Ora che ormai ci siamo stabiliti
Quasi definitivamente in questa casa, nominerò gli amici
A cui non è possibile cenare insieme a noi
Vicino a un fuoco di torba nella torre antica, e dopo aver discusso
Fino alle tarde ore arrampicarsi per la scala a chiocciola
Per andarsene a letto: esploratori
Di verità dimenticate, o soltanto compagni della giovinezza,
Tutti, tutti stanotte mi sono nel pensiero essendo morti.
(W.B. Yeats)
Se qualcuno mi chiedesse di fare i nomi degli attuali segretari nazionali della Fiom, sarei in grado di citare solo Maurizio Landini. Certamente è colpa mia perché a quel livello arrivano in generale dirigenti capaci e sperimentati. Quando mezzo secolo fa entrai alla Fiom di Bologna la segreteria nazionale era una galleria di personaggi. Bruno Trentin e Piero Boni erano i segretari generali a pari titolo: comunista il primo socialista il secondo. Allora la Cgil era capace di trovare delle soluzioni anche ai problemi difficili. Quando il giovane Trentin venne mandato dall’Ufficio studi alla Fiom, per sostituire Luciano Lama, entrato a far parte della segreteria confederale al posto di Luciano Romagnoli (una giovane promessa, già segretario della Federbraccianti, ucciso da un male incurabile, come si diceva a quel tempo del cancro) Boni che di Lama era ‘’aggiunto’’ protestò facendo valere una maggiore esperienza rispetto a quella di Trentin che non aveva ancora diretto una categoria in prima persona (era comunque uno dei vice segretari della Confederazione). Così si effettuò un ‘’consolato’’ e tutti furono felici e contenti.
Io avevo un buon rapporto con Piero Boni, col quale tenevo addirittura una corrispondenza, inviando le mie lettere al suo indirizzo privato di Roma. Gli esponevo i miei problemi di lavoro e lui mi rispondeva puntualmente. Ricordo persino di avergli mandato una copia della mia tesi di laurea. In segreteria, poi, c’erano altri tre comunisti. Nell’ordine, Bruno Fernex, torinese, molto legato a Trentin, tanto che un giornale francese lo aveva definito “le deuxième de Trentin, le grand diable noire Fernex”. Era il contrattualista della situazione insieme al secondo socialista, Elio Pastorino, genovese, sornione e capace. Poi c’era Pio Galli; da Lecco era passato a Brescia, poi al Centro federale, dove era responsabile dell’organizzazione (un incarico tipicamente sindacale in cui sono raccolte le competenze che, a livello ministeriale, riguardano gli Interni e il Tesoro). Ex partigiano, torturato dai tedeschi, da giovane aveva lavorato in siderurgia al Caleotto. Aveva chiamato i suoi figli con nomi che erano tutto un programma: Ivan il maschio, Laika la femmina. Una volta gli chiesero quale fosse il libro che lo aveva più colpito: la risposta fu “Come venne temprato l’acciaio” , la storia del gruppo dirigente del Pcus. Albertino Masetti, bolognese, era il più anziano e caratteristico. La sua era una storia tutta da raccontare. Antifascista, era stato in un lager (un’esperienza di cui non parlava mai). Nel dopoguerra aveva ricoperto molti incarichi di partito, talvolta anche con atteggiamenti discutibili. Pare si trattasse di storie di donne. Era l’attrazione per l’altro sesso (con noncuranza verso gli altrui vincoli coniugali ed affettivi) un tratto comune a molti vecchi comunisti che avevano passato anni di gioventù in prigione. Allora, il partito non perdonava. Fatto sta che il buon Masetti – fosse per affari di donne o in seguito alla destalinizzazione – era piovuto alla Fiom, dove dirigeva la siderurgia e gli affari internazionali, allora rigidamente inquadrati nella Federazione sindacale mondiale. Una volta, quando presiedeva una riunione della Uis-Méteaux, la federazione internazionale di categoria, divenne famoso per la sua scarsa confidenza col francese (soprattutto con la pronuncia), che era la lingua di lavoro dell’organizzazione (visto che l’inglese era quella del nemico americano). Masetti provò ad invitare coloro che erano d’accordo con la risoluzione finale ad alzare la mano. L’interprete in simultanea tradusse “i puri vadano a lavarsi le mani”.
Albertino era un grande affabulatore. Era capace di tenere pallino in una conversazione per ore, facendo sbellicare dalle risate quelli che lo ascoltavano. Ricordo ancora una delle storie che raccontava con dovizia di particolari. Era segretario del Pci in Umbria, quando, durante una campagna elettorale, i democristiani fecero installare in una piazza di Terni – a grandezza naturale – tante forche, col loro bravo fantoccio appeso per il collo, per quanti erano i dirigenti comunisti condannati a morte a Praga per volere di Stalin. La cosa suscitò una forte impressione. Masetti raccontava di aver tenuto a freno i militanti di base (gli umbri erano assai trinariciuti) che volevano incendiare le forche. Poi, dopo un fine settimana tranquillo, gli venne l’idea. Fece costruire una gigantesca altalena in cui si dondolava un enorme bambino di cartapesta vestito alla marinara, alla stregua dei rampolli della famiglia Agnelli. Provvedeva ad assicurare il moto pendolare, a turno, un operaio delle Acciaierie. Masetti si diffondeva nel racconto di particolari: il colore roseo delle gote, il sorriso lieto sulle labbra, l’azzurro degli occhi sereni. Tutto per preparare la stoccata finale. La morale della scena (la vita contro la morte) era scritta in un cartello cinque metri per dieci: ‘’per un’infanzia serena, vota Pci’’.
Per la cronaca: Albertino Masetti fu l’ultimo italiano a far parte della segreteria della Fsm. La sua designazione preludeva oggettivamente a un disimpegno della Cgil. Il settimo segretario era del Psiup, Elio Giovannini: una persona di grande serietà e preparazione, molto impegnato nel lavoro. Suo figlio Roberto è un valente giornalista economico. Non erano da meno i leader provinciali. Ezio Mantero e Massimino Bragardo a Genova. Della Fiom di Milano era segretario Annio Breschi, un personaggio empirico, duro, estroverso, privo di fronzoli ideologici. Un comunista per caso. Il suo “aggiunto” socialista, Pierluigi Perotta, detto Piero, era invece acuto e brillante, abile nell’infilarsi nelle situazioni controverse ed indicare una via d’uscita. In garbata polemica con Aventino Pace, detto Tino (il segretario di Torino, assai arzigogolato ed introverso, ma tutto di un pezzo), Breschi soleva dire che a differenza dei torinesi che erano cresciuti alla scuola di Gramsci, i milanesi avevano avuto solo Turati.
Floriano Sita, il mio segretario, era finito al sindacato dopo il “repulisti” che gli innovatori avevano compiuto a Bologna, dopo il XX Congresso del Pcus, quando anche in Italia era stato liquidato il gruppo dirigente stalinista ed ex partigiano. A Modena c’era un certo Eliseo Ferrari, che da pensionato si era impegnato a scrivere libri (‘’Le nostre corse’’) sui rapporti con l’altro Ferrari, Enzo il Drake, quello delle mitiche “Rosse” di Maranello. Rimase per circa 17 anni alla direzione della Fiom modenese. Per farsi operare di un banale polipo alle corde vocali si recò in Germania Est. Tanta era la fiducia nel “socialismo realizzato” che rischiò di restare per sempre muto. Per mesi si condannò ad un assoluto silenzio. Dirigeva la sua organizzazione attraverso biglietti scritti a matita (allora non si chiamavano ancora ‘’pizzini’’). I rapporti internazionali di quei tempi – prendo quest’occasione per farne cenno – erano tutti con la Cgt francese e con i sindacati dei Paesi Oltrecortina, in particolare – a Bologna e in Emilia Romagna – con la Ddr, che non era riconosciuta dal Governo italiano (corretti rapporti diplomatici si instaurarono solo all’inizio degli anni Settanta).
Fino a quel momento si trattava di una vera e propria cuccagna a nostro favore. Noi mandavamo delegazioni a ripetizione (arrivare in Ddr era una specie di avventura attraverso la Germania Ovest), mentre i nostri “gemellati” non potevano venire. Quando si arrivava nelle patrie del socialismo, in ognuno di noi scattava una sorta di lavaggio del cervello, che ci avevano propinato di nascosto. Diventavamo tutti acritici ammiratori di quei sistemi e delle loro meravigliose conquiste. E consideravamo dei provocatori quei pochi che osavano prendere le distanze. In occasione dei Congressi nazionali, la delegazione dei sindacati sovietici era accolta con tutti gli onori e all’intervento del suo capo era riservato un ruolo importante nel dibattito. Ci raccontavano che avevano avuto tanti successi, superati gli obiettivi del piano quinquennale e migliorato le condizioni dei lavoratori. Alla fine ci rifilavano un busto di Lenin che sembrava di marmo. Invece era di plastica, leggero come una piuma. Chi provava a sollevarlo si accingeva a mettere sotto sforzo i muscoli; invece, l’oggetto gli veniva dietro come fosse una palla, rischiando di farlo cadere.
Poi, per me venne il momento della gloria, durante l’autunno caldo per antonomasia: quello del 1969. Un’epoca indimenticabile che ho avuto la ventura di vivere da vicino, entrando a far parte – giovinetto – della gloriosa segreteria nazionale della Fiom che diresse quella lotta e condusse in porto la trattativa e un rinnovo contrattuale entrato a fa parte della storia (una notte mi capitò persino di addormentarmi all’interno del Ministero del Lavoro di Via Flavia). Avevo 28 anni, quando si produsse un insieme di circostanze che mi imposero, praticamente, di accettare una proposta onerosa sul piano degli affetti personali, ma di grande rilievo professionale e politico. Piero Boni era entrato in segreteria confederale al Congresso di Livorno del 1969. Elio Pastorino era candidato come segretario generale aggiunto della Fiom. Occorreva pertanto un “secondo” socialista. Dalla Confederazione veniva la proposta di Agostino Marianetti (un dirigente di notevoli capacità, visto che poi divenne segretario confederale prima, segretario generale aggiunto di Lama, poi), il quale però “faceva ombra” a Pastorino e non piaceva a Trentin. Così si pensò di promuovere un giovane, ed io ero quello più in vista.
Non che avessi particolari meriti. Aveva scritto qualche articolo coraggioso per Sindacato moderno, il mensile del sindacato curato da Alberto Bellocchio. Mi ero laureato mentre lavoravo con una tesi in diritto sindacale. Ero stato tra i relatori di un Convegno dei giovani metalmeccanici, a forte impronta innovativa e con alle spalle gli umori della contestazione studentesca. Un po’ poco. Ma bastò. Rimasi in segreteria nazionale dal luglio del 1969 al gennaio del 1974. Mai più, nella mia vita successiva, sono riuscito a compenetrarmi tanto a fondo in un’esperienza di militanza. E mai, come in quegli anni, ho preso parte, lavorando con Bruno Trentin, ad un intenso periodo di lotte e a un ardimentoso disegno di ricostruzione dell’unità sindacale.