Durante il covid li abbiamo definiti eroi e abbiamo affermato che la sanità pubblica era un bene al quale non potevamo rinunciare. Parole alle quali secondo Filippo Anelli, presidente Fnomceo, la Federazione nazionale dei medici, chirurghi e odontoiatri, non sono seguiti i fatti. La sanità pubblica, afferma Anelli, versa in gravi difficoltà, tra mancata pianificazione, medici poco pagati, posti letto carenti e una governance da riformare.
Anelli come sta la nostra sanità pubblica?
Per capire lo stato di salute del Sistema sanitario nazionale bisogna partire da alcuni dati. Il primo è che 4,5 milioni di cittadini, per capirci l’intera Emilia Romagna, rinunciano alle cure. L’altro è che mediamente il 50% degli italiani si affidano al privato per una prestazione specialistica. Nel 2022 lo stato ha speso per il personale con un contratto precario, che ha visto un incremento del 74%, 3,5 miliardi di euro, mentre nel 2023 solo 2,2 miliardi per il personale a tempo indeterminato sono stati aggiunti in finanziaria. Davanti a questi numeri non si può non cogliere la difficoltà che sta vivendo la sanità e come si sta andando verso un cambio di modello, rinunciando all’universalismo e a un accesso privo di discriminazioni alle cure.
Quali sono le criticità del personale medico?
Per quanto riguarda i medici i nodi sono sostanzialmente due. Il primo è di programmazione. Sapevamo che nel 2022-2023 ci sarebbe stata quella che viene definita gobba pensionistica, con un’uscita pari al 40%, e che quindi almeno 10 anni prima bisognava intervenire. Ma abbiamo formato 9-10mila medici a fronte di 15mila colleghi andati in pensione. Ora nel 2030 ci ritroveremo con il problema opposto, ossia con un eccesso di professionisti che non sapremo dove collocare per i pochi posti letto e che andranno all’estero. A fronte di 7mila pensionamenti stiamo formando 20mila medici. E poi c’è il tema del salario. I numeri del Censis parlano di una perdita del 6% del potere di acquisto.
I posti letto sono sufficienti?
In Italia ci sono 3,1 posti letto per ogni mille abitanti, il tasso più basso in Europa. In alcune regioni del sud si arriva anche al 2,7 o al 2,5. E meno letti vuol dire anche meno personale da poter impiegare.
In che situazione sono chiamati a operare i medici di famiglia?
Noi ancora abbiamo un modello che si richiama agli inizi del ‘900 e che durante la pandemia ha dimostrato tutta la sua fragilità. I medici di famiglia sono lasciati soli. Serve una riforma della medicina territoriale, ripensando l’operato dei medici di famiglia in un lavoro di equipe, con infermieri, fisioterapisti ed altre figure professionali.
Che impatto potrà avere l’autonomia differenziata?
L’autonomia differenziata è legge e a questo ci dobbiamo adeguare. Quello che abbiamo sollevato al governo Meloni è che la delega sulle professioni non può essere totalmente in mano alle regioni, come dimostra una giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale. E su questo abbiamo registrato l’apertura dell’esecutivo. Bisogna poi capire come la devolution della sanità impatterà sulle diseguaglianze. Crediamo che il ministero della Salute non debba essere semplicemente un arbitro, ma parte attiva per rimuoverle. I 600 milioni stanziati dal governo Draghi erano un timido segnale ma importante che la maggioranza deve portare avanti e consolidare.
Come valuta l’intervento del governo per ridurre le liste di attesa?
Il decreto individua due corrette aree di intervento. È importante rafforzare gli organici, anche se le risorse non sono molte e soprattutto la procedura burocratica è molto lunga e complessa. Chiediamo che si proceda verso una semplificazione. Anche il tema della defiscalizzazione è centrale, per rendere più attrattivo il lavoro. Ma ci scontriamo con un collo di bottiglia dettato dal tetto di spesa presente nel contratto.
Quali interventi servono in prospettiva?
Occorre partire dalla governance. Il sistema non può unicamente muoversi e ragionare secondo una logica di bilancio dettata dalla ragioneria dello stato. Servono persone che sappiano capire i bisogni di cura e le necessità dei cittadini coinvolgendoli. Le risorse devono dunque essere allocate in modo mirato. Poi dobbiamo chiederci se i governi siano più interessati a mettere dei soldi sugli eco bonus o sulla sanità. Investire sul SSN non vuol dire solo investire sul diritto alla salute ma anche su un sistema che genera ricchezza. Per ogni euro speso il ritorno è quasi doppio, 1,82 euro.
Tommaso Nutarelli