L’Italia è il secondo paese industriale d’Europa, con una base manifatturiera a ridosso della grande Germania. Lo sarà ancora fra dieci anni, quando l’industria sarà soprattutto ecologicamente sostenibile e, insieme, ecologicamente orientata? Dove saranno le nostre fabbriche nell’era delle emissioni zero, che già, di fatto, si sta aprendo per le industrie? Non bene, rischiamo di scivolare all’indietro, magari le idee ci sono, ma le risorse no e la corsa a salire sul toboga del clean-tech, quel percorso delle tecnologie pulite, da cui non si può più prescindere, è già iniziata. Forse, ancor più del Mes, del debito pubblico, della ripartenza, in generale, della crescita, la vera emergenza Italia è qui. E, ancora una volta, l’unica via per uscirne passa per l’Europa. Come per la pandemia. Anzi, con gli stessi strumenti usati per la pandemia.
In questo caso, però, per la politica industriale. Fa un po’ effetto rispolverare, dopo un lungo oblio, queste due parole – politica e industria – che una pregiudiziale liberista tiene rigorosamente separate dagli anni ’80, negando – dopo la sbornia di programmazione dei decenni precedenti – che il governo possa sostituirsi al mercato nell’indirizzare gli investimenti, nello scegliere i settori su cui puntare, nell’aiutare apertamente le industrie più promettenti. I grandi concorrenti dell’Europa lo hanno sempre fatto. La Cina esplicitamente, sfrontatamente, senza remore. L’America, a modo suo, come sempre un po’ sotto coperta, con la gestione di imponenti commesse pubbliche. Adesso, però, con il lancio da parte di Biden di un piano, che vale 340 miliardi di euro, di sussidi alle industrie verdi, la politica industriale americana ha preso contorni precisi e imponenti. E l’Europa, che alla politica industriale ha sempre girato intorno, preoccupata di salvare la concorrenza, deve rispondere.
Lo può fare senza troppi scossoni all’edificio europeo come è oggi: allentare i limiti agli aiuti di Stato e delegare, così, ai singoli paesi il compito di indirizzare risorse e investimenti verso l’economia sostenibile del futuro: chi più può, più farà. O ci può provare con un altro grande balzo in avanti, sulla via dell’integrazione europea, come quello del NextGenEu, il grande piano di rilancio dell’economia dopo la pandemia, finanziato tutti insieme con il debito comune, anche se, per pudore, nessuno chiamerà i debiti Eurobond.
Ursula von der Leyen ha coraggiosamente scelto la seconda strada. Si è presentata a Davos, annunciando per l’estate un piano che prevede la costituzione di un Fondo Sovrano ,finanziato da titoli sottoscritti da tutti i paesi insieme, che promuova e favorisca le produzioni europee di chip, batterie, pale e pannelli, insomma, l’armamentario industriale di quella che la stessa von der Leyen definisce l’era dello “zero netto” (di emissioni). “Essenziale – ha commentato il commissario italiano, Paolo Gentiloni – per assicurare la competitività europea, senza minare il mercato interno”. Ovvero, senza allargare le fratture fra i paesi che hanno più risorse da spendere per aiutare le proprie imprese e chi conta gli spiccioli.
Perché non c’è dubbio che i paesi europei raccoglieranno la sfida americana e cinese. Il problema è capire se lo faranno sancendo, per il futuro prevedibile, l’affermazione di una Europa a due velocità, sempre più lontane,o se il convoglio resterà unito. Von der Leyen e Gentiloni sanno bene che il progetto appena annunciato si scontrerà con resistenze radicate, da parte dei paesi da sempre ostili al debito comune europeo e che, probabilmente, non hanno ancora digerito la scommessa comune del grande piano antipandemia. Ma le due velocità sono giù una realtà che incombe minacciosa sull’unità europea. Basta fare il conto degli aiuti di Stato – ovvero dei sussidi nazionali alle imprese – che Bruxelles ha autorizzato nel 2022 appena concluso. I progetti approvati, tutti finanziati con risorse dei bilanci nazionali, sono stati 170 per la cifra massiccia di 540 miliardi di euro. Una montagna di soldi. Ma la metà è andata, grazie alle tasche profonde di Berlino, alle aziende tedesche. Poco meno del 30 per cento alle imprese francesi, perché Parigi poteva permettersi di spendere, di suo, quasi 180 miliardi per aiutare il made in France. E l’Italia? Per aiutare le imprese italiane, Roma ha potuto impiegare solo una ventina di miliardi: niente di più del 4 per cento del totale di aiuti di Stato autorizzati da Bruxelles. Se il biglietto per il toboga del clean tech dovrà essere comprato solo con i soldi italiani,la grande rivoluzione del futuro ci passa sopra la testa. La battaglia di von der Leyen e Gentiloni è più che importante: per noi è quasi una questione di sopravvivenza.
Marizio Ricci