1. Continuità e discontinuità nelle relazioni industriali italiane
Il 21 novembre 2012, Confindustria, Alleanza delle Cooperative Italiane, Rete Imprese Italia, ABI, ANIA, per le imprese, e CISL, UIL e UGL, per i lavoratori, hanno firmato un accordo sulle Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia. Si tratta di un Accordo programmatico (da ora AP 2012) che aggiunge un altro tassello all’intricata, complessa e altalenante evoluzione delle relazioni industriali italiane, caratterizzata ormai da una strutturale instabilità da almeno un decennio.
Ci sarebbe bisogno di un excursus storico-critico di questo lungo ciclo delle relazioni industriali italiane che comincia – simbolicamente – nel 1993, ma non è questa la sede per farlo. Possiamo però provare a leggere i tratti continui (e quelli discontinui) che caratterizzano la produzione politico-sindacale italiana del periodo 2009-2012, mettendo sotto la lente d’osservazione l’AP 2012 sovrapposto all’Accordo Quadro 2009 (AQ 2009) e all’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 (AI 2011).
C’è un elemento comune che caratterizza tutti questi accordi, è cioè che nessuno di questi è regolativo dell’insieme degli attori del sistema di relazioni industriali (perlomeno dell’insieme che conta); infatti, anche l’AP 2012 è un accordo che aggiunge e toglie qualcosa a ciascuno degli accordi precedenti. In primo luogo, sul versante sindacale, dobbiamo segnalare la rinnovata contrarietà di CGIL che non ha sottoscritto l’AP 2012 dopo la ritrovata unità sindacale del 2011 (AP 2012 che – a differenza dell’AI 2011 – perde CGIL ma acquisisce il consenso di UGL). Ancor una volta ci si trova dinanzi ad un accordo sulle regole della contrattazione collettiva che non vede il consenso di tutti gli attori sindacali, e alimenta i dubbi sulla capacità del sistema contrattuale di essere efficacemente regolato senza il consenso del sindacato più rappresentativo (in termini analoghi v. A. Amoretti, Produttività. L’accordo separato e qualche ragionamento, in Il Diario del Lavoro, 5.12.2012).
L’impressione, però, è che questi dubbi risentono dell’approccio culturale tipico della tradizione pluridecennale italiana che concepisce il sistema contrattuale incentrato sul livello nazionale, rispetto al quale il dissenso del sindacato più rappresentativo può effettivamente esercitare un’interdizione all’attività negoziale. Invece, dobbiamo registrare un fatto emblematico: finanche nel settore in cui è più marcata la maggiore rappresentatività del sindacato dissenziente (settore industriale metalmeccanico e FIOM-CGIL), il dissenso di questo sindacato non ha finora precluso la possibilità di firmare rinnovi del contratto nazionale “separati” (nel 2009 e nel 2012) e – direi addirittura – di escluderlo dal tavolo negoziale.
Naturalmente, il dissenso del sindacato più rappresentativo non può che incanalarsi inevitabilmente lungo il sentiero della conflittualità perché se un sindacato rappresentativo non riesce a far pesare la propria posizione attraverso la sola propria rappresentatività, non potrà che tentare la carta del conflitto collettivo. Tutto ciò rende inutile l’obiettivo dichiarato con la clausola di tregua prevista dall’AP 2012 che auspica un clima di rispetto degli accordi sottoscritti, cioè bassa conflittualità: infatti, il sindacato non firmatario finisce per essere svincolato da ogni obbligo di tregua.
Una soluzione importante verrebbe dall’attuazione delle regole sulla rappresentanza e la democrazia sindacale previste dall’AI 2011 e riconfermate nell’AP 2012 (v. punto 3); ma a oggi, anche oltre la data di scadenza fissata, risulta che il negoziato non sia stato neanche avviato, forse in attesa degli eventi (elezioni politiche e sentenze della Corte costituzionale sull’art. 19 St lav. che siano).
C’è però anche un’altra ragione che attenua i rischi di inefficacia del sistema di regole contrattuali: è vero che CGIL è il sindacato più rappresentativo su scala nazionale, ma ciò non lo qualifica sempre e necessariamente come il più rappresentativo su scala aziendale o territoriale. Ciò vuol dire che laddove si dovessero stipulare contratti decentrati (in deroga o sulla produttività) non è detto che il dissenso del sindacato più rappresentativo su scala nazionale sia effettivamente portatore di un conflitto collettivo influente in quell’azienda o territorio. A me sembra che sia proprio questa situazione di fatto, cioè questo spostamento del baricentro della contrattazione verso il livello decentrato a poter essere un antidoto anche al conflitto collettivo. Insomma, sarebbe a dire che laddove il sindacato dissenziente è forte e rappresentativo e capace di promuovere un conflitto efficace non si procederà alla contrattazione in deroga; laddove il sindacato dissenziente sarà debole, si potrà stipulare più facilmente un contratto in deroga.
Ebbene, proprio con riferimento alle regole sulla rappresentanza e la democrazia sindacale, va detto che l’AP 2012 concorre a generalizzare ciò che, invece, l’AI 2011 aveva previsto solo per il sistema Confindustriale. Infatti, le imprese cooperative, quelle del terziario e del credito-assicurazioni, hanno accettato le regole sulla misurazione della rappresentatività sindacale, al livello nazionale e per i contratti decentrati in deroga (come previsto dall’AI 2011). Peraltro, l’AP 2012 ha un’ambizione maggiore rispetto ai due accordi precedenti perché vi sono punti che non riguardano né la struttura contrattuale né con la rappresentanza sindacale: si pensi al punto 4 sulla Partecipazione dei lavoratori nell’impresa, al punto 5 sulla Formazione e occupabilità delle persone o al punto 6 su Mercato del lavoro e solidarietà intergenerazionale. Nondimeno, l’AP 2012 può essere letto come il compimento di una trilogia di accordi imperniati su alcuni principi: la decentralizzazione della contrattazione collettiva, il contenimento del costo del lavoro e l’aziendalizzazione della disciplina del lavoro.
In breve, il decentramento normativo è la costante del 2009, 2011 e 2012, perseguito con due tecniche differenti (le deroghe e le deleghe) (par. 2) per aziendalizzare la disciplina del lavoro (par. 3) e il costo del lavoro (par. 4). In questa prospettiva, non soltanto il recente Accordo, ma la trilogia di accordi sembra concepita per una medesima funzione (la crescita della produttività) seppur con tutti i limiti teorici e pratici di questa strategia politico-sindacale (par. 5).
2. Il contratto decentrato fra deroghe e deleghe
Anche nell’AP 2012 si ripete quanto scritto nell’AI 2011 riguardo al ruolo del contratto nazionale, e cioè che ha «la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori, ovunque impiegati nel territorio nazionale», mentre la contrattazione di secondo livello «opera per aumentare la produttività attraverso un migliore impiego dei fattori di produzione e dell’organizzazione del lavoro, correlando a tale aspetto la crescita delle retribuzioni dei lavoratori». Pertanto, anche nel sistema delle imprese cooperative, del credito-assicurazioni e del terziario-servizi (oltre che dell’artigianato) viene adottato il modello contrattuale implementato nel settore industriale, cioè vengono legittimate le «intese modificative delle norme contrattuali più mirate alle esigenze degli specifici contesti produttivi [che] possono anche rappresentare un’alternativa a processi di delocalizzazione, divenire un elemento importante di attrazione di nuovi investimenti anche all’estero, concorrere alla gestione di situazioni di crisi per la salvaguardia dell’occupazione, favorire lo sviluppo delle attività esistenti, lo start up di nuove imprese, il mantenimento della competitività, contribuendo così anche alla crescita territoriale e alla coesione sociale».
Si tratta di una generalizzazione e specificazione della derogabilità del contratto nazionale mediante la c.d. «clausola di uscita». Ho già tentato altrove di ricostruire la struttura della clausola di uscita (V. Bavaro, Azienda, Contratto e Sindacato, Cacucci, Bari, 2012) che si connota per essere basata su materie, finalità e procedure. Rispetto alle clausole di uscita inserite finora negli accordi e nei pochi contratti nazionali di categoria che l’hanno adottata, l’AP 2012 ha esplicitato che le deroghe al contratto nazionale possono essere previste anche come contropartita per evitare delocalizzazioni o avviare nuovi investimenti, prescindendo così da qualsiasi esigenza di “specializzazione” normativo-organizzativa.
Una novità di quest’accordo è l’importanza data anche all’altra tecnica attraverso la quale di può valorizzare il livello decentrato di contrattazione, cioè il sistema di “deleghe” di funzioni normative. Questa tecnica è nota al nostro sistema contrattuale ed è ampiamente utilizzata dai contratti nazionali, come anche dalle leggi che delegano la contrattazione collettiva. L’AP 2012 stabilisce che il contratto nazionale «deve perseguire la semplificazione normativa… e prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materie e delle modalità che possono incidere sulla produttività, quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro».
Si è scritto (C. Guglielmi, Sull’accordo interconfederale del 21 novembre 2012, in www.dirittisocialiecittadinanza.org, 22.11.2012) che l’AP 2012 vincolerebbe i contratti nazionali a potenziare il sistema delle deleghe al secondo livello imponendo ai contratti nazionali un «dovere»; posto che, in ogni caso, ai contratti nazionali spetta introdurre le semplificazioni normative e le deleghe, vero è appare forte e chiara la volontà di indirizzare il sistema in questa direzione. Mi sembra importante sottolineare questo aspetto perché la tecnica delle deleghe presuppone che il perimetro delle materie regolate dal contratto nazionale sia più ristretto rispetto all’attuale struttura normativa; a differenza di quanto accade con la tecnica delle deroghe che, invece, presuppongono che vi sia una regolazione nazionale da derogare. In altri termini, mentre per le deroghe basta introdurre una clausola di uscita ed il risultato è ottenuto, per le deleghe occorre ripensare la formulazione e la struttura attuale del contratto nazionale. Per certi versi si tratta di tecniche alternative; nondimeno, potenziando le deleghe e adottando le deroghe, il risultato è un notevole ridimensionamento del contratto nazionale.
3. La produttività nell’organizzazione aziendale del lavoro.
Ebbene, se assumiamo come ipotesi che l’aziendalizzazione rappresenta un paradigma teorico dello sviluppo economico-sociale contemporaneo, il decentramento normativo è uno degli effetti principali. Decentramento, in questo paradigma, significa attribuire alla “razionalità aziendale” la funzione di determinare il migliore e più produttivo assetto organizzativo dell’intera architettura sociale attraverso il migliore assetto organizzativo per la produttività aziendale.
In effetti, in un saggio abbastanza recente sul tema della produttività del lavoro, confezionato da un’economista appositamente per lettori giuristi, è spiegato bene che per la dottrina economica più in voga «la produttività oraria del lavoro tende a essere associata alla dimensione d’impresa» (L. Costabile, Produttività e lavoro. Glossario dell’economista per il giuslavorista, in Riv. Giur. Lav., 2009, I, p. 175 ss., in particolare p. 183); ciò si traduce, quindi, in una attenzione quasi ossessiva al profilo quantitativo del lavoro (V. Bavaro, Produttività e lavoro. Un itinerario sui tempi del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 2009, I, p. 213 ss.) a fronte di una notevole disattenzione per il profilo qualitativo (M. D’Onghia, Produttività e lavoro. Un itinerario sulla qualità del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 2009, I, p. 257 ss.).
In linea con questa corrente di pensiero, l’AP 2012 auspica per la contrattazione collettiva nazionale una «piena autonomia» dalla legge su materie che – direttamente o indirettamente – inciderebbero sulla produttività, fra cui «sistemi orari e loro distribuzione anche con modelli flessibili», «equivalenza delle mansioni e integrazione delle competenze», nonché «introduzione di nuove tecnologie» (punto 7). Peraltro, l’autonomia della contrattazione dalla legge si vorrebbe sostenere addirittura con una esplicita richiesta al Governo di apportare modifiche alla disciplina legale del lavoro dipendente proprio su queste materie, tenendo conto della volontà delle parti sociali manifestata mediante avvisi comuni.
A dire il vero, almeno secondo la più accreditata dottrina giuslavorista in materia (cfr. per tutti V. Leccese, La nuova disciplina dell’orario di lavoro nel d. lgs. n. 66/2003 come modificato dal d. lgs. n. 213/2004, in Lavoro e diritti, a cura di P. Curzio, Cacucci, Bari, 2006, p. 255), la flessibilità dell’orario di lavoro è già ampiamente garantita grazie a una nutrita serie di rinvii della legge alla contrattazione collettiva, seppure – in larga parte – si tratta di contratti nazionali. Ciò che accentua l’AP 2012 è la cessione di competenza normativa dei contratti nazionali (che già la ricevono dalla legge) ai contratti decentrati. In questo senso – seppur con riferimento solo alle quattro materie indicate nell’Accordo (orario, inquadramenti e mansioni, tecnologie e salario, come vedremo) – l’AP 2012 persegue il medesimo obiettivo dell’art. 8, legge n. 148/2011, cioè affidare direttamente alla contrattazione di prossimità la competenza normativa su alcune materie. Vero è che la devoluzione di competenze proveniente direttamente dalla legge non è equiparabile alla devoluzione voluta direttamente dalle parti sociali; tuttavia, a parte il fatto che non poche volte la legge italiana devolve competenze normative direttamente al contratto decentrato, possiamo dire che nelle quattro materie indicate nell’AP 2012 il risultato è lo stesso dell’art. 8.
Come dicevo prima, il discorso sulla produttività riguarda anche la qualità del lavoro.
L’AP 2012 riprende l’appello alla formazione come leva per l’occupabilità delle persone (punto 5); tuttavia si tratta ancora di riferimenti abbastanza vaghi e limitati all’utilizzo dei fondi interprofessionali, senza nulla dire sull’istituzione della formazione come “diritto soggettivo potestativo”, seppur da assicurare mediante istituti contrattuali. Ben più concreta, invece, è la sollecitazione a intervenire sugli inquadramenti professionali (questione certamente urgente) con la (presumibile) priorità attribuita alla disciplina aziendale e – questo è un punto essenziale – la “messa in mora” dell’art. 2013 c.c. riguardo al concetto di «equivalenza» delle mansioni, ben presidiato dalla giurisprudenza, nonostante i tentativi di imbrigliarne l’azione giudiziaria, com’è accaduto con la legge n. 183/10.
Quanto all’introduzione delle nuove tecnologie, il problema sembra dettato dalla necessità di adeguare l’interpretazione di alcune norme dello Statuto dei lavoratori relative al controllo dei lavoratori (per esempio l’art. 4 sui controlli a distanza). Certamente, la legge n. 300/70 merita un aggiornamento, almeno in questa parte. Desta comunque una certa sorpresa osservare che l’AP 2012 (come già aveva fatto l’art. 8, legge n. 148/2011) dedichino particolare attenzione a questo aspetto. A ben vedere, però, si tratta di una sorpresa ingenua perché si tratta di norme sul controllo dell’attività dei lavoratori, e non c’è impresa che non attribuisca al controllo dei lavoratori una valenza strategica. Quanto ciò, poi, sia utile alla crescita della produttività del lavoro e tutt’altra questione.
4. Produttività e retribuzione.
C’è poi la materia salariale. Con l’AQ 2009 fu simbolicamente suggellata la conclusione del trentennio di politica dei redditi antinflazionistica. In Italia, l’emblema di quel ciclo di relazioni industriali è stato il Protocollo del 1992-1993, con il superamento definitivo della scala mobile e l’introduzione del parametro di riferimento per la dinamica retributiva costituito dal differenziale tra inflazione reale e inflazione programmata. Richiamo questo precedente perché proprio nell’AP 2012 si dichiara esplicitamente che è «superato definitivamente, con il Protocollo del 1993, il sistema di indicizzazione dei salari». Se la politica dei redditi esigeva l’indicizzazione dei salari, appare evidente che un cambiamento nell’una si riflette con notevoli cambiamenti nell’altra, segnando un passaggio di fase per il sistema di relazioni industriali italiano.
L’AQ 2009 – dicevo – ha superato il sistema contrattuale salariale del 1993, sostituendo l’indice programmato d’inflazione con l’indice IPCA, depurato però dai prezzi dei beni energetici importati. Quell’accordo ha comportato due modificazioni profonde nella dinamica contrattuale salariale: da una parte, il salario torna a essere materia esclusivamente contrattuale senza più alcun rilievo formale per la politica economica nazionale, prerogativa del Governo. Non a caso questo sottoscrisse l’accordo del 2009 come datore di lavoro pubblico e non come Governo in quanto il controllo della dinamica salariale non è più “interesse generale”. Dall’altra parte, è evidente che privare l’indice di riferimento del tasso determinato dai beni energetici ipoteca il recupero del potere d’acquisto del salario. Comunque, un indice di riferimento per la contrattazione salariale comunque sussisteva.
L’AP 2012 ha attenuato – se non proprio eliminato (R. Leoni, Può bastare una tazzina di caffè per far crescere la produttività, 17 gennaio 2013, dattiloscritto) – l’effetto di questo parametro nella dinamica del recupero salariale stabilendo che il contratto nazionale, pur «avendo l’obiettivo mirato di tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni, deve rendere la dinamica degli effetti economici, definita entro i limiti fissati dai principi vigenti, coerente con le tendenze generali dell’economia, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e di andamenti specifici del settore». Non facendo menzione dell’indice IPCA, l’AP 2012 accentua la tendenza – già manifestatasi nelle recenti tornate contrattuali – a concordare recuperi dei minimi salariali senza alcun effettivo parametro di riferimento. Ciò che dovrebbe governare la dinamica salariale sarebbe la dinamica economica settoriale, le tendenze generali dell’economia, ecc.
Trattandosi di salario, è evidente che esso risente della dinamica di mercato come il prezzo di qualsiasi altra merce; il punto è che da decenni la merce “lavoro” ha avuto un prezzo sempre controllato affinché fosse garantita almeno la stabilità del “prezzo” reale (cioè conservare il potere d’acquisto dei salari). Ciò che l’AP 2012 fa è colpire ancora la specialità del mercato del lavoro per lasciarsi disciplinare prevalentemente dalla dinamica contrattuale.
Non solo. Ma «i contratti nazionali possono definire che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello, così da beneficiare anche di congrue e strutturali misure di detassazione e decontribuzione per il salario di produttività…». Dunque, una parte della retribuzione erogata per tutelare il potere d’acquisto può convertirsi in retribuzione di risultato. Ciò, vuol dire che, qualora la quota d’incremento minimo nazionale fosse collegata a indici di produttività concordati al livello di azienda, quel lavoratore godrebbe del vantaggio fiscale previsto per il salario di produttività anche per una quota di salario minimo; sarebbe a dire che, oltre al salario di produttività previsto dal contratto aziendale, anche la quota di salario nazionale verrebbe tassata al 10%.
Non si tratta neanche della detassazione al 10% dell’elemento di garanzia retributivo previsto dall’AQ 2009 (e da qualche contratto nazionale) perché l’EGR è una quota che si aggiunge al salario minimo nazionale. L’AP 2012, più semplicemente, prevede che una quota del salario minimo, funzionale a recuperare il potere d’acquisto, diviene invece salario di produttività qualora fosse così definito dai contratti aziendali. Insomma, anche il minimo contrattuale salariale, quello che dà sostanza alla retribuzione ex art. 36, 1° comma, Cost., può essere convertito in retribuzione variabile di produttività.
La preoccupazione, infatti, non è sull’eccessiva differenziazione dei salari (L. Corazza, La fata della produttività, in www.nelmerito.it, 23.11.2012) – che pure preoccupa quando dipende dal genere o dal territorio (Nord-Sud) – ma sul fatto che la differenza salariale riguarda il minimo retributivo. A tal proposito si potrebbe questionare sulla legittimità costituzionale di siffatta disciplina nella parte in cui differenzia il trattamento retributivo minimo in base a un indice (la produttività aziendale o territoriale) che, seppur rispondesse al principio costituzionale di proporzionalità, finisce certamente per proporzionare il minimo sufficiente a «garantire un’esistenza libera e dignitosa» a seconda della volontà contrattuale decentrata.
Ad ogni modo, ciò che è più importante mettere in evidenza è che con l’AP 2012 anche la retribuzione minima contrattuale diventa collettivamente disponibile (cfr. M. Barbieri, L’accordo sulla produttività: i contenuti e le riserve, in il Manifesto, 23.11.2012). Secondo quest’ultimo Accordo la quota di retribuzione minima vincolata a indici di produttività «resterà parte integrante dei trattamenti economici comuni per tutti i lavoratori rientranti nel settore di applicazione dei contratti nazionali laddove non vi fosse o venisse meno la contrattazione di secondo livello».
La domanda da porsi è: che succede nel caso in cui, al contrario, vi sia contrattazione decentrata sulla produttività. Nonostante la poca chiarezza del testo (T. Treu, Produttività, perché il no della Cgil non regge, in Europa, 23.11.2012), quel che è certo è che siamo in presenza di una clausola sulla variabilità del minimo retributivo fissato dal CCNL. Infatti, qualora un contratto aziendale accorpi la quota di minimo salariale nazionale collegato alla produttività, potrà accadere che, raggiunti gli obiettivi, ai lavoratori spetti il premio di produzione previsto dal contratto aziendale e la quota variabile del minimo retributivo nazionale; il tutto col vantaggio fiscale della tassazione al 10% (sempre che vi sia l’intervento legislativo in tal senso). In questo caso ci sarebbe un vantaggio per i lavoratori perché quella parte di minimo retributivo non sarebbe tassata secondo le aliquote Irpef ma a una soglia più bassa.
Il problema si pone nel caso in cui non si raggiungano gli obiettivi di produttività: che succede della quota variabile del minimo retributivo nazionale? Nulla esclude che questa somma potrebbe non essere dovuta (cioè essere persa dai lavoratori) al pari del premio aziendale (cfr. anche G. Ciccarone, Questo non è un accordo per la produttività, www.nelmerito.com, 14 dicembre 2012).
Quindi, è vero che senza un contratto decentrato sulla produttività il minimo retributivo previsto dal CCNL dovrà essere erogato integralmente; quello che non si può escludere, almeno per come è formulata la clausola, è che questa quota di minimo retributivo possa essere collegata al premio di produzione, nel bene e nel male. In questo senso, l’AP 2012 finisce per aver istituito una sorta di clausola di uscita dal minimo retributivo previsto dal CCNL.
A dire il vero, già dopo l’AI 2011 avevo avuto occasione di segnalare che l’assenza di un’esplicita esclusione della materia retributiva dal campo delle deroghe aziendali (come invece hanno fatto successivamente alcuni contratti nazionali) lasciava aperta la possibilità che questa materia non fosse esclusa da quelle derogabili. Oggi, quella possibilità diventa più pregnante con una tecnica che rende fungibile la retribuzione minima e la retribuzione di produttività.
Ci potrebbe essere un’altra interpretazione: cioè, la quota salariale dell’incremento dei minimi contrattuali sarebbe collegata alla produttività soltanto per avere il vantaggio fiscale in caso di raggiungimento degli obiettivi di produttività definiti al livello decentrato senza essere messa in discussione in caso di mancata produttività. Questa interpretazione lascia impregiudicato il minimo salariale, pur essendo esposta alla critica di chi ritiene che il raggiungimento della produttività sia collegato (e incentivato) solo attraverso la leva fiscale seguendo la tesi secondo la quale l’aspirazione a un salario netto più alto darebbe la giusta motivazione ai lavoratori per essere più produttivi. Questa sarebbe la banalizzazione di una questione seria – qual è la bassa produttività del sistema produttivo italiano – che deriva dalla pervicace idea secondo la quale la leva della produttività sarebbe la contrattazione collettiva.
5. La produttività come finalità della contrattazione.
Un’ultima annotazione riguarda l’impianto dell’AP 2012 caratterizzato dalla finalità di incrementare la produttività.
Le Parti firmatarie «considerano la contrattazione collettiva uno strumento utile per perseguire la crescita della produttività in Italia. Attraverso la contrattazione collettiva è infatti possibile definire modalità e strumenti per perseguire e raggiungere obiettivi di miglioramento della produttività contemperando le ragioni delle imprese e delle persone che vi lavorano». Si tratta di una finalità che non è nuova nel panorama delle relazioni industriali italiane dell’ultimo quindicennio (A. Lassandari, Contrattazione collettiva e produttività: cronaca di evocazioni (ripetute) e incontri (mancati), in Riv. Giur. Lav., 2009, I. p. 299 ss.) e che più volte ha visto intrecciare provvedimenti dell’autonomia collettiva a provvedimenti legislativi, talvolta finalizzati espressamente all’incremento di produttività (F. M. Putaturo Donati, Misure sperimentali per l’incremento della produttività del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 2009, I, p. 335 ss.).
Effettivamente il problema della bassa produttività dell’economia italiana è emerso a partire dalla metà degli anni ’90. Non a caso – a mio parere – proprio a partire da quel periodo inizia un ciclo politico-conomico impostato sul trasferimento del rischio economico della bassa produttività dall’impresa al lavoro. Per quel che riguarda la disciplina del lavoro, infatti, non è un caso che è proprio a partire dalla seconda metà degli anni ’90 si accentua il carattere flessibile della legislazione sul lavoro, legislazione che tende a fare della flessibilità una leva per ridurre il costo del lavoro, come risposta al decremento dell’indice di produttività. Anche nell’AP 2012 si dichiara che «la bassa crescita della produttività comporta un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto – CLUP – e, quindi, una perdita di competitività».
Insomma, sembra che il problema principale non sia tanto la decrescita della produttività quanto la crescita del CLUP. Eppure, è ormai assolutamente acclarato che «la produttività oraria del lavoro sarà tanto maggiore quanto maggiori sono: l’intensità capitalistica del processo produttivo, ossia l’attrezzatura di capitale messa a disposizione di ciascun lavoratore per assisterlo nel processo produttivo; la produttività totale dei fattori» (L. Costabile, op. cit., p. 183). Per dirla in breve, è incontrovertibile nella dottrina economica che l’indice di produttività al livello d’impresa è in proporzione diretta all’investimento in beni capitali come presupposto per l’innovazione di processo e – ancor più importante – di prodotto.
Invece, anche nell’AP 2012, la crescita della produttività viene contrabbandata come un obiettivo perseguibile attraverso la riduzione del costo del lavoro: non solo riduzione del costo organizzativo ma oggi anche – ecco la novità dell’AP 2012 – riduzione del salario, come ho già detto. In ogni caso, senza interventi strutturali sui beni capitali, le misure di detassazione del salario di produttività rischiano di essere inefficaci (C. Lucifora e F. Origo, Accordo sulla produttività: istruzioni per l’uso, in www.lavoce.info, 7.12.2012). Peraltro, queste misure presuppongono che il rendimento produttivo derivi da una sorta di abnegazione volontaristica dei lavoratori i quali, allettati da maggiori guadagni, dovrebbero lavorare di più e meglio (cfr. l’Appello per un patto utile, primi firmatari, N. Acocella, R. Leoni, P. Pini, L. Tronti, 20 novembre 2011, in www.sbilanciamoci.info).
È del tutto lecito che la discussione pubblica metta a confronto diverse opzioni politiche e, su questa base, si possa alimentare un dibattito finalizzato al comune obiettivo di innescare processi virtuosi di uscita da una crisi che, in Italia, dura da troppi anni, molti di più di quelli “ufficiali”. Nondimeno, quando le politiche pubbliche persistono nell’adottare soluzioni che dimostrano in modo inconfutabile che sono inefficaci rispetto all’obiettivo, anche il dibattito pubblico rischia di essere inutile a causa di un furore ideologico, dannoso eppur egemone.
di Vincenzo Bavaro – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro