Tra le azioni che non mi rimprovero e che rifarei – se si ripresentasse l’occasione – domattina, vi fu quella di aver messo in moto gli eventi che portarono alle dimissioni di Antonio Pizzinato di cui ho manifestato più volte l’opinione che la sua direzione della Cgil (successe a Luciano Lama) fosse inadeguata. L’operazione partì da un servizio di un giornalista attento come Massimo Mascini su Il Sole-24 Ore (il quale, insieme a Vittoria Sivo de La Repubblica e a Marco Cianca del Corriere della Sera, faceva parte della “cupola” dei commentatori di cose sindacali, un tema che ora è affidato – anche questo è un segno dei tempi – ai praticanti ragazzini). Io fui l’autore della soffiata (ne ho fatte tante anche come strumento di lotta politica). Mascini mi fece una telefonata esplorativa; forse aveva fiutato qualcosa e cercava conferme. Io gli rivelai che era in atto una “congiura” contro Pizzinato, di cui erano protagonisti tra importanti dirigenti comunisti: Paolo Lucchesi (‘’aggiunto’’ in Lombardia), Alfiero Grandi (primo in Emilia Romagna) ed Oriano Cappelli (segretario toscano). La notizia aveva un fondamento: i tre si erano incontrati più volte e concertavano le loro iniziative. Mascini lo scrisse. Fu come la classica palla di neve che ruzzolando finisce per provocare una valanga. La cosa fece grande scalpore, alla stregua di come (dalla scoperta della nudità del sovrano della favola in poi) capita con tutte le notizie conosciute, ma destinate alla riservatezza per ragioni di bon ton politico. In Cgil successe il finimondo: polemiche, smentite, repliche. Pizzinato, che era sospettoso e vendicativo, si mise in allarme. Un’altra mazzata venne dalla pubblicazione su Rassegna sindacale (il settimanale della Confederazione) di un articolo scritto a due mani, nel settembre 1998, da Fausto Bertinotti e Paolo Lucchesi, che suonava come dura accusa nei confronti della segreteria di Pizzinato, ritenuto incapace di perseguire quel rinnovamento (la “rifondazione”) che lui stesso aveva annunciato. Si tenga conto che nel Pci Achille Occhetto aveva bruscamente sostituito Alessandro Natta (ancora convalescente dopo una crisi cardiaca), a cui Pizzinato era legato. La situazione continuò a precipitare fino ad una drammatica riunione del Comitato esecutivo confederale in cui dodici autorevolissimi dirigenti comunisti presentarono un ordine del giorno che, praticamente, respingeva la proposta del segretario di ottenere una “tregua” di un anno e mezzo, per arrivare al prossimo congresso quando Pizzinato si impegnava a passare la mano. L’ordine del giorno fu respinto grazie al soccorso dei socialisti, ma il conto dei voti mise in evidenza che il segretario non godeva più dell’appoggio della maggioranza della sua componente. Il che rendeva problematica la sua permanenza al vertice, in base alla costituzione materiale della Cgil. Il 20 novembre dello stesso anno, Pizzinato, dopo un periodo di riposo con la moglie in Sardegna, si dimetteva dall’incarico di segretario generale, in un contesto di accese polemiche. Pretese, però, dando prova di scarso fair play, di “continuare la sua battaglia” rimanendo nella segreteria. Al punto che, in occasione della successiva campagna congressuale, organizzò una sottocorrente che si riconosceva in alcune tesi alternative inserite nei documenti congressuali, presentati dalla maggioranza (nel 1991 ci fu anche la mozione di Essere sindacato di Fausto Bertinotti, schierata all’opposizione). Questa “fronda”, un po’ scorretta, gli costò la mancata riconferma in segreteria, dopo il Congresso. La Cgil in crisi non poteva che rivolgersi a Bruno Trentin. La sua elezione a segretario generale provocò un peana di consensi. E si vide subito che la musica era cambiata.
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