Ancora nelle nebbie la trattativa tra le parti sociali sollecitata dal premier Mario Monti alle parti sociali sul tema della produttività. In settimana ci sono state le prime riunioni tecniche e i primi incontri politici, ma è ancora troppo presto perché escano delle novità. Per il momento ci sono solo suggestioni, desideri, ritrosie.
Si parla molto di contrattazione, forse anche un po’ a sproposito. Non perché la contrattazione non entri nel discorso della produttività, quanto perché almeno su questo punto tutti dovrebbero essere d’accordo. Da tempo si è infatti assodato che il recupero di produttività deve avvenire al secondo livello di contrattazione e che in quella sede deve essere ripartita una parte delle risorse liberate. Ma forse ribadire il concetto può non essere inutile.
Il punto è che, almeno per l’industria, sono alla scadenza tutti o quasi i contratti nazionali, e di questi dunque si dovrebbe parlare, mentre lo scambio tra produttività e salario deve avvenire in sede aziendale o territoriale. Ma anche sul piano della contrattazione nazionale emergono delle novità, perché si è ripreso a parlare insistentemente di una moratoria che faccia scivolare le scadenze almeno per un anno. C’è anche chi ipotizza che per superare quest’anno di crisi possa essere data una certa somma ai lavoratori e che il governo intervenga defiscalizzando questa elargizione. Un’idea che non sembra avere solide basi per diversi motivi: perché il governo non sembra disposto a impegnare troppe risorse; perché la stagione è già avviata, per alcuni il contratto è già stato rinnovato, i cartai, o è in via di rinnovo, come per i chimici farmaceutici; perché in realtà il rinnovo dei contratti dovrebbe essere il momento più rilevante, anche nel livello nazionale, per aumentare la produttività delle imprese. Tutto ciò è vero, ma di moratoria si parla e anche spesso.
Alla base di questi discorsi i sindacati, ma lo stesso ha fatto Monti fin dalle prime battute, hanno posto l’accordo del giugno del 2011 sulla contrattazione, la rappresentanza e la rappresentatività tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Accordo che non è mai stato applicato, almeno per la parte relativa alla rappresentatività, e quindi, a cascata, anche per le altre parti. Si tratterebbe quindi di applicare quell’intesa, dando all’Inps e al Cnel le disposizioni per procedere alla contabilizzazione delle iscrizioni ai diversi sindacati e dei risultati delle elezioni delle Rsu, dove si fanno. Operazione facile, sembrerebbe, non fatta finora solo a causa della crisi economica che ha distolto l’attenzione delle parti sociali. Ma sembra invece che alla base di questa mancata applicazione ci sia qualche ripensamento, tanto è vero che da alcune organizzazioni sindacali è stato manifestata una ritrosia a procedere speditamente su questa strada. Il che complicherebbe anche il discorso contrattuale, perché da altra parte sindacale invece l’applicazione dell’accordo sulla rappresentatività è considerata conditio sine qua non per procedere su tutto il discorso della produttività.
Grava su tutto il negoziato poi il silenzio del governo. Monti ha incaricato il ministro dello Sviluppo economico di seguire la vertenza, ma finora Corrado Passera non ha detto nulla e si è parlato esclusivamente di produttività da lavoro. Ma, se l’obiettivo è quello di aumentare la competitività della nostra produzione bisogna ragionare su tutti i fattori che influiscono, sul peso della burocrazia, sulla carenza delle infrastrutture, sull’onerosità della fiscalità, sul cuneo fiscale e contributivo che grava sul costo del lavoro. Tutti problemi che dovrebbero vedere in prima linea proprio il governo, che invece sembra voglia solo aspettare l’accordo delle parti sociali sulla cosa le riguarda più da vicino. Un nodo che deve essere sciolto, se davvero si vuole arrivare a un risultato concreto.
Ce ne è abbastanza per temere che anche questo negoziato sulla produttività finisca nel nulla, o proprio non portando ad alcun accordo o producendo un’intesa ma molto generica, basata su principi generali, in quanto tale di nessuna validità pratica al fine di aumentare la produttività del made in Italy. Un peccato, perché nessuno ignora che è proprio questo il problema principale del nostro paese. L’Italia è la seconda esportatrice dell’Europa, ha una posizione di forza che mantiene nonostante i gravi oneri che ne appesantiscono le ali. Se questi pesi fossero non dico eliminati, ma almeno ridotti potrebbe prendere uno slancio che potrebbe riuscire a far ritrovare la via dello sviluppo. Non sarebbe azione di poco conto. Ed è vero che alcune di queste azioni sono assai difficili da realizzare perché chiedono delle risorse che al momento non sono disponibili, ma ce ne sono altre che invece potrebbero essere attuate senza coinvolgere il bilancio dello stato, forse non a casto zero, ma con costi molto limitati. Perché allora non provarci con uno sforzo corale che coinvolga tutti? Fare le riforme addossando tutto il peso su pochi (e sempre gli stessi) può essere facile, ma certo non sarebbe equo. Si attribuisce a Monti la volontà di eliminare qualsiasi automatismo dalla dinamica salariale: ma questo significherebbe che il peso della crisi passerebbe tutto sulle spalle dei lavoratori, che vedrebbero decrescere il loro salario in presenza di una crisi, anche se, come quella che stiamo vivendo, non certo generata da loro errori. Questa non sarebbe atto di giustizia, di equità. Un’operazione siffatta non risponderebbe al dettato della costituzione italiana che ricorda come la nostra repubblica sia fondata sul lavoro.
Massimo Mascini