Quando, dopo il contratto dei metalmeccanici del 1963, iniziarono le prime esperienze di contrattazione aziendale, si pose il problema – soprattutto nella Cgil e nella Fiom, di avviare delle iniziative di formazione per riconvertire dei dirigenti sindacali, spesso privi dei necessari strumenti culturali ed abituati a comportamenti più da agitatori che da (pre)moderni sindacalisti. Anche in passato, a partire dall’immediato dopoguerra, erano state promosse azioni genericamente riconducibili alla formazione; ma si sostanziavano, praticamente, in “vulgate” di indottrinamento più politico che sindacale. A Bologna giungevano ancora gli echi delle pratiche che avevano coinvolto le generazioni più anziane (ma non troppo) dei nostri colleghi. In località Gallo sulla via Emilia, nei pressi di Castel S. Pietro, c’era una casa colonica nella quale si svolgevano corsi di formazione rivolti a giovani sia dei partiti di sinistra che della Cgil.
A parte i “bignamini” leninisti che facevano da libri di testo, si cercava di forgiare il carattere di partecipanti attraverso lunghi periodi di castità (erano proibite le visite delle fidanzate), turni di guardia notturna, lavori agricoli e ricorrenti “autocritiche” ad ogni piè sospinto e alla presenza dell’intero “collettivo”. La domenica, dalla città, venivano delegazioni di pionieri o di operai, allo scopo di solidarizzare cameratescamente coi giovani in formazione. In quei casi, si intrecciavano cori, danze e fieri propositi per il futuro. Un mio carissimo amico, Giancarlo Trocchi, mi raccontò che in una di quelle occasioni aveva incontrato la ragazza che poi divenne sua moglie, la quale, durante una visita al Gallo, in un gruppo di pionieri, aveva colpito Giancarlo cantando ‘’Ciliegi rosa a primavera’’ (una canzone la cui melodia era stata ripresa persino in una scena del film/capolavoro ‘’Casablanca’’).
Dopo la svolta “industrialista” dei primi anni Sessanta si rese necessario, come abbiamo anticipato, cambiare registro. I corsi dovevano insegnare a contrattare, in proprio, faccia a faccia con il padrone e i suoi dirigenti, questioni che sfioravano delicati aspetti della vita dell’impresa (tra l’altro, in concorrenza con i quadri della Cisl che, da anni ormai, si preparavano alla nuova impostazione in corsi di lunga durata nel famoso Centro studi di Firenze). La Fiom mise al lavoro alcuni giovanotti (gli “intellettuali” cominciavano a sentirsi attratti dal sindacato), spesso pescati dalla Umanitaria (una Fondazione laico-socialista di Milano impegnata nella educazione degli adulti) o dalle Facoltà scientifiche. Uno di questi, Gastone Sclavi, dopo un lungo periodo passato in prestigiosi incarichi sindacali, divenne – anni dopo – un manager di Montedison. Purtroppo ci ha lasciati prematuramente. In questi corsi – il primo responsabile della formazione del Centro nazionale fu Roberto Tonini – si insegnava a negoziare i premi di produzione, anche imponendo sedute di contrattazione simulata, nelle quali uno faceva la parte del padrone, l’altro del bravo sindacalista; i rimanenti assistevano ed imparavano, in attesa del loro turno per sedersi al tavolo fatale del negoziato. Ricordo un episodio divertente, che rende testimonianza delle difficoltà di quei tempi eroici. Il ruolo di imprenditore era stato assegnato ad un sindacalista milanese (si chiamava, spero si chiami ancora, Antonio Turri), il quale aveva due strani intercalari. In tutti i suoi discorsi infilava due frasi: “in un certo determinato senso” e “in questo tipo di situazione”.
Ebbene, il buon Turri – costretto ad indossare gli scomodi panni del padrone: una cosa per lui disdicevole – conduceva il negoziato della sua parte semplicemente rispondendo di no alle richieste del collega che impersonava il ruolo del sindacalista. L’istruttore, allora, lo incitava ad articolare di più il discorso, perché, altrimenti, tutto sarebbe finito in pochi minuti. La funzione della trattativa simulata era, infatti, quella di pervenire – dialetticamente e per tappe successive – ad un’intesa, non di limitarsi a proclamare scioperi e ad erigere barricate. Ma l’idea che Turri aveva dei padroni era molto netta: sapeva aggiungere al massimo: “Io non vi do niente”.
Per quanto mi riguarda, partecipai ad un corso nazionale di formazione (a Grottaferrata, Castelli romani, della durata di 15 giorni), proprio nei primi tempi della mia attività. Era un corso per istruttori in materia di cottimi e di qualifiche. Dovevamo imparare non solo la “linea”, ma anche a renderne partecipi gli altri. Ne ricavai nozioni fondamentali (magari discutibili) che mi sono rimaste impresse lungo tutto il tempo della mia vicenda sindacale. Poco tempo dopo, mi capitò di essere ad Ariccia – durante un corso estivo – il 21 agosto 1968 quando le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia. In quella circostanza, vi furono molti compagni che seppero dar prova di una posizione critica, quando ancora non era conosciuto lo storico comunicato della Direzione del Pci che esprimeva il suo “grave dissenso” sull’invasione. Altri, invece, si accodarono ai carri armati.
Apprezzai molto l’intervento, in quella occasione, di Leopoldo Meneghelli (con il quale, in seguito, diventammo grandi amici). Ricordo che definì l’Urss ‘’uno squallido gendarme’’. Ma su quali istituti vertevano le prime esperienze di contrattazione aziendale per le quali venivamo formati? La stagione contrattuale del 1962-1963 aveva previsto l’istituzione dei premi di produzione o la trasformazione di quelli esistenti e promossi nella generalità dei casi dai datori di lavoro negli anni del boom economico. Nella linea del sindacato (in un clima ancora fortemente ideologizzato anche sul versante dei padroni) questi premi dovevano essere collegati a “elementi oggettivi”. Così, in prima battuta venivano rivendicati dalle imprese i dati sulla produzione. Per ottenerli c’era spesso da fare parecchie ore di sciopero. Poi, una volta conquistate tali informazioni, si prendeva un certo arco di tempo (di solito un anno o due) come riferimento di base, si omogeneizzava la produzione (ossia si stabiliva quanto valeva un particolare prodotto, in termini di ore lavorate, rispetto ad altre produzioni), in modo da poterla misurare in modo equilibrato. Si parlava allora di parametri: ogni prodotto veniva moltiplicato per il suo. I problemi erano tanti e non sempre di facile soluzione.
Tanto per spiegare il marchingegno, racconterò una mia concreta esperienza in una piccola azienda metalmeccanica bolognese che produceva serrande. Il premio era impazzito e buttava soldi in modo abnorme, per la semplice circostanza che un particolare prodotto (le serrande “basculanti”) era passato da un numero assai limitato e marginale di “pezzi” (e perciò dotato di parametri assai elevati) fino a diventare una delle forniture più importanti e frequenti. L’azienda aveva pagato puntualmente i maggiori oneri, poi, alla scadenza aveva disdetto l’accordo, chiedendone la rinegoziazione. La vicenda era stata compresa dai dipendenti, i quali, comunque, si erano affidati al sindacato. Io mi trovai, dunque, in una delle mie prime esperienze, a dover “calare paga” ai lavoratori. La cosa, però, in quei tempi, non poteva essere tranquillamente sbandierata, perché si rischiava di essere fraintesi. Mi fece piacere incontrare, alcuni decenni dopo, il responsabile della zona (ormai deceduto) dove stava la fabbrica del premio ‘’scappato di mano’’. Si ricordava ancora di quella vicenda. E anch’io. Ma la mistica dei premi di produzione ebbe vita breve. Nel rinnovo contrattuale successivo, quello del 1966, lo scontro si svolse sul diritto di contrattazione articolata e sull’istituto che ne aveva rappresentato la bandiera.
Dopo un bel po’ di ore di sciopero (ne furono proclamate circa 200), quando la categoria era stremata (ricordo delle scene drammatiche davanti ai picchetti, di bravissimi compagni che continuavano a scioperare solo per disciplina, ma che ormai non reggevano più), la delegazione degli industriali metalmeccanici pretese e ottenne di mettere la camicia di forza alla contrattazione dei premi, nel senso che vennero stabilite, nel contratto nazionale stesso, le dinamiche dei miglioramenti economici ottenibili attraverso la rinegoziazione dei premi. In sostanza, l’istituto più tipico del contratto precedente venne “imbragato” all’interno di percorsi predestinati al fine di “burocratizzarne” il rinnovo. In questo modo, i premi persero il loro afflato romantico (quello della ricerca di “elementi obbiettivi”, per intenderci) e, poco per volta, si trasformarono in erogazioni monetarie negoziate periodicamente, senza troppe storie.
Ma la contrattazione articolata si spostò su terreni assai più delicati ed incisivi, nel campo dell’organizzazione del lavoro. Quella conclusione del 1966 mi diede modo, tuttavia, di esporre il mio primo dissenso. Nella riunione del Comitato Centrale della Fiom chiamato a ratificare l’accordo di rinnovo io manifestai in forma garbata le mie perplessità, sostenendo che non dovevamo “mollare” sui premi. Mi rispose Piero Boni (la regola era che il gruppo dirigente dovesse reagire come un sol uomo nei momenti di stretta), affermando che in realtà io non avevo capito nulla, che quella non era una sconfitta. Ma se di sconfitta si doveva parlare, essa andava attribuita, secondo Boni, non all’accordo di rinnovo ma ai limiti che aveva avuto la contrattazione articolata sui premi, durante gli anni precedenti. Quelli erano tempi fatti così.