“Tutti abbiamo bisogno della memoria. Tiene il lupo della insignificanza fuori della porta”, è una frase attribuita a Saul Bellow, ma sulla quale sarebbe bene che riflettesse in questo fino 2019 anche buona parte della nostra classe politica. La questione della insignificanza infatti bussa alla porta di una politica economica tratteggiata con prevalenti preoccupazioni sugli equilibri politici interni, fino a far dubitare che ci sia davvero la volontà di accorgersi della reale entità dei problemi che abbiamo di fronte e di provvedere di conseguenza. La risposta apapre invece fin troppo… timida, basti guardare alla tormentata vicenda della manovra di quest’anno stretta fra continui rimaneggiamenti e dal solito assalto alla diligenza parlamentare. Eppure l’Istat è stato chiaro: il campanello d’allarme ha suonato di nuovo. La produzione industriale arranca e rispetto all’inizio della crisi del 2008 essa è ancora “sotto” di oltre il 20%. E la questione delle crisi industriali non a caso tiene sempre più banco non solo a causa dei problemi di mercato ma anche della evoluzione tecnologica che non da tregua a tutti i settori economici.
Ecco perché la memoria può esserci di aiuto. Lo può fare per ricordare alla nostra esperienza sindacale alcuni tratti originali ed ineliminabili della nostra cultura e della nostra identità che si possono mettere a frutto nelle difficili circostanze nelle quali il sindacato è chiamato ad operare oggi.
Alcuni di essi li possiamo rintracciare in uno dei fondatori della Uil, Raffaele Vanni che ci ha lasciato di recente, ma che ha lasciato un segno importante nella storia della Uil.
Con lui possiamo ripercorrere alcuni tratti della nostra esperienza ai quali specialmente in questa fase storica è bene non rinunciare. Raffaele Vanni è stato un protagonista della nostra storia con una fedeltà alla causa sindacale che non può non essere apprezzata. Fin dagli inizi uno dei capisaldi del suo impegno è stata l’idea della indipendenza del sindacato da difendere ad ogni costo. E quando la scissione sindacale del 1948 si consumò e nacquero sia la Libera Cgil sotto la spinta della corrente sindacale cristiana guidata dalle Acli del tempo, sia la Fil di estrazione laica, Vanni comprese, come lui stesso ha testimoniato, che quella confederazione era in realtà un bluff che non si poteva accettare. La nascita della Fil nascondeva in realtà il disegno di traghettare nella futura Cisl tutti quei settori sindacali diversi dalla galassia democristiana che non accettavano l’egemonia comunista nel sindacato. Ma Vanni, Viglianesi e gli altri fondatori della Uil non volevano neppure sottostare alla egemonia del mondo cattolico. E rifiutarono perciò la prospettiva di puntare su di un bipolarismo sindacale speculare a quello dell’antagonismo politico fra Ovest ed Est che avrebbe caratterizzato la guerra fredda. Vanni e Viglianesi presero, come è noto, una via diversa, quella di preservare una cultura laica e socialista nel sindacato anche a costo di dover destreggiarsi fra le pressioni che i grandi sindacati occidentali, statunitensi in testa, esercitarono per evitare la presenza ingombrante e non compresa di una terza confederazione. Ma fu con quell’atto di coraggio che nacque la Uil ed al tempo stesso che non si perse la possibilità di utilizzare già negli anni della ricostruzione economica, industriale e morale dell’Italia lo strumento della unità di azione per arrivare a prime intese contrattuali ed a essenziali tutele economiche prima di tutto dei lavoratori. Quindi “indipendenza” intesa come autonomia propositiva dalle forze politiche che si ottiene costruendo una propria strategia sindacale, un proprio progetto che non poteva per quella Uil non andare oltre i compiti squisitamente rivendicativi per entrare nel territorio, fino ad allora squisitamente politico, delle riforme da fare.
Perché dunque il valore della indipendenza tanto cara ai nostri fondatori è ancora oggi utile alla causa sindacale? Perché non è un mezzo per isolarci, anche di fronte ad una vita politica tanto frammentata, ma può essere il punto di partenza per esercitare il diritto-dovere di affrontare da protagonisti in piena libertà il duplice problema della crescita economica (e quindi la capacità di opporsi al declino industriale) e della tenuta della coesione civile e sociale del Paese, sempre più spesso in bilico.
Va ricordato inoltre che Vanni fu coerente anche in serguito con la visione di un sindacato che non trova la sua legittimazione nella contrapposizione. Quando agli inizi degli anni ’70 il sogno unitario cresciuto negli anni della contestazione e dell’autunno caldo frenò, Vanni si mosse, come è noto, nella direzione della costituzione della Federazione Unitaria, ma (assieme a Lino Ravecca alla guida della componente socialdemocratica della Uil) non fu disponibile a sostenere l’ennesimo disegno di costituire un sindacato “democratico” opposto alla Cgil (e di conseguenza tomba di ogni forma di unità) e del quale Vito Scalia si fece capofila nella Cisl. Scalia uscì però sconfitto nella drammatica lotta interna a quella confederazione proprio anche perché privo di sponde “esterne”. E con lui dovettero battere in ritirata anche gli ispiratori politici di quella possibile svolta antistorica e conservatrice. Quindi non è mai stato presente nel nostro Dna un sindacato di contrapposizione ma, come poi si esprimerà la intera Uil, una confederazione che fa della autonomia e della partecipazione le sue caratteristiche di fondo per affrontare i cambiamenti economici e sociali.
Naturalmente il suo impegno si è confrontato , e si scontrato , con i problemi del passato dai quali è uscito talvolta vincitore e talvolta vinto. Ed è stato alterno anche il confronto con gli altri protagonisti della nostra storia comune ed in particolare con la componente socialista. Ma anche in questo caso emerge dalla lettura della esperienza sindacale di Vanni la consapevolezza che nel sindacato ci si può scontrare anche duramente ma senza che le divisioni diventino irreparabili. Il valore fondante dell’unità interna non può alla fine che prevalere sulle tentazioni alla diaspora od ai conflitti irrecuperabili. Non per nulla nel momento in cui Giorgio Benvenuto assunse la carica di Segretario Generale della Uil che era suo, Vanni non accettò l’ipotesi di spingere il confronto interno alla Uil verso una crisi che poteva essere devastante. Perché tale ragionamento poggiava e poggiava sempre sulla convinzione di fondo che le esigenze, le tutele e le attese dei lavoratori fanno premio su tutto, non possono mai essere tradite o disattese e, quindi, il sindacato deve comunque mantenere una capacità di azione e di mobilitazione al di là delle differenze che lo attraversano.
Emerge insomma da coloro che come Vanni hanno fondato e costruito la nostra Confederazione una identità che fa della esperienza sindacale un sistema di valori e di rapporti comunque solidali in grado di affrontare l’evoluzione dei tempi e dei processi politici ed economici, senza sudditanze e senza alcun timore di affrontare sfide difficili. Questa lezione del passato può ora essere preziosa per far avanzare una strategia che si opponga in piena autonomia culturale ai pericoli che abbiamo di fronte: il declino industriale, la frammentazione sociale, l’isolamento del mondo del lavoro nei riguardi della rivoluzione tecnologica e del peso preponderante della finanza internazionale.
In questo senso appare del tutto necessario non solo mantenere un saldo rapporto unitario fra le esperienze sindacali di Cgil, Cisl e Uil, ma anche propugnare un patto fra imprese e sindacati in grado di ridare priorità ai temi strategici del futuro del nostro Paese da inserire in un nuovo progetto-Paese. Noi siamo in grado di farlo proprio questo compito perché abbiamo nella nostra tradizione ( l’esperienza di Vanni e degli altri protagonisti della nostra storia ne fa fede) quegli strumenti culturali e ideali adatti ad agire con spirito libero ma anche con la capacità di assumerci delle responsabilità, proprio quando invece molto spesso nella scena politica prevale la propensione ai rinvii ed alla elusione di problemi “scomodi” quando invece sono ineludibili.
L’anno si chiude dunque con molte questioni irrisolte. Il 2020 si aprirà con la necessità di fare i conti con esse per non essere risucchiati ancor di più dalla sostanziale stagnazione economica nella quale siamo finiti nostro malgrado. Ma i nostri valori di riferimento possono essere ancora una volta la bussola per non smarrire la direzione giusta e aiutare questo Paese che ha grandi potenzialità ed una classe lavoratrice in grado di esprimere decisivi valori positivi ad invertire la rotta e recuperare il terreno perduto ed i ritardi accumulati.
Paolo Pirani – segretario generale Uiltec