Per ovvie ragioni di buon gusto, non farò qui la recensione del volume da me curato, Diritti fondamentali e regole del conflitto collettivo. Esperienze e prospettive, Giuffrè Milano 2015, vorrei, piuttosto, porre all’attenzione del lettore come questa importante opera collettanea (alla quale hanno contribuito tra i più prestigiosi studiosi di diritto del lavoro e relazioni industriali e di diritto costituzionale) rappresenti un’ulteriore testimonianza del ritrovato interesse per il tema del conflitto collettivo e lo sciopero. Tale interesse si può rinvenire in altri importanti studi, recentemente pubblicati (S. Sciarra, L’Europa e il lavoro. Solidarietà e conflitto in tempi di crisi, Laterza Bari, 2013; Hepple – Le Roux – Sciarra, Laws against strikes. The South African Experience in an international and Comparative Perspective, Angeli Milano 2015; L. Corazza, Il nuovo conflitto collettivo, Angeli Milano 2012; M. D’Aponte, Autorità e indipendenza della Commissione di garanzia nei conflitti sindacali, Giappichelli Torino, 2014; e, mi sia consentito, anche il mio Uno studio su Gino Giugni e il conflitto collettivo, Giappichelli Torino 2014).
Indubbiamente, il secolo XX, con le grandi conquiste derivanti dalla contrapposizione tra lavoratori e imprenditori della società industriale, è stato il secolo degli scioperi; probabilmente, il secolo XXI non lo sarà. Tuttavia, pur in un contesto segnato da recessioni internazionali e da precarizzazioni dei rapporti di lavoro e, dunque, in un momento oggettivamente difficile per le mobilitazioni dei lavoratori, il conflitto collettivo e lo sciopero rimangono espressioni insopprimibile e insostituibili di un sistema democratico di relazioni industriali. Senza tali elementi, riconosciuti dalla nostra Costituzione come necessari per la realizzazione dei propri obiettivi, non sarebbero possibili forme di aggregazione di interessi; non si avrebbe, in altre parole, il concetto stesso di interesse collettivo.
L’esigenza è oggi quella di adeguare il retaggio storico-ideologico che tradizionalmente ha caratterizzato tali espressioni dell’organizzazione dei lavoratori alla nuova complessità sociale. Una ricostruzione del conflitto e dello sciopero, tra Costituzione e ordinamento intersindacale, alla luce delle profonde trasformazioni riguardanti l’organizzazione produttiva, i regimi di impiego e le stesse regole di protezione sociale. Trasformazioni che, nella loro riconducibilità al ciclo economico (e le sue recessioni), qualche volta hanno comportato la necessità di rimettere in discussione taluni assunti ritenuti, tradizionalmente, inamovibili, nella prospettiva di coniugare le ragioni del conflitto con il sistema economico-produttivo che cambia. È proprio tale cambiamento che comporta l’esigenza di finalizzare il conflitto e lo sciopero alle nuove realtà di lavoro (e di non lavoro) e di ricercare nuovi possibili bilanciamenti tra interessi: dei lavoratori, dell’impresa, ed anche quelli sociali dei cittadini.
Gli studi appena citati confermano come, in una sorta di full harmonisation europea, si assista, se non ad un declino, ad una decisiva riduzione del conflitto nel settore industriale. Nell’emergenza economica lo sciopero rimane solo l’ultima ratio per la difesa occupazionale dei lavoratori, non più uno strumento di miglioramento delle condizioni di lavoro.
Fuori da queste ipotesi, il settore industriale risulta interessato dagli scioperi generali, di natura economico-politica, che coinvolgono tutte le categorie pubbliche e private, proclamati anche da organizzazioni sindacali dall’incerta rappresentanza. Nel nostro Paese, gli scioperi generali sono stati pochi nel 2015, ma ben 17 nel corso del 2014, contro i 7 del precedente 2013 (stando ai dati forniti dalla Commissione di garanzia sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali). Si tratta di cifre estremamente significative che dimostrano una, ormai eccessiva, facilità di ricorso a tale tipo di astensione, che finisce, giocoforza, per essere depotenziata nei suoi effetti (si pensi che negli anni ’70 da uno sciopero generale ben riuscito poteva derivarne anche una crisi di governo).
La perdita di centralità della fabbrica ha poi determinato uno spostamento del conflitto collettivo dal settore industriale a quello c.d. terziario e, soprattutto, nei servizi pubblici essenziali. Qui, con un’inversione di tendenza, le proclamazioni di sciopero conoscono una vera e propria impennata, aggirandosi intorno alle 2000 l’anno, anche se poi, concretamente, a seguito di revoche e interventi dell’Autorità di garanzia, ne vengono effettuate meno della metà.
Tuttavia, in tale contesto, il potere vulnerante del conflitto si manifesta in tutta la sua terziarizzazione (per usare una felice espressione richiamata da Aris Accornero negli anni ’80), riversando, cioè, i suoi effetti sugli utenti dei servizi e rischiando, di conseguenza, di alzare uno steccato tra cittadini e lavoratori. Peraltro, una situazione di patologica proliferazione di sigle sindacali che si contende l’arma dello sciopero, pone il sindacato più strutturato e rappresentativo in una condizione di oggettiva difficoltà a svolgere (come ha rilevato Mimmo Carrieri) una funzione di riaggregazione degli interessi, costringendolo, anzi, spesso ad inseguire, per non essere scavalcato da organizzazioni meno rappresentative, ma più spregiudicate.
In tale settore, un ruolo fondamentale in termini di civilizzazione del conflitto è stato ed è, indubbiamente, svolto dalla legge n.146 del 1990 e successive modificazioni, e dall’Autorità di garanzia che vigila sulla sua attuazione. Non si può, tuttavia, celare l’avvertita necessità di adeguare tale normativa alle attuali esigenze delle relazioni industriali, in termini di regole certe per il sistema di contrattazione collettiva e di verifica della rappresentatività sindacale. Si tratta di elementi indispensabili anche per un buon governo del conflitto.