Avevo sempre desiderato fare il sindacalista, fin da quell’età in cui i ragazzi cominciano a interrogarsi a proposito di “quel vago avvenir” che hanno in mente. Al liceo, dichiarare, nelle feste coi compagni (e le compagne) di classe, che da grande avrei fatto il sindacalista, mi dava un tono, mi conferiva un profilo impegnato. Per me quella professione di fede aveva il significato di una scelta di vita, di una missione da compiere. Allora, non potevo sapere che l’I care del maestro di Barbiana sarebbe diventato – grazie ad un immaginifico Walter Veltroni – uno slogan congressuale degli eredi del Pci, molti anni dopo. Portavo nella confusa adesione agli ideali della sinistra tutta la forza militante di un’educazione religiosa, ricevuta in famiglia e corroborata da anni di appartenenza all’Azione cattolica ai tempi di Pio XII e di Luigi Gedda, quando si inneggiava al Papa cantando: “Siamo arditi della fede, siamo araldi delle Croce, a un Tuo cenno, a una Tua voce, un esercito all’altar”. Anche se si voltano le spalle a queste esperienze – come io feci, ritrovandole tuttavia parecchi decenni dopo – resta comunque impressa un’impostazione di fondo che si porta seco per tutta la vita.
All’università rafforzai questa mia aspirazione, anche grazie all’iscrizione alla Federazione giovanile socialista nel 1963. Ricordo ancora il mio incontro con la Cgil. La sorte volle che essa si presentasse con il volto rassicurante di Luciano Lama, allora autorevole segretario confederale. Era il 1962 ed io frequentavo le lezioni di diritto del lavoro e seguivo le esercitazioni del professore che considero mio maestro: Giuseppe Federico Mancini. Allora, questo grande giurista, questo indimenticabile capo scuola e profondo innovatore della materia era primo assistente di Tito Carnacini. Anni dopo mi onorò della sua amicizia, quando io, quale dirigente dei gloriosi metalmeccanici, mi avvalevo di questo biglietto da visita negli ambienti della cultura. Purtroppo ora ci ha lasciato, dopo essere stato all’Alta Corte di Giustizia. Il settarismo politico, anni prima, gli aveva impedito di entrare a far parte, come avrebbe meritato, della Corte Costituzionale. In quel tempo lontano, Mancini disse agli studenti che frequentavano le sue esercitazioni all’Istituto di applicazione forense che, la volta successiva, avremmo conosciuto un sindacalista della Cgil. Si presentò, appunto, Luciano Lama.
Allora, gli studenti universitari non avevano molta simpatia per i comunisti. Anche i giuslavoristi più attenti seguivano il dibattito in corso nella Cisl, che si cimentava con nuove esperienze contrattuali, mentre la Cgil manifestava ritardi e dubbi. Lama, però, tenne testa, con eleganza ed abilità, ad un uditorio tendenzialmente ostile (comunque beneducato; allora non erano neppure immaginabili forme di contestazione dure). Lo rividi un anno dopo. Era il 8 febbraio 1963. Lo ricordo, con nettezza, perché il giorno dopo era il mio compleanno. Si svolgeva (per quei tempi era un’importante novità) lo sciopero generale dell’industria, proclamato da Cgil, Cisl e Uil, a sostegno del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Con un gruppo di studenti aderenti all’Unione goliardica (l’associazione della sinistra) andammo a portare la solidarietà ai metalmeccanici (allora si chiamavano metallurgici) in lotta. Così quella fu anche l’occasione per vedere da vicino una categoria che tanto avrebbe segnato – più avanti – la mia vita. Le tre confederazioni avevano deciso lo sciopero insieme, ma le manifestazioni erano separate. Quella della Cgil si svolgeva all’interno del Palazzo del Comune (nella sala Farnese che ora è un piccolo gioiello di architettura con affreschi completamente restaurati) che poteva contenere, al massimo, un migliaio di persone, assiepate come sardine in scatola. Che per accogliere i partecipanti ad uno sciopero di tutta l’industria bastasse un salone era un segno delle difficoltà di quei tempi.
Lama mi fece una buona impressione. Ricordo ancora brani interi di quel discorso. Luciano riusciva sempre a tirare fuori un messaggio nuovo, spesso ostico all’uditorio, in ogni circostanza. Anche quando i suoi toni erano duri, fermi, da comiziante di razza. Parlò di operai che non volevano ulteriori aumenti salariali e che avevano la dignità di non arrendersi di fronte alle concessioni di “lor signori” (la Confindustria, infatti, aveva deliberato un aumento unilaterale delle retribuzioni del 10% allo scopo di fiaccare la lotta). L’obiettivo del sindacato, diceva Lama, era la conquista di nuovi diritti di contrattazione e di agibilità nei posti di lavoro. E su questo terreno (che non costava nulla) il padronato non mollava. E’ facile immaginare come un ragazzo che usciva da una famiglia piccolo borghese, che aveva attraversato il tunnel degli anni Cinquanta e che si affacciava alla vita, fosse affascinato da siffatti discorsi e sentisse una forte sollecitazione a stare dalla parte giusta. Solo che non avevo idea di come potessero realizzarsi le mie aspirazioni.
Un anno dopo gli avvenimenti della politica spianarono la via al mio ingresso nella Cgil. Tra la fine del 1963 e i primi mesi del 1964 si consumò la scissione del Psiup, che ebbe molto seguito tra i quadri sindacali. Io, allora, avevo manifestato, in precedenza, i miei propositi a Paolo Babbini (ex segretario della Federazione giovanile socialista bolognese, allora promosso a dirigente dell’Ufficio del lavoro di massa; una persona seria e preparata che, nella Prima Repubblica, fu più volte deputato e sottosegretario di Stato). Una mattina del gennaio 1965 Paolo mi telefonò a casa e mi chiese se fossi ancora dell’opinione di fare il sindacalista. Risposi affermativamente e domandai quale sarebbe stata la mia destinazione: “Mi sembra che la Fiom sia la soluzione adatta per te”, rispose. Io sapevo ben poco di questa organizzazione. La nostra conversazione ebbe un seguito nel suo ufficio, alla presenza della persona che avrei dovuto sostituire, anche lui arruolato dopo la scissione (mi accorsi dopo che la sua era una fuga). Il 1° marzo successivo mi presentai a prendere servizio, presso la sede della Camera del Lavoro, negli uffici della Fiom, all’ammezzato del palazzotto di via Marconi 67/2. I miei genitori (purtroppo mio padre morì il 9 giugno) non vedevano bene la cosa; probabilmente consideravano il lavoro sindacale come un’attività pericolosamente sovversiva. Con loro, però, faceva aggio il fatto che, comunque, avevo trovato un lavoro. Ho passato la prima parte della mia vita a sottrarmi a un impiego in banca, che rappresentava la massima aspirazione di mio padre. Dapprima, mi rifiutai di intraprendere studi tecnici e pretesi di frequentare il liceo classico, che, agli occhi dei miei genitori significava sostenere l’impegno di mandarmi , dopo il diploma, all’Università. Poi, scelsi un’attività qualificata politicamente.
Anni dopo, quando mi laureai a pieni voti, con una tesi importante, nella quale avevo combinato la dottrina giuridica con l’esperienza sindacale, mi telefonò un dirigente di una grande banca nazionale (allora le aziende correvano dietro ai laureati, i quali non avevano particolari meriti se non quello di vivere in un tempo di grande espansione economica) per offrirmi un’assunzione: io consumai la mia vendetta rifiutando. In seguito, mi sono domandato parecchie volte se non avessi sbagliato. Ma non mi sono mai pentito della decisione. In ogni caso, in quel 1° marzo di tanti anni fa (ricordo che era il 1965), si compiva un destino a lungo annunciato. La mia vicenda prendeva il suo indirizzo. Iniziava un lungo cammino che sarebbe durato fino al marzo 1993, senza interruzioni. Come una lunga corsa attraverso passioni, soddisfazioni, entusiasmi, errori e delusioni. Una vita comunque indimenticabile. Anche perché in seguito il destino mi ha restituito la vita a cui avevo rinunciato e consentito di compiere quasi tutte le opportunità (tranne l’impiego in banca) che avrei potuto cogliere. Chi si preoccuperebbe, oggi, di quanti quadri di un determinato colore politico stanno in un sindacato ? In verità, cinquant’anni or sono i miti erano ancora vivi e vitali. Si pensi che i socialisti avevano una norma statutaria che obbligava gli iscritti ad aderire alla Cgil. E che nella Direzione nazionale e nelle Federazioni provinciali c’erano degli uffici (si chiamavano del “Lavoro di massa“) che avevano il compito di occuparsi del sindacato e delle altre organizzazioni sociali. Insomma, consumata la scissione del Psiup (che poi si sciolse qualche hanno dopo) l’ordine era quello di rifare la corrente socialista in Cgil. E a questo obiettivo si dovevano dedicare uomini e mezzi. Senza guardare troppo per il sottile. All’insegna dell’ I want you, io aderii all’appello e presi parte ai bandi di arruolamento. Ricordo ancora che la mia prima scrivania fu un tavolo ovale da riunioni, privo di cassettiere. Il mio compagno di stanza, Beppino Bolognesi (di secondo nome faceva Peppino, perché la persona che lo aveva denunciato all’anagrafe aveva fatto una gran confusione, forse per eccesso di libagioni), mi rivolgeva cinque o sei parole, al massimo, nell’arco di un’intera giornata, spesso limitandosi a rispondere alla mie domande . Alcuni mesi dopo, riuscii ad ottenere, insieme ad un inquadramento più stabile e a funzioni più definite, anche una scrivania più degnitosa. Nei cassetti trovai un paio di pedalini sporchi e un pezzo di formaggio ammuffito, appartenuti ad Andrea Amaro (oggi scomparso), che aveva occupato quel posto prima di me.