L’Europa sotto la scure dell’austerità. È il rischio che i sindacati europei, riuniti dalla Cgil in Corso d’Italia in occasione dell’evento “No all’austerità”, vogliono scongiurare. Un rischio che per i rappresentanti dei lavoratori si declina sotto due profili: economico e sociale.
Un nuovo rigore dei conti, spiegano le organizzazioni sindacali, sarebbe un suicidio per il vecchio continente. Una ricetta, che sa di ritorno al passato, che comporterebbe una riduzione degli investimenti pubblici e quindi anche una minore presenza di quelli privati, la diminuzione dei servizi, scuola, sanità, trasporti, con ripercussioni sull’esercizio dei diritti da parte dei cittadini europei, soprattutto per coloro che vivono nelle aree più interne o lontane dalle zone metropolitane. Non c’è chiarezza sulle traiettorie che la Commissione ha indicato ai singoli paesi all’interno del nuovo patto di stabilità e, sostengono i sindacati, manca uno spazio democratico di discussione per i parlamenti dei singoli paesi e le parti sociali. Il piano Draghi, recentemente presentato e oggetto di discussione nel corso dell’evento, offre spunti su come incrementare la produttività e affrontare i costi della transizione ecologica e digitale attraverso il debito comune. Ma, affermano, è totalmente carente sotto il profilo del pilastro sociale europeo che non deve essere accantonato o sminuito.
Sul versante politico, i piani di austerità sono il miglior combustibile per i movimenti populisti e le destre, già al potere in molti paesi. Un ritorno all’austerity vorrebbe dire rafforzare quella narrazione, cara alle destre, che si stava meglio prima. Uno sguardo nostalgico al passato, in grado solo di alimentare il disagio sociale senza dare poi risposte su come oltrepassare le politiche di rigore. Su come le scelte politiche possono indirizzare i destini economici e sociali di un paese è stato il fulcro degli interventi di Sophie Binet, segretaria generale del sindacato francese Cgt, e di Paul Nowak, segretario generale dell’inglese Tuc.
Per Binet “il nuovo governo di destra guidato da Barnier è frutto di una precisa scelta politica di Macron. Ovviamente – spiega – in Francia la Costituzione da facoltà al Presidente della Repubblica di creare un governo anche con le forze che non hanno vinto le elezioni. Ma Macron non ha concesso alla sinistra la possibilità di poter provare a creare un nuovo governo, affidandosi alla destra perché così ha la sicurezza che le sue politiche verranno portate avanti. Un governo, quello Barnier, molto debole, che si regge solo grazie all’appoggio del Rassemblement National”. Le politiche alle quali Binet si riferisce sono, prima fra tutte, “la riforma delle pensioni che ha rappresentato un duro colpo per i lavoratori e che noi vogliamo abolire. C’è poi in cantiere anche una riduzione di 40 miliardi della spesa destinata ai servizi pubblici sulla quale già ci siamo mobilitati, cercando di coinvolgere anche i deputati. È vero che in Francia è il governo a imporre il bilancio, ma i deputati possono comunque farlo cadere. Eppure – prosegue – ci sono 200 miliardi di euro, un terzo del bilancio dello stato, destinati a esenzioni fiscali per le imprese. Bisogna, inoltre, agire sulla leva fiscale. Non solo in Francia sono state tolte le tasse ai ricchi, ma nel cuore dell’Europa esistono veri e propri paradisi fiscali. Serve quindi un’armonizzazione fiscale. Le politiche di austerità – conclude – sono il carburante dell’estrema destra, che è un male di tutte le democrazie. La destra prospera sul mantra stavamo meglio prima. Denuncia in piazza con noi l’austerità, ma il suo discorso è sempre ammantato di falsità perché non dirà mai cosa fare con il capitale, perché la destra è amica del capitale”.
Di segno opposto le parole di Paul Nowak che spiega come “dopo 14 anni di governo conservatore, che con l’austerità ha ucciso la crescita con l’assenza di politiche industriali, impoverito i salari e ridotto i servizi, con il governo labourista il mondo del lavoro e il sindacato stanno tornando finalmente centrali. C’è una proposta di legge sull’occupazione che può essere epocale, per mettere al bando la precarietà e ridare dignità ai diritti individuali e sindacali”.
Anche il Belgio, attraverso il racconto di Thierry Bodson, presidente Fgtb, non sta vivendo un passaggio particolarmente felice. “Con la chiusura dello stabilimento Audi di Bruxelles -racconta – il tessuto industriale belga si è ulteriormente impoverito, visto che negli anni molti marchi se ne sono andati. In tutta Europa diminuisce il ruolo dell’industria nell’ economia, oggi al di sotto del 20%. È ovviamente cala anche l’occupazione, nonostante il costo del salario impatti tra l’11 e il 15%. Un percentuale non altissima – analizza Bodson – che smentisce la narrazione secondo la quale la manodopera europea sia più cara rispetto a quella di altre aree del mondo”. Chi invece sembra aver imboccato una strada diversa è la Spagna. Unai Sordo, segretario generale del Ccoo, spiega come “il paese abbia incrementato gli investimenti pubblici, raggiungendo il livello più alto in Europa, contrastato la precarietà, introdotto un salario minimo, che non ha avuto ripercussioni sulle retribuzioni, che anzi sono state aumentate per mitigare l’inflazione, con un significativo rafforzamento della domanda interna”.
Sul futuro dell’industria è intervenuta Judith Kirton-Darling, segretaria generale IndustriALL Europe. “La produzione industriale in Europa è in continuo declino. Ovviamente non è un processo uniforme, ma i grandi stati membri condividono questa tendenza. Con la chiusura di alcuni impianti in Germania della Volkswagen viene meno un pilastro delle relazioni industriali che è la partecipazione dei lavoratori. Ma anche altri comparti, come la siderurgia o la chimica, non se la passano bene. La crisi dell’auto – sostiene – è il frutto di una tempesta perfetta che combina più fattori. Da un lato abbiamo l’eredità di scelte sbagliate dei produttori che hanno portato a degli scandali, come il diesel gate. C’è stata poi anche una maggiore attenzione ai profitti piuttosto che agli investimenti, come fatto da Stellantis o da altri gruppi, e questo ci pone in una posizione di svantaggio sull’elettrico rispetto ai cinesi. Ci sono poi – continua – grandi trasformazioni, dall’automazione alla svolta green. L’unico modo che abbiamo di uscire da questa crisi è attraverso una politica industriale e un piano di investimenti comuni, ancorati a una condizionalità sociale. Abbiamo poco tempo per salvare un segmento centrale per tutto il mondo dell’industria. Se l’auto va male ne risente l’acciaio, la chimica, ma anche la dimensione commerciale, con ripercussioni negative per milioni di lavoratori”. Riguardo all’atteggiamento muscolare che il governo italiano ha avuto negli ultimi mesi con Tavares e Stellantis, il giudizio di Kirton-Darling è che “al momento non abbiamo bisogno di parole forti ma di azioni concrete. Quello che manca all’Italia è una politica di settore, che ovviamente deve guardare all’Europa, visto che gran parte dell’automotive italiana dipende dall’andamento dell’economia tedesca. Ma non si possono ritardare più gli investimenti o procrastinare una inevitabile transizione che ovviamente deve essere giusta, e non il fine ma il mezzo per un lavoro di qualità”.
Ma la necessità di un approccio integrato al livello europeo è stata ribadita anche da Jan Willem Goudriaan, segretario generale Epsu, la federazione europea dei sindacati dei servizi pubblici. “Servizi – sostiene Goudriaan – sempre più privatizzati, dove mancano risorse pubbliche e viene meno la supervisione durante gli appalti. Nel pubblico, inoltre, assistiamo anche al tentativo delle destre di comprimere o sopprimere alcuni diritti sindacali, come lo sciopero”. Una situazione che per Esther Lynch, segretaria generale del Ces, la Confederazione europea dei sindacati, richiede “iniziative di mobilitazione comuni. Il fatto che nella nuova commissione non ci sia un commissario con uno specifico riferimento al lavoro è un fatto che ci allarma. La nostra azione sarà quella di rivendicare un patto per un lavoro di qualità in tutti i settori del continente”.
Tommaso Nutarelli