere percorsi e strategie, oltre che conoscenza delle norme e delle loro implicazioni sia contrattuali che vertenziali.

Soprattutto dovremmo attrezzarci per continuare un’azione politica e sindacale, appena convertito il decreto, concentrata su due aspetti:

  • Come agire le clausole volte a favorire la creazione di nuova occupazione giovanile e femminile di cui all’art. 47 del decreto, che rilancia tra l’altro uno strumento di informazione sindacale che noi per primi spesso sottovalutiamo (mi riferisco all’obbligo per tutte le aziende pubbliche e private che occupano più di 100 dipendenti di presentare ogni due anni alle rappresentanze sindacali e alla consigliera di parità il rapporto sulla situazione del personale, con status professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria, ecc. ; è l’articolo 46 del dlgs. 198/2006), estendendolo di fatto a tutte le imprese con 15 o più dipendenti che partecipano ad appalti pubblici (comma 3 articolo 47).

Il comma 2 del decreto prevede infatti che le aziende partecipanti ad appalti pubblici producano tale rapporto alla stazione appaltante con attestazione di conformità a quello trasmesso alle rappresentanze sindacali e (comma 3) entro 6 mesi dalla conclusione del contratto, e sono tenute a “consegnare alla stazione appaltante una relazione di genere sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria e di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento di Cassa integrazione, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta” (questo aiuta anche la verifica dello stesso principio di trattamento economico e normativo non inferiore di cui al nuovo comma 14 art. 105 del Codice Appalti). I bandi dovranno avere specifiche clausole e premialità a favore dell’occupazione femminile e giovanile (se la stazione appaltante non applica tali clausole vincolanti o lo fa per un valore inferiore al 30% minimo fissato dal comma 4 dell’art. 47 c. 4, deve darne motivazione) e questo rimanda e rafforza la strategia della categoria basata sulla riduzione “di fatto” degli orari (si vedano gli accordi dell’11 Dicembre 2020, del 22 Gennaio 2021, confermati dal verbale di incontro del 16 Aprile u.s. con il Ministro Giovannini) al fine proprio di incrementare l’occupazione negli appalti di lavori.

In attesa delle linee guida previste dal comma 8 dell’art. 47 da emanarsi entro 60 giorni, a cura del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture e del Ministero del Lavoro, la nostra strategia va quindi estesa provando a meglio intercettare quanto “incentivato” ora dalle nuove norme, proprio a partire dall’interlocuzione con le stesse Stazioni Appaltanti.

 

  • Come agire per una qualificazione (oltre che riduzione) delle stazioni appaltanti che, dal 1 Novembre 2021, diventano di fatto il fulcro della “programmazione e gestione” degli appalti anche per quanto riguarda selezione di impresa, qualità dell’opera e servizio, organizzazione del ciclo produttivo, interventi di garanzia e controllo in cantiere (e più generale sui luoghi di lavoro), trasparenza e lotta alle infiltrazioni criminali. Al riguardo diviene fondamentale tenere insieme (tanto nella lettura normativa che negli effetti pratici e nelle stesse, conseguenti, azioni sindacali da svolgere) la riscrittura del comma 2 terzo periodo dell’art. 105 (art. 49 del Decreto, già sovra descritto) e l’articolo 53 – sempre del decreto semplificazioni 2021 – che al comma 5 e seguenti introduce significativi cambiamenti ad alcuni articoli del Codice Appalti molto importanti (in particolare agli articoli 29 e 81). Nello specifico sarà fondamentale:
  • definire con specifiche linee guida o buone pratiche (a cura dell’Anac o dello stesso Ministero Infrastrutture e Mobilità Sostenibile) indicazioni concrete affinché siano chiari gli ambiti tanto delle categorie prevalenti che delle super specialistiche, anche per valutare correttamente e tenere “conto della natura o della complessità delle prestazioni o delle lavorazioni da effettuare”;
  • definire con specifiche convezioni, per esempio, da sottoscrivere con l’Ispettorato del Lavoro (e non solo) le modalità di “rafforzamento del controllo delle attività di cantiere (…) e di garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e della salute e sicurezza dei lavoratori”. Al riguardo ispirandoci agli stessi accordi sottoscritti con grandi stazioni appaltanti (ANAS ed RFI per esempio, Commissario per la Ricostruzione del Centro Italia, ecc.) si potrebbe predisporre un “protocollo tipo” che preveda la generalizzazione di alcune buone pratiche (esempio badge di cantiere, collaborazione con le Casse Edili, le Scuole edili ed i CPT) da far adottare al maggior numero di stazioni appaltanti possibile;
  • generalizzare presso le Prefetture i tavoli sui flussi di manodopera per tutti i lavori di importo sopra le soglie comunitarie. Tavoli sui flussi di manodopera che a questo punto diverrebbero di fatto territoriali in generale e specifici per le grandi opere di cui alle nuove Linee Guida Anti mafia 2021 del Ministero degli Interni;
  • emanare già nei prossimi giorni il decreto attuativo del Durc di Congruità per il settore edile, con l’impegno entro la fine dell’anno, magari con appositi tavoli con le parti sociali interessate, di definirne uno specifico anche per i servizi e le forniture (questo anche in relazione alla creazione del fascicolo virtuale dell’operatore economico; vedi punti seguenti);
  • in relazione ai positivi interventi sull’articolo 29 del dlgs. 50/2016 (la modifica al comma 1 specifica che i processi di informazione e pubblicità varranno anche per l’esecuzione e non solo per l’affidamento dei contratti) in particolare con i novellati comma 2, 3, 4 e 4 –bis che generalizzano l’operatività e l’obbligatorietà a ricorrere ad un unico sistema/banca dati (la Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici dell’Anac, richiesta avanzata ormai 3 anni fa dalla Fillea Cgil), anche per le regioni e gli enti locali, occorre però che si proceda celermente al decreto del Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con MIMS e MEF, per le modalità di digitalizzazione e interoperabilità delle banche dati, previsto dall’art. 44 del Codice Appalti a cui, anche il decreto semplificazione 2021 fa corretto rinvio per rendere efficace la norma di “centralizzazione” della banca dati;
  • così come occorre che l’Anac individui con proprio provvedimento, sentito il MIMS, “i dati concernenti la partecipazione alla gare e il loro esito, in relazione ai quali è obbligatoria la verifica attraverso la Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici, i termini e le regole tecniche per l’acquisizione, l’aggiornamento e la consultazione dei predetti dati (…), nonché i criteri e le modalità relative all’accesso e al funzionamento della Banca Dati” (nuovo comma 2 dell’art. 81 del dlgs. 50/2016). Un prerequisito fondamentale visto che tale Banca Dati Nazionale dell’Anac sostituirà la Banca dati centralizzata gestita del Ministero delle Infrastrutture (il decreto modifica al riguardo l’art. 81 comma 1 del Codice Appalti) e soprattutto ospiterà il “fascicolo virtuale dell’operatore economico” (nuovo comma 4 dell’art. 81 del Codice Appalti). Il fascicolo, come verrà fatto, come andrà alimentato, da chi sarà visibile è tema strategico in quanto servirà, tra le altre cose, per “la verifica dell’assenza di motivi di esclusione di cui all’articolo 80” del Codice. L’articolo 80 indica infatti i motivi per cui un operatore economico viene escluso dalla partecipazione ad un appalto pubblico: non solo in caso di reati consumati o tentati ai sensi della normativa penale ed anti mafia, corruzione o concussione, false comunicazioni sociali, frodi, riciclaggio, tentativi di infiltrazione (dlgs. 159/2011)ecc., ma anche violazioni in materia di imposte, tasse o dei contributi previdenziali, comprese quelle “ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva”. Documento di regolarità contributiva (DURC-DOL per intenderci) che ora – in virtù tanto dell’articolo 105 comma 16 che dell’articolo 8, comma 10-bis del decreto legge n.76 convertito con modificazioni dalla legge 120/2020, ora entrambi richiamati dal comma 3 dell’art. 49 del Decreto Semplificazioni 2021 – è comprensivo della congruità, cioè dell’incidenza di manodopera (da qui l’esigenza anche di un raccordo poi con le norme Anac che dovranno recepire il prossimo Decreto del Ministero del Lavoro in materia).

Tutti punti quindi delicati che necessitano di un confronto, tanto con il Ministero degli Interni (quali convenzioni tipo con le Prefetture, quali indicazioni per il regolamento di cui al dlgs.159/2011, ecc.), con il Ministero delle Infrastrutture e Anac (quali linee guida per indicare “buone pratiche” alle stazioni appaltanti), con il Ministero della Pubblica Amministrazione (decreto attuativo art. 44 del Codice Appalti) e, ancora, con l’Anac (quale provvedimento per indicare quali dati, come aggiornarli ecc, anche in funzione del fascicolo virtuale dell’operatore economico).

A questo andrà aggiunto un lavoro per generalizzare il più possibile la riduzione di fatto degli orari anche per facilitare le clausole pro occupazione giovanile e femminile.

Insomma molto è stato fatto e dovremmo saperlo difendere e gestire, ma molto rimane ancora da fare.

Ci aspetta un “secondo tempo” che sposti ora sul come far funzionare il tutto, a partire da fine anno, e che dovrà vedere anche questa volta una forte azione della categoria in sintonia e collaborazione con la Confederazione e con Filca Cisl e Feneal Uil.

Infine un post: l’articolo 50 del decreto (al comma 4) prevede l’introduzione di un premio di accelerazione per ogni giorno di anticipo rispetto al programma esecutivo e di collaudo di un’opera. Bene ma a due condizioni: la prima che se accelerazione è possibile essa avvenga in piena sicurezza e con aumento della base occupazionale (quarta e quinta squadra) come del resto vincolato per le opere commissariate e quelle finanziate dal PNRR in virtù degli accordi sottoscritti dall’11 dicembre 2020 in poi con il MIMS (del resto lo scambio era proprio questo: noi pronti a fare di più per accelerare, però in cambio massima sicurezza e maggiore occupazione); la seconda che se questo genererà extra profitti per le imprese, questi vengano redistribuiti anche alle lavoratrici e lavoratori che, con la loro intelligenza e fatica, hanno permesso tali risultati.

2 Giugno 2021

Alessandro Genovesi – Segretario Generale FILLEA CGIL

 

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Sub appalto: una mossa del cavallo per rimettere al centro il lavoro https://www.ildiariodellavoro.it/sub-appalto-una-mossa-del-cavallo-per-rimettere-al-centro-il-lavoro/ Sat, 29 May 2021 13:04:14 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=138752 Sub appalto: una mossa del cavallo per rimettere al centro il lavoro. Si apre una grande occasione per il sindacato, per qualificare le imprese e per riunificare il mondo del lavoro secondo il principio “stesso lavoro, stessi diritti, stesso contratto”.

Un mio amico ha detto, commentando la vertenza che ha portato a condividere con il Governo gli interventi in materia di sub appalto, “la lotta degli edili paga”. Certo la lotta degli edili è stata importante: e se siamo riusciti a sconfiggere prima il tentativo di generalizzare il “massimo ribasso” e poi la totale deregolamentazione dei sub appalti,  qualche merito lo abbiamo come Fillea e come Federazione Lavoratori delle Costruzioni (FLC).

Per primi, insieme alle categorie del terziario, abbiamo denunciato i rischi di una visione liberista degli interventi sul Codice per cui, invece di usare le risorse pubbliche per qualificare settori ed imprese, per migliorare le condizioni di lavoro, queste si sarebbero “dovute adattare” a quello che c’è (nanismo e sottocapitalizzazione, logica del risparmio sul lavoro invece che investimento sulla qualità, disattenzione – conseguente – ai temi della sicurezza).

Per primi abbiamo unitariamente messo in campo iniziative di mobilitazione, dichiarando la nostra volontà di giungere ad uno sciopero generale e le stesse piazze occupate il 26 Maggio (da Ancona a Bergamo, da Palermo a Napoli ad Alessandria, a Roma) si sono inserite nella più generale vertenza aperta da CGIL, CISL e UIL per contrastare gli infortuni sul lavoro (tema che rimanda direttamente a come è organizzato il ciclo produttivo e l’ambiente di lavoro, alla dimensione di impresa ecc.).

In particolare gli edili hanno messo la propria forza politica e organizzativa a disposizione di una più generale battaglia confederale a tutela anche delle lavoratrici e lavoratori più in difficoltà (si pensi al vasto mondo dei servizi ad alta intensità di manodopera) secondo quella pratica inclusiva e solidaristica tipica, in particolare, della CGIL.

Solidarietà, unità sindacale, capacità di mobilitazione hanno portato ad un risultato importante e hanno facilitato una “mossa del cavallo”.

La “mossa” è stata quella di sganciare la discussione dalla percentuale in sé di sub appalto (come del resto già, come CGIL, avevamo indicato: si veda il documento del 17 Gennaio 2021) per portarla sul terreno della qualificazione di impresa, della crescita dimensionale, dello spostamento del sub appalto dal terreno del risparmio a quello della specializzazione produttiva.

Aprendo una strada alla possibilità di un’azione vertenziale e contrattuale sui posti di lavoro inedita, perché finalizzata a ricongiungere parte alta e parte bassa della filiera (questa è contrattazione inclusiva, riguardi lavori edili, servizi o forniture) attraverso il principio “stesso lavoro, stessi diritti, stesso contratto collettivo” (battaglia che come edili abbiamo lanciato anni fa con lo slogan unitario “stesso lavoro, stesso contratto”).

Perché un’affermazione così forte? Vediamo ora nel dettaglio le norme approvate in Consiglio dei Ministri, i loro effetti pratici, gli spazi che aprono e quello che da subito ritengo occorra fare.

Prima questione: potevamo difendere il 30% o 40% di limite al sub appalto sugli importi di lavori, ma lasciare la condizione di debolezza degli attuali lavoratori in sub appalto così come è, oppure potevamo cambiare “l’unità di misura” per valutare cosa è attività principale in appalto e cosa non lo sia, cosa è elemento di competizione (specializzazione versus mero risparmio sui costi) e cosa non lo sia. Potevamo prendere tempo o giocare all’attacco (e abbiamo fatto così): riscrivere le regole del gioco pensando che, qualunque percentuale vi sarà domani nei sub appalti (fatti i salvi i limiti quantitativi posti dal nuovo comma 1 del 105 sulla nullità del contratto), questa è condizionata da elementi (come la parità di trattamento economico e normativo, l’applicazione dello stesso CCNL, le caratteristiche di impresa e sua qualificazione) e da possibili processi (l’azione collettiva sindacale, questa dipende da noi) tali da favorire una specializzazione produttiva delle imprese lungo la filiera e quindi una maggiore qualità del lavoro.

Seconda questione: “quantità versus qualità”. Il nuovo comma 1, secondo e terzo periodo dell’art. 105 del dlgs. 50/2015 opera prima di tutto una corretta “contemperanza” tra due principi (presenti in specifiche direttive europee anche, quella sugli appalti ma anche quella sulla concorrenza): quello di favorire la partecipazione delle PMI nel mercato dei contratti pubblici, con quello della trasparente e certa concorrenza tra impresa. Nello specifico un contratto di appalto da domani sarà nullo se ceduto ad un terzo (vince l’impresa X, ma poi si cede il lavoro all’impresa Y che non ha partecipato alla gara, e allora chi è arrivato secondo – quando scopre la cessione – fa giustamente ricorso in quanto falsata la gara stessa), se l’integrale esecuzione dell’opera (sub appalto cioè il 100%, ricorso del secondo classificato) viene data ad altri, ma anche in caso di realizzazione da parte di altri (terzi, appunto) della “prevalente esecuzione delle prestazioni o lavorazioni” relative al complesso delle categorie prevalenti (le categorie OG dell’edilizia per intenderci) o in caso di contratti ad alta intensità di manodopera (del resto se devi pulire 4 piani di un Ministero che vuoi sub appaltare? Qui correttamente si richiama il concetto di alta intensità di manodopera su cui tanto le direttive europee quanto lo stesso articolo 50 del Codice prevedono, riferendosi a contratti dove l’elemento lavoro è così prevalente, anche una specifica “clausola sociale”).

Insomma il principio è che chi vince una gara deve poi “fare”, al di là degli importi, la parte prevalente. Ovviamente sarà a questo punto la singola stazione appaltante che, in base ai tipi di lavorazione e servizio dovrà valutare cosa è sub appaltabile, quali caratteristiche dovrà avere, tenendo conto della nullità in caso di violazione del nuovo comma 1 (di fatto si passa da un’unità di misura – il valore dell’importo su cui vi era la percentuale – ad un’altra unità di misura, la quantità di lavorazioni e prestazioni in relazione alle categorie). Del resto, per onestà, diverse associazioni di impresa stesse si erano schierate per evitare un’eccessiva deregolamentazione delle quantità sub appaltabili.

La stessa Unione Europea del resto contestava la predeterminazione di una percentuale a priori (il 30% poi divenuto 40%) e non il diritto della stazione appaltante di porre limiti specifici che però dovessero avere un indicatore caratteristico (non più gli importi, ma appunto la quantità e/o la tipologia delle prestazioni specifiche, che variano da appalto ad appalto).  Insomma il rischio della destrutturazione del ciclo è limitata dal riferimento ai rischi di possibile nullità del contratto stesso. E  una parte della sfida vera  sarà, dal 1° Novembre, come agiremo sulla qualificazione delle imprese, sugli obblighi nuovi imposti alle amministrazioni competenti (la parte finale dell’articolo 50 del Decreto varato dal CDM) a partire dall’adozione della congruità dell’incidenza di manodopera e delle linee e procedure antimafia della l. 159/2011.  Dovremmo anche noi agire come sindacato verso le stazioni appaltanti che dovranno tenere conto della natura e complessità delle prestazioni o lavorazioni, del rafforzamento dei controlli in cantiere e nei luoghi di lavoro (servizi), delle possibili infiltrazioni (da qui anche il ruolo riconosciuto alle Prefetture). Insomma: se forse saranno necessarie Linee Guida (da parte di Anac o qualche altra istituzione) per spiegare alle circa 40 mila stazioni appaltanti cosa fare, sarà invece “obbligatorio” per noi avviare un’intensa attività di concertazione (anche noi come CGIL dovremmo darci secondo me delle linee guida sia di merito che di metodo/controllo).

Sapendo – se ci riferiamo all’edilizia – che per fortuna non partiamo da zero, tra accordi sulle opere commissariate, Anas, RFI, edilizia sanitaria, scolastica, ecc. e che in molti territori, insieme alle confederazioni, vi sono già principi e procedure codificate in materia di appalti.

Ma la “svolta vera”, inutile prenderci in giro, è il nuovo comma 14 primo periodo dell’articolo 105 che non a caso sostituisce quanto attualmente previsto (per cui si poteva sub appaltare con un risparmio ulteriore fino al 20%) con una norma che è la riproposizione, in chiave aggiornata, di quella che i giuristi chiamavano la “regola d’oro” dell’art. 3 della legge 1369/60.

Norma per cui “il sub appaltatore, per le prestazioni affidate in sub appalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazioni previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l’applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro”, ovviamente “qualora le attività oggetto di sub appalto coincidano con quelle caratterizzanti l’oggetto dell’appalto” (insomma nessuno chiede di applicare il contratto edile alla società che fa pulizie nei campi base…).

Qui è la grande scommessa sindacale ed industriale. Stiamo dicendo che un sub appaltatore di We Build che fa in quell’opera lavorazioni edili (quindi attinenti all’oggetto appalto “nuova ferrovia”, categoria prevalente) deve garantire ai suoi dipendenti salario e tutele come quelle di un dipendente di We Build e deve anche applicare il CCNL dell’Edilizia.

 Il CCNL dell’Edilizia sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale in quanto previsto dall’art. 30 comma 4 del dlgs. 50/2016 in modo esplicito (la nuova norma va infatti letta inserita nel Codice complessivo e il decreto non “novella” questa parte del Codice).

Immaginiamo il portato di questa norma, anche in termini di potenziale iniziativa sindacale e contrattuale: stiamo dicendo che per lo stesso lavoro (oggetto dell’appalto) i trattamenti non possono essere inferiori ne in termini di salari che di diritti (pensiamo alla formazione e ai costi per la sicurezza del CCNL dell’edilizia) e quindi che viene meno la “convenienza basata sulla compressione dei costi del lavoro” tale per cui l’azienda sarà spinta a sub appaltare quelle attività specialistiche, ad alto valore, ecc. tale da potersi permettere un costo uguale o superiore (perché comunque conveniente in termini di tecnologie, mezzi, produttività, conoscenza, non possedute per quella specifica lavorazione o servizio).

 Stiamo inserendo un potente incentivo o ad internalizzare (“se tanto devo pagare uguale a questo punto meglio assumerlo” e quindi ecco incentivata anche la crescita dimensionale, la strutturazione organizzativa, ecc.) o a selezionare solo imprese più specializzate (per cui la loro produttività giustifica il costo maggiore) che si pongono nella parte alta del ciclo produttivo e del valore.

Quindi stiamo dicendo “a stesso lavoro, stesso salario e stessi diritti”. E questo oltre a ricomporre il mondo del lavoro, agisce prepotentemente sulle condizioni sia di sicurezza sia di innalzamento della qualità della prestazione. Quindi a stesso lavoro, stesso costo; stesso lavoro, stessi diritti (pensiamo alle norme del nostro contratto specifiche per la sicurezza, le 16 ore obbligatorie, i versamenti per i CPT e le Scuole, gli RLST, ecc.).

Ma c’è di più e qui c’è uno spazio per il sindacato importante: stiamo anche dicendo che se si fa lo stesso lavoro si deve anche applicare lo stesso CCNL. Quindi stiamo di fatto ricomponendo e riordinando i perimetri contrattuali in funzione di cosa si fa concretamente (che era poi l’obiettivo per esempio di quella parte inattuata del c.d. “patto per la fabbrica”) e di come si è inseriti nella filiera e stiamo semplificando e ricomponendo la rappresentanza sindacale, perché banalmente stesso CCNL vuol dire anche stessa categoria della Cgil, delegati che possono più facilmente costituire coordinamenti, RLST, RLS di sito, ecc.

E questo vuol dire, anche, un colpo micidiale ai contratti c.d. “pirati”. Quelli cioè non firmati da sindacati rappresentativi.  Non sarà più possibile che, se l’appaltante applica un contratto sottoscritto dalla Filcams per esempio o dalla Fillea, il lavoro sarà svolto in sub appalto da lavoratrici e lavoratori con CCNL sottoscritti magari dalla Cisal o dalla Fials, ecc.

Insomma per questo ritengo un punto importante quello raggiunto nel confronto con il Governo Draghi, a vantaggio del lavoro, della qualità degli appalti e a vantaggio anche delle imprese più serie e strutturate.

Ora nei prossimi giorni penso che:

  • dobbiamo continuare la nostra azione verso il Parlamento perché alcune delle nostre richieste non sono state pienamente accolte (penso alla c.d. “Patente a punti”, ma non solo);
  • dobbiamo presidiare e difendere la sintesi trovata con il Governo da possibili incursioni durante l’iter Parlamentare di conversione del decreto legge;
  • dobbiamo continuare la mobilitazione affinché il Ministro del Lavoro acceleri l’emanazione del Decreto attuativo della Congruità, a questo punto fondamentale per rafforzare l’intero impianto.

Soprattutto dovremmo attrezzare una stagione unitaria di vertenzialità per avviare quel “riallineamento contrattuale”, quella “pulizia” lungo la filiera, sostenendo tutti quei soggetti economici che, con l’occasione, punteranno a specializzarsi e a strutturarsi nel pieno rispetto delle regole e dei nostri contratti collettivi.

Dovremmo infine, già nei prossimi giorni, condividere percorsi e strategie, oltre che conoscenza delle norme e delle loro implicazioni sia contrattuali che vertenziali.

Alessandro Genovesi – Segretario Generale FILLEA CGIL

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Positivo ed interessante il rinnovo del CCNL metalmeccanico. Spunti per una riflessione più generale https://www.ildiariodellavoro.it/positivo-ed-interessante-il-rinnovo-del-ccnl-metalmeccanico-spunti-per-una-riflessione-piu-generale/ Wed, 10 Feb 2021 16:16:23 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=134116 Diverse compagne e compagni, ovviamente sopravvalutandomi, mi hanno chiesto e chiedono un parere sul recente rinnovo del CCNL metalmeccanico (probabilmente qualcuno me lo chiede anche con malizia)…

Non ho problemi a dire quello che penso anche perchè con i compagni con cui ho parlato, anche della Fiom, ho ovviamente detto quanto scrivo ora qui.

Con alcune premesse che non sono formali ma di sostanza:

1) Ogni trattativa ha la sua storia, i suoi passati rinnovi (che pesano per tutti) e un contesto specifico sia relativo ai rapporti di forza che “alla fase” più generale, per cui è proprio vero il detto che per commentare una trattativa bisognerebbe prima di tutto essere al tavolo.

2) Tutti i rinnovi del 2020 sono stati accumunati, a mio parere, da almeno 3 difficoltà (con pesi e dinamiche diverse, ma nei “dettagli” simili) in parte eredità del passato anche recente in parte oggettivamente “non prevedibili”:

– la pandemia, che ha inciso diversamente nei settori e nei territori, ha accellerato processi organizzativi e tecnologici già presenti (non solo smart working per essere chiari, ma anche le ri organizzazioni di funzioni di produzione, progettazione, marketing, ecc.), ha comunque pesato e spinto alcune imprese a pianificare investimenti per accellerare la ripresa ma ha spinto anche altre imprese a “strumentalizzare” la crisi sanitaria per abbattere oltre il ragionevole i “costi contrattuali complessivi”, confidando anche sulle difficoltà di organizzare iniziative di mobilitazione viste le norme anti covid;

– il tentativo politico iniziale di Bonimi di Confindustria di usare le relazioni industriali ed i rinnovi in chiave politica versus il Governo (si veda vicenda significativa degli alimentaristi, del Legno ecc.) e comunque per dimostrare che finalmente era arrivata la “dura razza padana”;

– il venir meno (ma questa è veramente una sensazione che per il rinnovo metalmeccanico solo i compagni della Fiom potrebbero confermare o smentire e che per esempio non si è registrata per il rinnovo del CCNL delle TLC) del ruolo “trainante” che di solito hanno sempre avuto le grandi aziende nelle fasi di “stretta” (tradotto: nella crisi di rappresentanza che anche Confindustria ha, sempre maggiore è il peso delle piccole e medie aziende che, per capacità di investimento, sottocapitalizzazione, ecc. hanno più difficoltà ad accettare sfide).

Premesso tutto ciò ho letto i testi e, concentrandomi sugli interventi e temi più importanti, ritengo interessante e potenzialmente ricca di sviluppi in azienda ( magari legandola il più possibile a formazione contrattata) l’operazione inquadramento.

Li veramente vedo una bellissima operazione sia perchè nel periodo di passaggio da vecchio a nuovo inquadramento si può provare a giocare una partita con delegati ecc., sia perchè la strada aperta difficilmente potrà vedere una marcia indietro al prossimo rinnovo (anzi visto il lavorone sulle schede mansioni, si potrà/dovrà completare).

Corretto è il rinvio al patto della fabbrica per blindare perimetri manutenzioni e, comunque, l’aver definito meglio la platea per le clausole sociali negli appalti pubblici aiuta ad una migliore gestione del codice appalti (qui i meccanici forse pongono un punto corretto ed in più, nell’avviso comune finale, aggredendo i global service; è l’annoso tema dei perimetri contrattuali e delle invasioni di campo, con tanto di dumping che ci facciamo tra noi; tema che per esempio anche noi edili abbiamo nei confronti del ccnl multi servizi e qualche volta con lo stesso CCNL metalmeccanico….).

Sul salario infine si è ricorso alla cosidetta “fantasia dei contrattualisti” per cui hai si – formalmente – le verifiche inflattive ex post con riferimento a Ipca Depurato ogni giugno, ma di fatto – è questa la vera sconfitta della linea Bonomi – solo a salire perché comunque il CCNL blinda ” l’aumento minimo sui minimi” – scusate pessimo gioco di battute – con aumenti tem legati ad innovazione (inquadramenti).

Il famoso punto 5 dell’Accordo Interconfederale che noi tutti abbiamo sempre interpretato escludendo che gli aumenti sui minimi (TEM) dovessero solo essere mera inflazione.

Un po’ come ha fatto la Fillea nel CCNL del Legno per cui a 50 euro di aumenti sui minimi a parametro 100 legati alla produttività dati “a prescindere”, poi si aggiunge verifica inflattiva annuale (su questo c’è stato il vero scontro, uno sciopero generale fatto a febbraio 2020 e un secondo proclamato per l’autunno, poi non fatto perchè si è giunti alla firma).

Questo punto politico sindacale nel CCNL metalmeccanico è un risultato non scontato e – mi scuseranno le compagne e compagni – visto il contesto e visto il punto finale positivo di arrivo in un CCNL comunque “politicamente e quantitativamente” importante come quello dei metalmeccanici, fermarsi a guardare se il CCNL vale 3 anni e mezzo 4 anni, 4 anni e mezzo, ecc. è come guardare “il dito e non la luna”…

Ora, nel fare i primi bilanci di questa tornata, si apre, secondo me, un tema per tutti (e per i prossimi rinnovi) importante su cui riflettere tutti insieme, anche con CISl e UIL registrando la positiva tenuta unitaria (certo non senza difficoltà e qualche furbizia, ma ci sta) in tutti i principali rinnovi…

Oggi di fatto sul salario, sulla funzione di autorità salariale del CCNL, sull’uso degli aumenti salariali anche ai fini industriali (la famosa “frusta salariale” di Sylos Labini) e di aumento dei consumi interni (oltre la leva fiscale per capirci) di fatto convivono tre modelli:

– quello dei chimici, alimentaristi, edili (cito solo quelli che conosco un pò) che hanno aumenti sui minimi puri (vecchia scuola), legandola a elementi di “produttività diffusa”, “buone pratiche”, rapporti di forza, ecc.;

– quello del CCNL legno che certifica l’esistenza di due piste salariali: una cifra X (50 euro parametro 100 + verifiche inflattive a Gennaio su IPCA NON DEPURATA) ed in parte quello del CCNL delle TLC;

– quello dei metalmeccanici che dice vi sono aumenti minimi garantiti (i famosi 100 euro all’ex 3° livello) che possono aumentare se vi è una fiammata inflattiva (ad oggi più un obiettivo macro economico che una certezza), ma che non possono sicuramente scendere anche in caso di inflazione “piatta o negativa” di fatto (la più probabile almeno per 2021 e 22).

Sapendo che si partiva da un modello di aumenti solo inflattivi ex post (quando forse si pagò il pegno anche al “rientro”), questa terza soluzione la trovo di buon senso e – per le cose che ho provato a dire – penso veramente che le compagne e compagni della Fiom insieme a Fim e Uil (oltre a confermare i vecchi “pacchetti” formazione e welfare) hanno fatto un buon lavoro e di più sarebbe stato impossibile…

Rimane però il tema per il futuro per cui, di fatto, occorre (penso al 2° o 3° modello, quello Legno e metalmeccanico) ogni volta “inventarci” una “clausola innovazione” o una “clausola produttività diffusa”.

Perchè il nodo che Confindustria non vuole sciogliere è quello di fondo: il CCNL, – vista anche la specificità italiana di molte PMI, di una contrattazione di 2° livello poco diffusa (anche dove siamo al top non copre mai oltre il 20/30% dei lavoratori) e di una pervasività tecnologica che sempre di più “estrae” valore in termini di sistema e filiera più che di singola azienda (un tema anche più complesso rispetto alla “frammentazione” dei cicli operata con appalti, terziarizzazioni, ecc.)- deve farsi carico di redistribuire quella ricchezza e produttività che si genera anche dove non c’è il 2° livello (e non parlo dei riconoscimenti economici che il CCNL da per mancata contrattazione di secondo livello, chiamati in modi diversi dai diversi CCNL) oppure no (di fatto continuando a favorire ulteriore frantumazione nelle scale salariali di fatto dei lavoratori)?

Questa l’ambiguità non sciolta fino in fondo tra noi e Confindustria per cui ogni rinnovo sarà uno scontro tra chi dice il CCNL deve al massimo difendere il potere d’acquisto ex post (di fatto rinunciando ad essere, il CCNL, anche strumento di politica micro economica, che agisce su incentivare investimenti in capitale e su aumento consumi interni – obiettivo aumentare l’inflazione a quel 3-4% che oggi chiede anche la BCE tanto per capirci) e chi come noi, CGIL, dice che il CCNL deve anche aumentare il potere d’acquisto in una funzione “industriale ed economica”, appunto, più complessiva.

E questa discussione (ma non è oggetto di questo appunto) si intreccia o no e come con la discussione sul salario minimo? (Note sono le mie perplessità a tenere insieme articolo 36 e 39, risolvendo per me con l’applicazione del 39, cioè la legge sulla rappresentanza, anche il tema del salario minimo – forza dell’erga omnes…)

Ma per tornare al punto della dialettica sulla funzione salariale, tra sindacato e Confindustria, concludo – per adesso – con una “banalità”.

Questo problema “di interpretazione” in sè non mi stupisce: una parte del padronato proverà ancora a competere sulla “svalutazione del lavoro” e il movimento sindacale continuerà a rivendicare (secondo me anche più in sintonia con i tempi e con le sfide che abbiamo di fronte) più salario e più formazione, perchè sempre di più – nella divisione internazionale del lavoro – si vince se ci si posiziona nella parte alta, cercando su questo l’alleanza con la parte più avanzata e lungimirante delle aziende….

Per adesso, visti i rinnovi fatti e senza nasconderci difficoltà e parzialità, stiamo 1 a 0 per noi. Non era scontato e dobbiamo esserne un pò anche orgogliosi viste le difficoltà di questi tempi.

E ora che la palla si rimette al centro… vale il detto “palla lunga e pedalare”…

Alessandro Genovesi – Segretario Generale Fillea CGIL

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100 anni dalla fondazione del PCI: alcune riflessioni sparse e senza pretese… https://www.ildiariodellavoro.it/100-anni-dalla-fondazione-del-pci-alcune-riflessioni-sparse-e-senza-pretese/ Wed, 20 Jan 2021 23:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/100-anni-dalla-fondazione-del-pci-alcune-riflessioni-sparse-e-senza-pretese/ L’anniversario di fondazione del Partito Comunista d’Italia (sezione dell’Internazionale Comunista) sta diventando (come naturale che sia) tante cose.

Un’occasione di riflessione e approfondimento storico-politico sul novecento (“il secolo breve” non a caso inizia con la prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica del 1917 secondo la felice classificazione di Eric Hobsbawm), sul nostro paese e su quella originale comunità politica che si fece cronaca e storia.

Assumendo come classificazione più corretta quella, politicamente parlando, recuperata anche recentemente da D’Alema di un PCI che nasce tra Lione e il partito nuovo di Togliatti e le “sue” vie nazionali, inquadrando – come del resto fece lo stesso Gramsci nelle sue riflessioni in carcere, poi ripreso da Paolo Spriano – i primi anni, dal 21 a Lione, come una sconfitta del tentativo di egemonizzare il PSI; dove il ruolo del nucleo ordinovista è minimo e dove si assiste più ad un sussulto tra due “estremismi infantili”, di Serrati e Bordiga, che non alla costituzione della sezione italiana dell’Internazionale leninista.

Ma anche un momento di (legittima) nostalgia sentimentale (“il partito comunista radicato dentro” come scrive con la sua caratteristica dolcezza Luciana Castellina) che era tante cose, ivi compresa una comunità di donne e uomini che realizzavano sé stessi dentro una missione (“l’altra chiesa” si scriveva una volta, terribile e rassicurante insieme).

Può essere, però, anche l’occasione per recuperare o facilitare una discussione sul senso profondo di quella che oggi è o dovrebbe essere “la sinistra nel mondo”, senza piegarla ovviamente agli opportunismi della cronaca e senza cadere in banalizzazioni e semplificazioni (“il PCI fu una vera forza riformista?” Domanda priva di senso nel contesto della guerra fredda, della collocazione geo politica dell’Italia, della fine degli imperi coloniali, ecc. ecc.).

Da un punto di vista propriamente storico-politico, tra le tante iniziative sorte anche dal basso (penso a quanto sta facendo la rivista InfinitiMondi a Napoli), finora (a mio parere) l’appuntamento più pregevole (e completo) è quello messo in piedi dalla Fondazione Gramsci a metà novembre dell’anno passato (“Il comunismo italiano nella storia del novecento”, da vedere con calma e con il “quaderno per gli appunti” ben aperto; https://www.fondazionegramsci.org/convegni-seminari/il-comunismo-italiano/?sub=), così come significativi sono diversi cammei che, pur non volendo, accompagnano questo anniversario.

Da quanto si va scrivendo in queste ore sulla scomparsa di Em. Ma (tra i vari “coccodrilli” scritti per il compagno Macaluso, alcuni sono pregevoli, in particolare quelli che recuperano la sua biografia ed i suoi interventi sulla questione sociale e che ben fotografano lo “strano animale, la Giraffa” quale il frutto più autentico della dialettica tra visione togliattiana e pratica divittoriana) alla più problematica ricostruzione politica e personale di una figura “sofferente” quale quella di Bruno Trentin, da alcuni in modo maldestro inserito nel filone di pensiero di “Masse e Potere” di Ingrao (la formazione di Trentin fu assai più eclettica, direi perennemente oscillante tra pensiero azionista, individualismo e conoscenza raffinata del marxismo scientifico tanto da farne la prova vivente dalla capacità di inclusione intellettuale del PCI che riusciva a mantenere costante una dialettica dentro un “comune campo da gioco”; si vedano in particolare i Diari pubblicati qualche anno fa da Ediesse e curati da Ariemma ed in parte – ma perché più concentrato sull’involuzione della classe politica ex PCI – il recente libello curato da Andrea Ranieri, che di quella scuola, quella del PCI non fu mai “allievo ortodosso” a differenza di Iginio, Segretario del PCI Torinese). O ancora la ripresa in mano degli scritti di Rossanda, anche essa figlia legittima di un PCI e della sua “ambiguità leninista” che, con Magri, rappresenta un filone di quella storia e non certo una fuoriuscita da esso…

Mentre più limitate e parziali finora (e su questo proverò a dire qualcosa) sono le analisi da “scienziati della politica” sull’eredità e attualità di un pensiero (primo corno del discorso) e di una pratica (secondo corno) che il PCI (ma in parte la stessa CGIL che non fu solo dialettica con il PCI, ma fu anche tanto di questo) consegna alle diverse generazioni.

 Alle generazioni che con quel partito fecero i conti (dentro come militanti e dirigenti, ma anche fuori provengano dal PSI o dalla DC poco importa, fino alla svolta della Bolognina), a quelle generazioni di mezzo (la mia, troppo giovani per essere stati dirigenti comunisti e troppo grandi per essere figli della post ideologia; una generazione nata nella seconda metà degli anni 70 e che “fu lambita dai due mari” ) ed infine parla – o potrebbe parlare – a chi ha conosciuto solo gli attuali partiti politici (e che sente di essere “incompleta”, si veda per esempio il fenomeno recente della riscoperta di Berlinguer come icona ma anche come dirigente politico da parte di chi non era neanche nato nel 1984).

Sull’attualità del pensiero politico inizio, allora, da una riflessione “destruens”: la semplice categoria politica per cui il PCI fu una forza volutamente riformista è in parte vera e in parte falsa.

Fu riformista nella pratica (cioè predicò la presa del potere attraverso libere elezioni democratiche, usando il “quadrilatero” rappresentato da Partito, Sindacato, Movimento Cooperativo, Associazionismo culturale, per condizionare dall’opposizione a livello nazionale e governare dagli enti locali) non solo perché ancorato ai testi sacri (perennemente rivitalizzati da quella miniera inesauribile che è il pensiero gramsciano, sempre però da contestualizzare e storicizzare) per cui l’Italia dovesse conoscere prima la rivoluzione/modernizzazione borghese democratica, come esaurimento di una fase storica propedeutica, poi, alla rivoluzione socialista…

Ma anche e soprattutto perché le dinamiche della guerra fredda e la lunga mano di Yalta non mettevano a disposizioni altre soluzioni (l’eco profondo dello “state calmi” di un Togliatti ferito in ospedale o della “Lezione cilena” degli scritti di Berlinguer sul compromesso storico, sono i momenti-topos di quel campo da gioco obbligato).

La grande specificità dello scontro permanente sulle vie nazionali (dalla svolta di Salerno al memorale di Yalta fino all’”esaurimento della spinta propulsiva” e all’ultimo tentativo egemonico tentato dal PCI, a parer mio, con l’Eurocomunismo; con tutte le contraddizioni, i drammi politici e personali, ecc.) del resto ha sempre sotteso tutto ciò: il tentativo perenne di introdurre “dosi di socialismo statalista” all’interno di una democrazia liberale, rivitalizzando continuamente prassi e teoria, azione quotidiana e sol dell’avvenire,  come limite ma al contempo originalità del movimento comunista italiano dal 43 all’89.

Dove il senso delle “riforme di strutture” (su questo non condivido la banalizzazione dialettica di D’Alema che liquida tale termine come un mero escamotage dei comunisti per “non dirsi riformisti”, si veda l’intervista rilasciata a Repubblica proprio oggi, 20 Gennaio) era il terreno agibile dal PCI proprio in virtù di un “potere” contrattuale che, nell’occidente, la questione sociale (e i suoi rappresentanti) potevano esprimere in funzione della divisione del mondo.

Tradotto: poiché in una parte del mondo (con limiti, distorsioni, errori bonapartisti, ecc., metteteci tutti gli aggettivi più negativi che volete) era diventato un fenomeno storicamente reale l’estinzione della proprietà privata (URSS, Cina, ecc.), era il rischio di “faremo come la Russia” che facilitò un compromesso tra capitale e lavoro più spostato a favore del lavoro, a imbrigliare gli spiriti animali.

E se un filone vero andrebbe indagato di più ancora oggi (e che segna la vera sconfitta di Gramsci e del leninismo rispetto all’evoluzione del pensiero togliattiano e alla concreta realizzazione del “socialismo in un solo paese” che plasmò di fatto l’intera storia del blocco sovietico) è come da entrambi le parti divise dal muro, il superamento dei limiti del mercato, della proprietà privata (cioè per quello che potremmo banalmente definire “il socialismo”) non è stato mai consegnato a processi di liberazione dal basso, alla centralità dei consigli (o dei soviet presto “imbrigliati e svuotati”), alla centralità (e differenze) delle comunità locali, alla liberazione del rapporto lavoro fisico-lavoro intellettuale in una concezione di nuovo umanesimo (il tema non è l’Homo Novus, ma se esso è il prodotto di processi reali di emancipazione o di indottrinamento di regime come spiegò bene Marcuse), ma invece – e sempre – allo Stato che si faceva padrone.

Per cui tanto nella versione dei piani quinquennali che nell’intervento pubblico in economia (lato occidente), nel contesto in particolare successivo alla sconfitta dei fascismi e alla fine dell’”accerchiamento della patria socialista”,  si è ucciso nella culla il potenziale di liberazione che la centralità di nuove figure sociali (operai e contadini), di processi tecnologici altamente pervasivi (il salto tecnologico della meccanizzazione e elettrificazione è paragonabile al 4.0 di cui oggi tanto si parla, proprio in quanto innovazioni abilitanti…) consegnava alla “rivoluzione permanente”, alla ricerca cioè di una liberazione che diveniva autogestione, riappropriazione di spazi, conoscenze, potere (perché il potere è il mezzo, la trasformazione il fine, per dirla con le parole d’oggi: è giusto ambire alle poltrone, alla stanza dei bottoni, il punto è per fare cosa, come e con chi!).

E allora – al netto della parentesi su indicata che però penso tanto abbia pesato nell’esaurimento di quella specifica e storicamente determinata forma in cui si è espresso il portato ideale e programmatico del comunismo nel 900 – rimane ancora aperta, piaccia o no, una questione.

 La questione.

Anche il nostro mondo nell’anno 2021 può veramente migliorare, divenire più giusto se vive di una possibilità alternativa, se i vari “poteri” si confrontano con progetti e pratiche alternative che li minaccino “realmente”.

Senza un’alternativa “di sistema” in campo, di modello di sviluppo, di relazioni sociali, di gerarchie valoriali, la “liberazione dell’uomo” dal Dio mercato, metro e giudizio della vita biologica e spirituale di tutti noi, sarà ed è impossibile.

Questa è la questione che quello specifico pensiero politico, definito comunismo, ha posto apertamente al genere umano e il suo spettro, piaccia o no, si aggira ancora per il mondo…

I 100 anni del PCI possono consegnarci, allora, tante riflessioni (pars construens). In sostanza tutte legittime e molte vere “storiograficamente” parlando e al contempo di stringente attualità: il tema dell’alfabetizzazione politica, dell’educazione delle masse e del loro inserimento nella vita democratica e costituzionale del Paese, civilizzando al contempo quella specie di “borghesia” italiana tanto contraddittoria quanto parassitaria (vero!, Tanto in versione cartacea che digitale); il tema del lavoro di massa (e tra le masse), del coniugare i bisogni materiali dell’oggi con una prospettiva di trasformazione radicale dei rapporti produttivi e sociali domani (vero!, il ruolo del lavoro come diaframma per leggere il mondo, il ruolo dei lavoratori e delle loro organizzazioni, la socializzazione del sapere, ecc.); il tema delle alleanze tra ceti, comunità, linguaggi, persone e organizzazioni come processo politico che libera energie (verissimo!, si pensi al portato dell’ambientalismo come ideologia complessiva e come forza di mobilitazione)…

Ma nessuno di questi aspetti può eludere (si preferisca poi la declinazione in termini organizzativi, istituzionali, sindacali, tecnologici, geo politici, ecc.) il fatto che un “mondo migliore era possibile” (ed è possibile) perché una grande forza politica, radicata socialmente, avanzava proposte di trasformazione li dove la ricchezza si generava e l’ottica non era meramente redistributiva e risarcitoria. Cioè si contestava il meccanismo, non solo gli effetti e si provava a realizzare modelli diversi…

Su questo la differenza ieri con una concezione social democratica (oggi, banalizzando molto, diremmo rispetto ad una terza via) era legata ad un fatto specifico (ed è qui l’attualità de “La Questione”): si contestava il modello capitalista fino all’obiettivo dichiarato di un suo superamento. La sola dichiarazione di “un oltre” era la differenza di fondo, l’energia rigenerante, la dimensione millenaria… Qualcosa in più cioè di un mero trucco “escatologico”.

Tutto ciò è riproponibile oggi con i programmi, gli strumenti, le parole d’ordine del 900?

Anche solo porre la domanda o sotto intenderla in questi termini è un “trucco”!

Con l’obiettivo, in mala fede, di consegnare alla discarica della storia non una specifica realizzazione organizzativa e politica di quel pensiero che dagli scritti marxisti in poi ha dato vita a molte forme specifiche (tra cui il PCI), ma l’intero “senso profondo”, “la metafisica della trasformazione” dello sforzo umano di migliorare il “fare e l’essere” (per prendere in prestito le parole di Gramsci”).

Per questo ritengo che sia più utile porre e porci l’altra domanda: se non si riconosce che la questione di fondo rimane ancora oggi la creazione di un altro modello, alternativo a quello esistente, per essere e definirsi “di sinistra”, riusciremo mai a trovarli questi nuovi programmi, strumenti, parole d’ordine, alleanze?

Al di dà di letture di maniera o di pragmatiche genuflessioni alle elaborazioni profonde (e oggettivamente radicali) che una rinnovata “teologia della liberazione” ci pone (e che Papa Francesco non potrà mai letteralmente esplicitare), anche con riferimento ai quei “marxisti pentiti” che piegano il pensiero neo evangelico per nascondersi dietro “ma lo dice anche il Papa” (evoluzione di quel senso di colpa per essere stati comunisti, che non ha ben donde di esistere!), il tema non è il gradualismo o meno nelle trasformazioni, non è neanche la contradditoria via alla costruzione di questa o quella alleanza politica. Non è la bontà di questo o quel passaggio politico che contrasti altri scenari inconciliabili e apertamente avversari rispetto un progetto di trasformazione in senso più socialista (è pacifico che con fascisti e sovranisti le ragioni della giustizia sociale e della libertà arretrano, anche nel campo delle teorie liberali) …

Il punto è: è ancora attuale il tema di un superamento dei processi di accumulazione, creazione e distribuzione di ricchezza, conoscenze e potere rispetto all’attuale modello di sviluppo?

E se lo è (e credo che lo sia), tattica e strategia, valori e pratica, alleanze e organizzazione (vale per un partito politico ma anche per un grande sindacato confederale) possono essere declinate a partire da questa assunzione di fondo, da questo obiettivo dichiarato?

I 100 anni dalla nascita del PCI sono un’occasione per riflettere sul mondo, su di noi e sugli altri, sugli errori (tanti), i limiti (enormi) ecc., ma possono (e dovrebbero) essere anche l’ occasione per riflettere su quel moto di fondo della storia umana per cui – sentendo l’ingiustizia verso gli altri sempre come una ingiustizia verso sè stessi e vedendo il mondo così bello da ritenere che debba non solo essere salvato ma anche che debba appartenere a tutti (e quindi a nessuno, a partire da chi deve ancora nascere) – si rigeneri un impegno, una ricerca, un’azione politica.

Non una ricerca da confinare negli angusti “limes” di questo o quell’atteggiamento morale, non come mera espressione di un proprio dovere individuale ma come, appunto “scienza politica”, cioè scienza dell’azione umana collettiva.

Corsari come avrebbe scritto il mai abbastanza letto e studiato Pier Paolo Pasolini, di una flotta che attraversa anche il tempo dell’oggi con però i “punti nave” ben chiari.

Non “Sarti di Ulm”, anticipatori e testimoni di qualcosa che deve ancora venire, ma intellettuale collettivo che si cimenta a costruire. Perché le bussole passano, ma le stelle continueranno sempre ad indicarci il Nord.

 

Alessandro Genovesi – attualmente Segretario Generale della Fillea Cgil. Giornalista, in passato dirigente nazionale dei Democratici di Sinistra.

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Piano Colao: un’altra occasione mancata https://www.ildiariodellavoro.it/piano-colao-unaltra-occasione-mancata/ Tue, 09 Jun 2020 22:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/piano-colao-unaltra-occasione-mancata/ Il cosiddetto Piano Colao è l’ennesima occasione mancata: un’occasione mancata, fondamentalmente, per una domanda di fondo a cui non si vuole rispondere (che è poi il punto derimente anche di questa fase politica e dei suoi protagonisti a partire da chi ha responsabilità di Governo).

Preso atto che un’occasione, seppur legata al dramma del Covid, così importante – per la quantità di risorse messe in campo – non ricapiterà presto per il nostro Paese, si vogliono o no affrontare i nodi di fondo del nostro modello di sviluppo?

Un modello di sviluppo che ha visto ben prima del Covid aumentare le disuguaglianze sociali, le inefficienze (istituzionali, fiscali, ecc.), le paure e la rabbia, proprio perché abbiamo avuto “troppo poco pubblico” e troppo “capitalismo straccione”.

Ci si vuole attrezzare o no, cioè, per affrontare una riforma di sistema che rompa vecchi privilegi e parassitismi, scommettendo su un modello sociale, ambientale ed economico, più equilibrato, dove accanto a nuovi doveri convivano nuovi (e vecchi) diritti?

Perché il punto di partenza è proprio questo: capire se si condivide oggi l’analisi di fondo.

Analisi, la mia, secondo la quale abbiamo toccato il fondo perché abbiamo avuto “troppo poco pubblico” – inteso come Stato Innovatore, Stato Produttore (sia in senso industriale stretto, sia in senso di produttore di lavoro attraverso il nuovo welfare), Stato Regolatore (sia dei mercati che dei diversi livelli istituzionali) e Facilitatore (PP.AA.) – e abbiamo pagato il conto a un “capitalismo troppo straccione”, un capitalismo che non ha investito (di suo) in innovazione, crescita dimensionale di impresa, partecipazione e qualificazione dei lavoratori; che ha preferito, in sostanza, la finanza alla produzione e la rendita agli investimenti.

Il Piano Colao, al di là di belle parole e di un po’ di efficientismo pure apprezzabile per riformare le PP.AA (tranne omettere come si pagano tali riforme, in quale contesto istituzionale si inseriscono e soprattutto quale dovrebbe essere il ruolo degli stessi lavoratori e intellettuali-tecnici dello Stato, per dirla alla Gramsci) è, per questa risposta non data, una minestra riscaldata.

Una minestra che ripropone un combinato cosi hard di liberismo, non conoscenza reale di molti settori (pensiamo, per quanto ci riguarda, alle costruzioni), assenza di visione, svilimento del ruolo delle parti sociali, come non lo leggevo da tempo.

Scrivo ciò con l’amarezza di chi, pur consapevole che il sentiero è stretto e che differenze enormi vi sono con passati contesti in cui pure sono maturati anche accordi sociali di notevole significato, ritiene necessario provare, fino in fondo, a cogliere l’occasione che abbiamo come Paese, per una reale modernizzazione che riattivi la mobilità sociale, già da troppo tempo bloccata.

Quanta delusione nel leggere, per esempio la proposta di trasformare, di fatto, la contrattazione collettiva in codici di auto condotta lasciati al buon cuore del primo che passa.  

Quanti strafalcioni (che però tali non sono in realtà) scritti e riproposti sul Codice deli Appalti, fingendo di non sapere che già il Codice attuale recepisce le Direttive Comunitarie e le adatta ad un Paese che ha una dimensione di impresa molto più bassa della media europea, ha il tasso di illegalità e lavoro nero più alto, ha un fenomeno di infiltrazioni criminale noto. E che trascura il motivo principale di rallentamento delle grandi opere che è stato legato, da un lato, al fallimento di molti player (che hanno fatta tanta finanza e poche costruzioni) e dall’altro alla mancata qualificazione delle stazioni appaltanti, che nel tempo hanno perso 15 mila tecnici.

Per di più – e noi siamo i primi che vogliamo semplificare – quanta leggerezza nel pensare che la soluzione allo sciopero della firma sia la proposta per cui il dolo (e ci mancherebbe altro) sia oggetto di rivalsa, ma la colpa grave (per incompetenza, per esempio) sia “scudata”.

E potrei continuare, infierendo sul fatto che si confondono i modelli commissariali (Genova, Expo) con le norme di accelerazione e facilitazione (l’alta velocità Napoli-Bari).

Sul lavoro nero, poi, la Task Force sembra non sapere che vi sia un fenomeno diffuso di caporalato e che sono già a disposizione strumenti rapidi, efficaci e digitali che andrebbero estesi e rafforzati (dalla Banca dati Appalti dell’INPS al Durc per Congruità) se solo vi fosse la giusta volontà politica. In un paese dove solo un’azienda su 10 mediamente è oggetto di controllo (o fiscale o previdenziale o sanitaria), per di più una volta ogni 7,5 anni (ed è ovviamente una media del pollo), avendo totalmente depotenziato sia le funzioni consulenziali che di presidio del territorio dei vari enti pubblici.

Confidare quindi su principi di autocertificazione o peggio di premialità (e quindi concorrenza sleale) vuol dire non conoscere il sistema delle PMI nei nostri settori e sarebbe uno schiaffo alle tante imprese serie che ci sono. O peggio, in pieno furore liberista, nascondere la polvere sotto il tappetto, per non dare un giudizio anche sulle responsabilità della classe imprenditoriale.

Ma mi fermo qui: il punto di fondo – inutile girarci intorno – è che nel documento Colao non si accetta l’idea di un pubblico che possa essere soggetto che opera direttamente (pensiamo alla Fibra ottica per fare solo un esempio e al ruolo di un’unica Open Fiber) e che comunque regola i diversi mercati (pensiamo a quello dei servizi alla persona e non solo), attrezzandosi (recuperando cioè visione, strumenti, assetti istituzionali, capacità di pianificazione e, anche, di collaborazione pubblico-privato, modello Mise che torna ad essere cabine di regia o una Fraunhofer italiana) e ricominciando, per esempio partendo da un impegno delle aziende ancora a partecipazione pubblica, a programmare nel breve e medio termine linee di sviluppo per il nostro Mezzogiorno.

Per questo non si assume mai, esplicitamente, la creazione di lavoro, attraverso una nuova strategia di sviluppo, come un obiettivo strategico che passi, positivamente, dal ruolo dei lavoratori dentro e fuori le aziende e le catene lunghe del valore (quando va bene possono al massimo essere soggetti di una formazione durante i periodi di non lavoro, tema in sé anche giusto… figuriamoci).

E quindi non si considera la democrazia economica (che per la nostra Costituzione vuol dire attuazione dell’articolo 39 e dell’articolo 46) come una grande occasione per tenere insieme un po’ più di giustizia sociale con trasparenza e modernizzazione.

Tutto ciò non ha minimamente cittadinanza nel contributo dei tecnici perché al sistema bancario, al sistema delle aziende, a chi ha sfruttato la logica del massimo ribasso e della via bassa allo sviluppo non viene imputa responsabilità alcuna.

Per questo ritengo che se i contributi della Task Force guidata dal Dott. Colao sono l’antipasto di un possibile confronto di merito, siamo nei guai.

E scrivo ciò consapevole di un vuoto politico che vi è, di un non detto (o di un non “possiamo dirlo”, che forse è peggio) che rischia di essere l’equivoco di fondo anche dentro l’attuale maggioranza di Governo. Maggioranza di governo che, se vuole veramente profonde riforme e una modernizzazione socialmente e ambientalmente orientata, prima o poi con questo punto politico dovrà fare i conti.

Alessandro Genovesi – Segretario Generale Fillea Cgil

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Una sinistra socialdemocratica? Questo, pur nella nostra autonomia, ci deve interrogare https://www.ildiariodellavoro.it/una-sinistra-socialdemocratica-questo-pur-nella-nostra-autonomia-ci-deve-interrogare/ Tue, 28 Apr 2020 22:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/una-sinistra-socialdemocratica-questo-pur-nella-nostra-autonomia-ci-deve-interrogare/ La lunga e articolata riflessione proposta in questi giorni dal responsabile economico del PD, il giovane economista Emanuele Felice, rappresenta un significativo passo avanti nel posizionamento della principale forza politica del centro sinistra, assumendo il binomio uguaglianza-sviluppo come asse strategico.

E’ una posizione interessante, largamente condivisibile che deve sempre di più orientare non solo l’azione amministrativa (nazionale e locale) ma, mi auguro, anche e soprattutto le strategie delle alleanze politiche oggi, la ricostruzione di un partito nel territorio, sui luoghi di lavoro, nelle periferie da cui è di fatto assente (la sinistra tutta purtroppo), domani.

Da ultimo di una covata di giovani militanti politici, non mi sfugge infatti che, senza assumere la questione sociale come l’altra faccia della questione democratica, senza assumere un chiaro riferimento degli interessi, passioni, soggettività che si vogliono rappresentare, in Italia e nel Mondo, difficilmente se potranno organizzare le “casematte” politiche (partiti o movimenti, importa il giusto) e difficilmente tornerebbe a volare il “Pipistrello di Lafontaine” (per citare il libro di Luigi Agostini pubblicato da Ediesse qualche anno fa).

Senza stare nel gorgo del governo democratico, nel giusto equilibrio globale-locale, tentando di organizzare tutti coloro che da “sfruttati” ambiscono a divenire “produttori” – per citare Bruno Trentin, produttori di ricchezza ma oggi anche di senso – non vi può essere esercito pronto a tornare a combattere.

Si a combattere. Combattere una guerra che da anni si va sviluppando in molti campi (economico finanziario, sociale, tecnologico e quindi politico) e che ha visto, man mano, occupare fisicamente e simbolicamente gli spazi lasciati liberi da una sinistra che, smarrita, non ha saputo difendere la propria autonomia di pensiero e di lettura del mondo (la “guerra di classe” non ha mai smesso di essere combattuta dai ricchi, anzi visto l’aumento della loro ricchezza, della loro possibilità di cura e di vita, si può dire che l’hanno anche condotta bene…).

Una sinistra cioè che assumesse e assuma la questione del cambio di modello produttivo, di modello sociale e quindi ambientale e politico come le leve intorno a cui organizzare un ruolo nuovo della “proprietà sociale”, dello Stato e dell’Unione Europea e quindi dell’antico scontro tra detentori di potere e aspiranti all’uguaglianza, facendo delle classi popolari – attraverso l’ascensore sociale – la nuova classe dirigente.

Detto questo (male e velocemente) una siffatta possibile strategia di rilancio di una visione “socialdemocratica” oggi del PD, domani di un più largo fronte democratico, civico e chiaramente ambientalista e socialista, non è tema che una grande forza del lavoro come la CGIL può snobbare.

Secondo il vecchio principio autonomi sempre, neutrali mai, la riflessione di Emanuele Felice interroga anche noi, particolarmente in questa fase da cui potremmo uscire, post Covid, da destra o da sinistra, sapendo anche correggere strategie politiche, sindacali e contrattuali alla luce delle fragilità emerse (rimando all’articolo di Gaetano Sateriale “Come coniugare ricostruzione e sviluppo” pubblicato qualche giorno fa proprio su ll Diario del Lavoro ).

Ovviamente mettendo ognuno a disposizione la propria parzialità, la propria storia – e anche le proprie contraddizioni – dentro però una visione generale degli interessi nazionali.

Che sono gli interessi di una grande operazione di redistribuzione economica, di saperi, di strumenti collettivi, da fare partendo dalla centralità del lavoro.

Il lavoro tutto, salariato e non, avente ancora una forte componente manuale o una sempre maggiore concentrazione di sapere, dentro i luoghi di lavoro e nel territorio, lungo le filiere lunghe che tecnologia e globalizzazione hanno prodotto.

Perché il tema del governo democratico dell’innovazione (ancor prima della sua quantità o del mero apporto alla crescita di valore aggiunto) è qualcosa che rimanda agli strumenti sindacali, certamente, ma ancor di più agli strumenti della politica e – aggiungo – anche al ruolo che l’organizzazione e l’autorganizzazione di spazi di democrazia economica dovrà avere sempre di più in un riassetto che vada oltre la mera “architettura istituzionale”.

Nuove e vecchie mutualità (dal collocamento alla formazione, dalla qualità del tempo libero all’accesso al welfare per la persona) per riconnettere sul territorio ciò che crisi e trasformazione disconnettono, per ridurre il rischio sociale insito in ogni “rivoluzione/riconversione” e offrire spazi di azione collettiva altrimenti difficile da agire.

Nuovo welfare pubblico intorno a cui ricostruire spazi, fisici e sociali, in grado di accompagnare la transizione demografica e il multiculturalismo (due facce della stessa medaglia) e verso cui piegare politiche economiche di nuova generazione (la mia amica Laura Pennacchi direbbe “Creazione di lavoro, attraverso il lavoro”).

Riconversione green delle città e delle produzioni e democratizzazione e controllo politico dell’enorme potenza di calcolo oggi a disposizione (e su cui la dicotomia è chiara: tecnologia di pochi o dell’umanità). Si consideri questo ultimo tema, per esempio, anche solo dalla prospettiva dell’accesso alle cure e ai prodotti della ricerca biotecnologica o farmaceutica…

E quindi il ruolo dello Stato Innovatore, non più mero agente regolatore degli spiriti animali, ma produttore, alimentatore diretto di innovazione al servizio di tutti.

Tutto questo declinato anche solo in termini di strategie contrattuali (per la riforma dell’organizzazione del lavoro e la redistribuzione di orario), di strategie salariali (“il principale anello a cui aggrapparsi” avrebbe detto Sergio Garavini), di aggressione dei colli di bottiglia che riducono la produttività di sistema (i veri colli di bottiglia in un paese dove si lavora tanto, si compete sul costo del lavoro e si investe poco, si chiamano credito, infrastrutture e banda ultra larga, costo energetico e logistico, giustizia celere) rappresenta un universo sterminato da esplorare.

E non è tema diverso da quello di una riforma fiscale basata realmente su progressività e tassazione della ricchezza, di una riforma significativa della Pubblica Amministrazione e, attraverso politiche industriali selettive, di una qualificazione dell’imprenditoria italiana (in parte stracciona, in parte sotto capitalizzata, in parte incapace di riconvertirsi).

Tutto questo ci pone, allora, la domanda delle domande: e noi come lavoratori, come Sindacato cosa siamo disposti a metterci, per dar vita ad un nuovo “Rinascimento del Lavoro” (che non a caso seguì quella nuova centralità dell’uomo, nota universalmente come “umanesimo”, che influenzò cultura ma anche istituzioni)?

Questo sottende, forse, anche lo stesso appello che alcuni ex Segretari Generali di CGIL, CISL e UIL, pongono al Governo, ma di fatto a tutti i protagonisti della vita politica, economica e sociale del Paese (si veda l’appello a firma di Benvenuto, Cofferati, Epifani, Pezzotta e altri sempre sul sito de Il Diario del Lavoro).

Ci piaccia o no, è da come sapremo dare tutti, ognuno per la propria parte, una risposta a questi quesiti che potremmo contribuire ad una nuova stagione politica ed economica nel paese e, magari, tramite questa, condizionare e facilitare una riflessione ed un’azione più ampia, in un’Europa e in un Mondo, mai oggi così piccolo ed interconnesso.

E se nel far questo dovesse rafforzarsi una organizzazione anche politica portatrice di tale sfida “egemonica”, come militante della CGIL ritengo sia utile proprio agli interessi che tutti i giorni proviamo a tutelare nei luoghi di lavoro e nel territorio e quindi – lo dico senza mezzi termini – da sostenere e alimentare.

Alessandro Genovesi – Segretario Generale della Fillea Cgil

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La priorità è aumentare i salari non deprimerli: no ai 9 euro come salario minimo legale https://www.ildiariodellavoro.it/la-priorita-e-aumentare-i-salari-non-deprimerli-no-ai-9-euro-come-salario-minimo-legale/ Tue, 28 Jan 2020 23:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/la-priorita-e-aumentare-i-salari-non-deprimerli-no-ai-9-euro-come-salario-minimo-legale/

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Vanno nella direzione giusta tutte le dichiarazioni di importanti esponenti del Governo che puntano ad un’accelerazione sugli investimenti pubblici così come su una più equa riforma previdenziale e fiscale, richieste non da oggi di Cgil, Cisl e Uil.

Attenzione, invece, all’introduzione di un salario minimo legale a cifra definita (i famosi 9 euro lordi comprensivi di ratei e Tfr di cui si parla insistentemente). Questa non è una scelta giusta: l’unico modo per garantire un salario minimo legale senza compromettere la capacità regolatoria dei Ccnl è quello di dare validità erga omnes ai Contratti Collettivi Nazionali sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, attuando l’articolo 39 della Costituzione, lasciando alle parti la definizione della “cifra minima”.

Troppi apprendisti stregoni o teorici da aula universitaria si stanno cimentando su un tema complesso come quello delle relazioni industriali, sottovalutando così come materialmente queste si strutturano (insomma per parlare di contrattazione, averla praticata aiuterebbe…)”.

Oggi la priorità è da un lato contrastare il fenomeno sempre più diffuso dei part-time involontari (che nessun salario orario affronta) con politiche occupazionali espansive e con incentivi alla crescita oraria e, soprattutto, dobbiamo alzare i salari a 18milioni di lavoratori (16 dei quali con salari già sopra i 9 euro lordi) agendo sia la leva fiscale, come si sta cominciando a fare, sia con una politica rivendicativa che porti ad aumenti ben più alti dell’attuale inflazione, recuperando il gap accumulato negli anni 2000 anche per responsabilità di sindacati e imprese.

Questo per facilitare una ripresa della domanda interna e per spingere le imprese ad innovare ed investire, affrontando così il tema della bassa produttività che, in Italia, non è imputabile ai lavoratori (siamo tra i Paesi con i più alti carichi di lavoro, come dimostra purtroppo anche l’alto numero di infortuni) ma alla scarsa innovazione di prodotto e processo.

Introdurre una cifra definita come salario minimo legale non solo porterebbe ad una maggiore rigidità nelle dinamiche relazionali in settori che sono tra loro diversi (e che produco valori aggiunti diversi), depotenziando la funzione industriale dello stesso Contratto nazionale di lavoro, ma rischia alla lunga di avere effetti opposti a quelli che molti si augurano, spingendo verso il basso i prossimi rinnovi salariali e comprimendo i salari reali, soprattutto di quei lavoratori più qualificati (la parte centrale della scala parametrale). Ben difficilmente infatti, una volta introdotto un salario minimo ed un indicatore di adeguamento successivo (inflazione ex post basata su Ipca depurato) si potrebbero ottenere aumenti salariali in grado, secondo prassi e specificità, di essere superiori a tali indicatori, redistribuendo così quella produttività di sistema che le nuove tecnologie “disseminano” lungo l’intera filiera (e non solo nella singola azienda).

Questo ovviamente a meno di non “scambiare” ad ogni rinnovo un pezzo di tutele normative (dal mercato del lavoro, agli orari, all’organizzazione del lavoro, agli appalti, ecc.) per un aumento salariale superiore all’inflazione.  
Insomma i Ccnl non sarebbero più autorità salariale: da strumento di aumento del potere d’acquisto rischiano di ridursi al mero recupero del potere d’acquisto (già perso prima essendo il calcolo inflativo ex post) che non sono la stessa cosa.

E noi, militanti dal cuore rosso pulsante, ragionieri dell’inflazione da recuperare e non agitatori sociali che, “facendo del salario l’anello a cui aggrapparsi, puntano a impadronirsi dell’organizzazione di impresa”, come ci insegnava Sergio Garavini.  

Nel migliore dei casi avremmo fornito all’impresa più spregiudicata, comunque, una pistola fumante (un’altra) da mostrare comunque al rappresentante dei lavoratori, condizionando il confronto. La capacità di aumento reale dei salari sarebbe per tanto delegata esclusivamente alla contrattazione di secondo livello che, in Italia, riguarda circa il 18% dei lavoratori (e così è da circa 15 anni, al di là di ogni sforzo o belle parole), vista la dimensione media di impresa, la concorrenza feroce al ribasso e il nanismo aziendale, caratteristiche più italiane che di altri paesi.

Sono infatti una positiva specificità italiana la cogenza di fatto di un Contratto nazionale di lavoro che assicura diritti e salari uguali a tutti i lavoratori di un comparto, da Aosta a Catania, e l’esistenza di un secondo livello, aziendale o territoriale che sia, al netto ovviamente dei contratti pirata contro cui – ritorna- rispondere con l’attuazione sempre dell’articolo 39 del Costituzione.

Il combinato disposto di spinte a territorializzare sempre di più la cogenza della contrattazione, come da ultimo proposto da diversi Governatori del Nord per scuola o sanità e da qualche associazione datoriale per i settori privati e il salario minimo legale a cifra definita sono, allora, tante bombe ad orologeria volte a far saltare un sistema di relazioni industriali, che certo è da innovare ulteriormente,  ma che in tutti questi anni ha retto, rappresentando una delle poche certezze in un Paese attraversato da mille spinte disgregatrici, come dimostra da ultimo il c.d. “Patto della Fabbrica”.

Chiudo con due riflessioni un po’ scoordinate tra loro (ma fino ad un certo punto). La prima: sarà forse un caso che nel momento di massimo “commissariamento democratico” del Paese da parte della cosiddetta Troika (fase Governo Monti), tra le indicazioni dateci da Bruxelles vi era il superamento dell’art. 18, la riduzione del ruolo dei Contratti Collettivi Nazionali e l’introduzione del salario minimo legale. E a me, la politica della Troika non mi è mai parsa schierata dalla parte dei lavoratori.

La seconda: per dirla all’antica maniera rimangono, in compenso, i buoni e vecchi rapporti di forza (così è  e così sempre sarà) che, però alla lunga, se esercitati come premessa ad ogni confronto e non come eccezione, certo non contribuiscono ad un buon sistema di relazioni industriali di cui il Paese avrebbe bisogno… Personalmente io sulla questione dei 9 euro continuerei a riflettere senza smanie, furbizie o subalternità…

Alessandro Genovesi – Segretario Generale della Fillea Cgil

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Togliamo ai ricchi (evasori) per dare ai poveri https://www.ildiariodellavoro.it/togliamo-ai-ricchi-evasori-per-dare-ai-poveri/ Mon, 24 Jun 2019 22:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/togliamo-ai-ricchi-evasori-per-dare-ai-poveri/ In Italia dobbiamo scegliere se essere Robin Hood o lo sceriffo di Nottingham.

Il primo, come si sa, toglieva ai ricchi per dare ai poveri. Il secondo toglieva alla povera gente a vantaggio dei forzieri del già benestante re Giovanni Senza Terra e della sua corte di spendaccioni.

In Italia, accanto a chi sta in nero, esistono circa due milioni di persone che, pur lavorando, sono povere: sono i lavoratori saltuari, sono le finte partite iva, sono i part-time involontari. Tutte persone che non arrivano a prendere 1000 euro nette a fine mese.

Sempre in Italia il 5% più ricco dei nostri concittadini ha un patrimonio pari a quello del 90% più povero. I quattordici italiani più ricchi hanno patrimoni per un totale di 107 miliardi.

I lavoratori poveri sono cresciuti, sia perché è aumentata la precarietà e il lavoro grigio, sia perché con la crisi anche parte degli operai specializzati e degli impiegati di prima fascia hanno visto il costo della vita crescere più dei loro stipendi o sono stati costretti a periodi più o meno lunghi di cassa integrazione.

Se questa è la fotografia reale, proporre un salario minimo legale fosse anche di 9 euro l’ora è sbagliato per molte ragioni e sarà alla lunga anche controproducente.

Prima di tutto perché colpirebbe al cuore ogni politica di rivendicazione salariale oltre il recupero inflattivo ex post, dando un’arma in più a quelle aziende che vogliono CCNL sempre meno autorità salariale e che al massimo sono disposte a parlare di produttività solo in casa propria (peccato che da noi i contratti nazionali coprono quasi il 90% dei lavoratori, mentre i contratti aziendali meno del 18%).

Perché condannerebbe il paese ad ulteriori stagioni di bassi salari e/o di appiattimento delle professionalità (se a “parametro 100” stai a 9 euro e vuoi dare aumenti superiori all’inflazione ex post – che ti comunicheranno – non puoi che prendere altri soldi dai livelli più alti, visto il sano principio che regola ogni trattativa per cui all’impresa interessa il costo contrattuale complessivo di ogni eventuale rinnovo). E quindi non permetterebbe alla fascia mediana dei lavoratori, colpiti dalla crisi, di riprendersi.

Perché non risolverebbe concretamente nessun problema a quei due milioni di lavoratori poveri. Perché le false P.iva (già incentivate dalla tassazione al 15%) non sarebbero ricomprese, perché invece che lavorare 12 ore a 6-7 euro a settimana è molto probabile che il datore possa far lavorare il malcapitato solo 8 ore settimanali a 9 euro. Perché pure se lavori 20 ore a settimana come prima (perché solo quel lavoro hai trovato) sempre a 800 euro lordi stai a fine mese.

Si vuole fare veramente una cosa seria? Di sinistra? Che si basi su una iniezione di giustizia sociale in un’Italia dove le disuguaglianze sono cresciute ed hanno alimentato ulteriormente la crisi economica, sociale e politica?

Si abbia il coraggio di essere Robin Hood fino in fondo: cioè di introdurre una tassa sulle grandi e grandissime ricchezze (qualche volta frutto anche di evasione fiscale tanto per non prenderci in giro) e di finalizzare questo “contributo di solidarietà” ad azzerare (o ridurre man mano che crescono i compensi) il cuneo fiscale a tutti coloro che prendono meno di 1500/1600 euro netti di stipendio.

Si valorizzerebbe il lavoro, si metterebbero soldi freschi in mano a chi li spenderà sicuramente (aiutando i consumi), e soprattutto si risponderebbe con una proposta forte e alternativa a chi va promettendo la flat tax.

Cioè la più micidiale operazione di sottrazione di risorse ai ceti popolari e medi a favore dei ceti alti, dei ricchi, dei ricchissimi.

Insomma a chi propone 9 euro (lordi) per propaganda e non risolverà nessun problema (anzi) e per fare ciò magari è disposto pure a bersi una ruberia sociale come la Flat Tax, dobbiamo rispondere che noi siamo i primi a voler alzare il potere d’acquisto dei lavoratori più poveri, ma lo vogliamo fare seriamente, strutturalmente, da un lato con una contrattazione collettiva, inclusiva e che punti a significativi aumenti salariali, dall’altra andando a prendere i soldi (che ci sono) a chi ce li ha, ha chi ha le mega ville sulla Costa, le Maserati in garage, i panfili a Porto Fino, che conosce gli indirizzi dei paradisi fiscali meglio delle vie di Roma o Milano. Insomma dobbiamo dire chiaramente che noi siamo per Robin Hood e non per lo Sceriffo di Nottingham, neanche quando si mette la calzamaglia verde e si traveste…

 

Alessandro Genovesi

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La funzione sociale ed economica del salario in un Paese come l’Italia: perché è meglio ridurre il cuneo fiscale ai salari più bassi https://www.ildiariodellavoro.it/la-funzione-sociale-ed-economica-del-salario-in-un-paese-come-litalia-perche-e-meglio-ridurre-il-cuneo-fiscale-ai-salari-piu-bassi/ Sun, 24 Mar 2019 23:00:00 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/la-funzione-sociale-ed-economica-del-salario-in-un-paese-come-litalia-perche-e-meglio-ridurre-il-cuneo-fiscale-ai-salari-piu-bassi/ Ho pensato molto sul possibile titolo di questo un contributo in materia di salario minimo legale. Alla fine ho ritenuto adeguato il titolo “La funzione sociale ed economica del salario in un Paese come l’Italia: perché è meglio ridurre il cuneo fiscale ai salari più bassi”. Perché ritengo che una discussione seria sull’opportunità di introdurre nel nostro Paese tale istituto debba partire da come realmente è l’Italia e da come vorremmo che diventasse nel mondo sempre più globale, competitivo ed interconnesso.

In questa sede non affronterò il tema dal punto di vista  giuridico, limitandomi a sottolineare il coordinamento che i padri costituenti hanno sempre ritenuto vi dovesse essere (si vedano i lavori della sottocommissione dell’Assemblea Costituente) tra l’articolo 36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” e ricordiamo che la retribuzione è anche quella differita, come il TFR e tutte le voci che lo compongono e lo fanno aumentare) e l’articolo 39 (“ i sindacati … possono … stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”).

Sin dall’inizio, cioè, i costituenti ritenevano che, a definire la proporzionalità di quantità e qualità della retribuzione, dovessero essere i CCNL, dotati di quella forza che il c.d. “erga omnes” avrebbe avuto a seguito dell’attuazione, per legge, del medesimo articolo 39.

Anche perché, in assenza di CCNL validi erga omnes, si porrebbe immediatamente il tema, anche in sede di eventuali contenziosi giurisdizionali, di come possa un salario orario minimo legale definito in cifra fissa rispondere all’art. 36 della Costituzione .

A meno che – ma allora rispetto alle riflessioni che proverò a fare più avanti, sarebbe ancora peggio – non accettare che i 9 euro possano essere riproporzionati in alto o in basso in base alla “qualità della prestazione”, proprio per far scudo all’art. 36  (sapendo che una definizione di “qualità della prestazione” è tema complesso, come dimostrano le varie sentenze,  essendo questa figlia delle professionalità, dell’anzianità/esperienza, di prestazioni in orario straordinario, flessibile, in reperibilità, in turno, ecc.). Si avrebbero allora tanti “salari minimi orari” definiti dal legislatore, paralleli in tutto e per tutto a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva (e allora che senso avrebbero delle brutte copie dei minimi?).

E si badi bene il tema non è la cifra in sé (fossero anche di più di 9 euro, cosa molto difficile), ne se essa si intenda al lordo o al netto dei contributi previdenziali e assicurativi, ma se proprio essa debba esserci.

E qui vengo alle mie riflessioni da “sindacalista di provincia”. Partendo da due punti: a cosa serve il salario e come è veramente l’Italia.

A cosa serve il salario. Il salario, ci insegnavano i nostri buoni maestri, svolge fondamentalmente cinque funzioni.

1)     Una funzione di riconoscimento dei diversi apporti che, per conoscenza, esperienza, passione e qualifiche, i lavoratori, diversi tra loro, danno.

2)     Una funzione di qualificazione elastica dell’occupazione sia espansiva verso il basso (la moderazione salariale in diversi settori o in diverse stagioni ha funzionato come scambio sia anti inflattivo sia per un aumento della base occupazionale) che verso l’alto (la concorrenza ad accaparrarsi i più bravi o le nuove figure, alzando i livelli salariali medi).

3)     Una funzione redistributiva classica: si produce ricchezza (e anche l’inflazione ne è un effetto) e quindi va redistribuita tra i fattori che l’hanno prodotta (profitti per il capitale, salario per il lavoratore).

4)     Una funzione di alimentazione della domanda: il mercato interno si amplia (come consumo, non per forza come produzione, dipende dai settori e da chi produce cosa, e dipende dalle politiche industriali e commerciali dei singoli Paesi) perché chi vuole o deve spendere può farlo in maniera maggiore (e questo avviene mettendo soldi in tasca sotto forma di salario, di servizi, di riduzioni/deduzioni fiscali, ma qui ci interessa il salario).

5)     Una funzione (e questo è ciò che nel dibattito si sta molto sottovalutando), infine, di incentivazione agli investimenti privati in capitale – materiale (macchine, innovazione di prodotto e processo) o immateriale (conoscenza, professionalità) – secondo il principio della “frusta salariale” di Sylos Labini.

Principio per cui, finché il costo del lavoro sarà basso l’impresa preferirà sfruttare il lavoro e non investire e “sfruttare” di più il capitale. Tradotto finché posso pagare poco l’impiegato o l’operaio perché comprare nuovi macchinari, perché aumentarne la produttività singola, individuale o aziendale, o complessiva (la produttività di sistema cioè investimenti in infrastrutture, energia, conoscenza, ecc.)? Solo salari più alti spingono l’impresa a ricercare maggiore valore aggiunto e maggiore produttività nell’organizzazione di impresa e in nuovi processi e prodotti.

E poiché tanto le professionalità (che evolvono, con una velocità maggiore rispetto al passato) sono diverse perché diverse sono le organizzazioni del lavoro; tanto i mercati e i fattori di processo sono diversi da settore a settore, da impresa ad impresa; tanto sono diversi i valori aggiunti nella catena produttiva, così come diversa  l’elasticità occupazionale, tanto sono diversi i livelli salariali perché fotografano la complessità.

Complessità, non tanto delle relazioni industriali, che certo possono e devono aprirsi ad innovazioni ed aggiornamenti (e in questa direzione vanno gli accordi interconfederali dal 2014 ad oggi, a dimostrazione di una capacità di adattamento che non andrebbe disprezzata, anzi andrebbe incoraggiata), ma dei settori produttivi.

Settori che cambiano e che tra globalizzazione (nel bene e nel male), esplosione tecnologica, personalizzazione del consumo, pongono semmai al sistema economico e sociale – e quindi al sistema della rappresentanza politica e delle relazione industriali – il tema della semplificazione degli strumenti, dell’adattabilità degli stessi (anche con campi nuovi da esplorare, per esempio la partecipazione in azienda), dell’attenzione ai diritti di nuova generazione (formazione, creatività, conciliazione), non certo il loro superamento.

 

Se queste sono le funzioni “classiche” del salario, esse sono ancor più necessarie nella loro azione verso l’alto e nel loro adattamento ai diversi contesti produttivi, in un Paese come l’Italia che (oggi) ha due caratteristiche che lo pongono fuori dal contesto europeo, o meglio dalla condizione media degli altri paesi Ue:

1)     la bassa produttività del sistema che – in un contesto di alta produttività del lavoro, come quello italiano, dove i lavoratori italiani lavorano mediamente di più degli altri – vuol dire bassa produttività tanto del sistema (tema infrastrutture, energia, credito, efficienza PP.AA.) che delle imprese. Vi sono cioè pochi investimenti privati in innovazione, nuovi macchinari, formazione del personale, ricerca e sviluppo applicata, ecc;

2)     la percentuale più alta di piccole e piccolissime imprese che fanno del nostro tessuto produttivo un unicum in Europa (con conseguente copertura dei contratti collettivi di secondo livello solo al 18% dei lavoratori italiani).

E poiché noi vogliamo un Paese che si collochi nella parte alta della divisione internazionale del lavoro, la frusta salariale, agendo in modi diversificati (cioè contestualizzati) ma sempre verso l’alto, è una condizione essenziale, anche e soprattutto a livello di contratto collettivo nazionale (vista la dimensione di impresa e la scarsa copertura del 2° livello) per non ritrovarci sempre di più a dover competere, invece, esclusivamente comprimendo il lavoro. Cioè riducendo i salari, aumentando ulteriormente la precarietà e i carichi di lavoro.

E’ per queste ragioni che in Italia l’eventuale introduzione del salario minimo per legge avrebbe un effetto micidiale: scoraggerebbe la leva salariale nazionale, perché essendo la stragrande maggioranza dei minimi contrattuali complessivi, cioè comprendenti welfare integrativo, ferie, mensilità aggiuntive, maggiorazioni vari, scatti di anzianità, ecc. ben sopra i 12/13 euro – per non citare i 22/26 lordi dei CCNL edilizia –  sarebbe un disincentivo al rinnovo dei CCNL per tutte le imprese che stanno sopra. Imprese che al massimo, bontà loro, avendo la “pistola fumante sul tavolo”, potrebbero in futuro concedere un po’ di welfare defiscalizzato (e “orientato” attraverso le “loro” piattaforme), concentrando la funzione del salario solo nei contesti aziendali più strutturati, già i più forti e per assurdo oggi con meno problemi di competitività, con evidenti effetti di mancata redistribuzione e minore aiuto alla domanda interna.

Si appiattirebbe la produttività (pochi lo dicono ma dove si applica solo il salario minimo legale, negli anni, è crollata la produttività complessiva e del lavoro, si veda rapporto Fondazione Dublino), livellando (la moneta cattiva alla lunga scaccia quella buona) contesti diversi che nessuna norma di legge può contemplare. Questo se assumiamo come dato di base la “complessità” sovra indicata.

Risultati: il primo – che potrebbe anche non interessare il Governo (l’attuale non ha proprio una visione della democrazia come complessità, come sintesi di interessi, su questo in continuità anche con i Governi passati) – la destrutturazione del sistema delle relazioni industriali e dei suoi protagonisti (CGIL, CISL, UIL, Associazioni datoriali) che perderebbero oggi la propria funzione a livello confederale e nazionale, residuando solo i rapporti di forza nelle singole aziende, con evidente definitiva corporativizzazione.

Il secondo – ben più importante – a fronte di una fiammata iniziale (l’innalzamento dei salari dei lavoratori di alcuni settori, principalmente concentrati nel terziario povero, sempre che non ricadano “nella trappola del lavoro sommerso”, altra specificità tutta italiana per quantità 4 volte superiore alla media Ue) una distruzione di ricchezza e benessere diffusi nel medio periodo, sia per minore redistribuzione sia per minori investimenti privati.

Per queste ragioni ritengo, coerentemente con la posizione già espressa in sede di audizione parlamentare e in sede di primo confronto (più di metodo che di merito, da quanto mi pare di capire) da CGIL, CISL e UIL  che sia “strategicamente sbagliato” anche per le associazioni datoriali (al netto di Confindustria che su questo è stata chiara anche in audizione parlamentare), anche solo accettare oggi la discussione sul “quanto” debba essere il salario minimo legale.

O se un minimo legale debba comunque accettarsi per i lavoratori non subordinati e (e la “e” di congiunzione è importante, visti gli sforzi di diversi CCNL di includere anche queste figure, si vedano i riders ma non solo) non coperti da contrattazione collettiva (esempio collaboratori e p.iva mono committenti),  facendolo diventare di fatto una “tariffa minima” (e si badi bene sono consapevole che non sarebbero la stessa cosa),  rendendo  più difficile portare avanti quella contrattazione inclusiva di cui la stessa Carta dei Diritti proposta dalla Cgil (e che mi auguro diventi presto patrimonio unitario) è emblema.

E per tanto la parola d’ordine non può che essere una sola, come già espresso unitariamente in Audizione da CGIL, CISL e UIL: legge sulla rappresentanza, attuativa dell’art. 39 Cost. con i minimi contrattuali complessivi che (come avviene oggi sulla falsariga degli appalti pubblici, con l’art. 30 c.4 del Codice), stabiliti esclusivamente da CCNL erga omnes, siano la “via italiana al salario minimo legale”.

UNA CONTRO PROPOSTA

Cosa diversa infine (non certo per importanza) è il tema dei lavoratori poveri, di tutti coloro che, anche per responsabilità diffuse, pur lavorando sono poveri perché prendono 5-6 euro l’ora o, pur prendendo di più all’ora, lavorano poco (pensiamo ai c.d. “part time involontari).

Al di là delle nostre responsabilità (anche come agenti contrattuali) ritengo che non si possa lasciare ad altri questo tema e per questo mi sento di proporre una specie di MOSSA DEL CAVALLO, DA COSTRUIRE CON ALLEANZE PRIMA E DA VERIFICARE, POI, AL TAVOLO CON IL GOVERNO.

Nelle prossime ore dobbiamo avanzare (unitariamente e se possibile anche con il consenso di Confindustria e delle altre associazioni datoriali) un’altra proposta che si “farebbe carico” anche dell’esigenza del Governo di parlare ad una parte del mondo del lavoro.

UNA PROPOSTA, a mio parere più giusta (e anche coerente con la stessa Costituzione, con l’art. 1 e sul suo essere “fondata sul lavoro”) potrebbe essere quella di una riduzione massiccia del cuneo fiscale e previdenziale, da riversare integralmente sulle buste paga più basse, partendo proprio da coloro che si collocano sotto la seconda mediana dei salari italiani (diciamo sotto i 1000/900 euro netti al mese, dati Istat 2018) o, se vogliamo salvare l’effetto cifra, sotto i 9 euro l’ora (e che non ricadrebbe nemmeno nella trappola degli incapienti).

Una riduzione del cuneo sul lavoro che all’inizio – lo dico espressamente, anche per una questione sia di saldi di finanza pubblica sia per una questione micro economica –  non deve essere per tutti, anche perché una scelta tale se generalizzata, proprio per quanto scritto sopra, avrebbe un effetto redistributivo e sulla domanda interna importante ma non attiverebbe la “frusta” per gli investimenti, pagando solo lo Stato (attraverso la fiscalità generale) l’aumento del netto in busta paga e non le aziende.

So che potrei essere accusato di non cogliere l’effetto “propaganda” di chi dirà alla colf (sempre che per loro si applichino veramente gli eventuali 9 euro e non ricadano nel lavoro nero) ti diamo di più di altri (il sindacato?) e lo facciamo pagare alle imprese, o peggio di essere un vecchio salarialista che non fa i conti con il fatto che nel mondo la regola del salario legale minimo è diffusa (tranne poi spiegarmi quel qualcuno se in un mondo con sindacati più deboli e salari più bassi sia più felice oggi rispetto a ieri…), ma io penso che le nostre peculiarità esistano, tanto come Paese che come modello produttivo.

Alla fine bisogna certo cambiare, certo innovarsi, ma anche saper conservare quello che di buono abbiamo. E tra il buono da conservare nel nostro Paese metto un sistema di relazioni industriali che ha retto, nella crisi economica come in quella democratica, alla delegittimazione dall’alto e dal basso.

Se su questo l’accusa è di essere ancora un figlio del ‘900, me la prendo. Anzi la rivendico con orgoglio, pronto a difendere questa posizione nelle piazze come nelle corti di giustizia. Fintanto che ci sarà un giudice a Berlino.

Alessandro Genovesi – Segretario Generale della Fillea Cgil

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