I ‘’grillini’’ – con l’expertise di Giorgio Cremaschi, il quale vuole consumare qualche vendetta privata per conto terzi e scardinare la rappresentanza e la rappresentatività delle confederazioni storiche in azienda a favore del sindacalismo radicale di base (verrebbe da aggiungere ‘’sedicente’’ se non portasse male) – hanno deciso di prendere di mira – c’era d’aspettarselo – i ‘’privilegi’’ del sindacato. Certo, anche in questa occasione, sparano nel mucchio, ma qualche obiettivo lo colpiscono. Perché problemi ce ne sono e non pochi. Ma di ciò parleremo magari un’altra volta. Adesso, per me vale una regola: se un tuo nemico (i ‘’pentastellati’’ lo sono, e dei peggiori) prende di mira qualcuno, egli diventa subito tuo amico. Poi, io sono come i vecchi elefanti che vorrebbero morire – dice la leggenda – nel luogo in cui sono nati. Ai miei tempi fare il sindacalista era più faticoso, ma dava più soddisfazioni. Soprattutto, sentivi di avere la fiducia dei lavoratori. Il lavoro sindacale è delicato.
Un cattivo sindacalista (per restare nel campo delle attività di ordinaria amministrazione, senza salire ai caporioni che mettono nei guai l’economia e i conti pubblici ) può rovinare una vertenza arrecando danni incalcolabili ad un’azienda e ai lavoratori. Un buon sindacalista deve, invece, intuire dove può arrivare, in una trattativa, con il consenso dei lavoratori ai quali spetta l’ultima parola. Ma un sindacalista che non sa assumersi delle responsabilità e si trincera, quasi in modo neutrale, dietro la votazione dei lavoratori, abdica al suo ruolo, si trasforma in un portavoce qualsiasi. Per quanto mi riguarda la vocazione andò in crisi quando scoprii che non mi riusciva più il transfert con i lavoratori (magari non ero cambiato solo io, ma anche loro) e quando le mie convinzioni non collimavano più con quelle del sindacato di cui ero tra i massimi dirigenti.
Se è onesto, uno non può svolgere un ruolo di rappresentanza, comportandosi come gli pare. Ma a che cosa serve questo pistolotto a premessa di un altro amarcord? Voglio raccontare la storia della vertenza del gruppo Smi ovvero della Società metallurgica ligure (se ben ricordo il gruppo, che in seguito si è chiamato Lmi, produceva sofisticati sistemi di rame e non era certo ben orientato nel campo delle relazioni industriali). Aveva diversi stabilimenti sparsi per l’Italia: ne ricordo due in Toscana a Campo Tizzoro sulla montagna pistoiese e a Fornaci di Barga (è situata a 165 m s.l.m. sulla riva sinistra del fiume Serchio, in provincia di Lucca); un altro, in Liguria, di nome Delta, acquistato da qualche azienda a partecipazione statale: il Delta ‘’faceva razza’’ per suo conto e vantava importanti tradizioni di lotta. Forse ce ne era uno anche a Brescia, ma non vorrei confondermi con un’altra vertenza. Allora, facevo parte della segreteria nazionale della Fiom (era il 1971).
Un giorno, il responsabile del settore (si chiamava, anzi spero che si chiami ancora, vivo e vegeto, Antonio Mazzetti) venne a sottopormi il caso della vertenza aperta nel gruppo che dopo tante ore di sciopero era ancora al punto di partenza. Il Delta si trovava in una situazione ancora peggiore. Lì era stata presentata una piattaforma basata sul superamento del cottimo e come forma di lotta se ne era adottata l’anticipazione ovvero si lavorava con i ritmi normali senza rispettare i tempi assegnati. La società non si era data particolare pensiero: aveva chiuso lo stabilimento per ben 25 giorni (sic!), fino a quando i sindacati non avevano ridimensionato la loro piattaforma presentandone una che si limitava a chiedere la garanzia di un rendimento minimo garantito, cosa che la società non voleva neppure sentir nominare; considerando, tuttavia, che i dipendenti avevano ripreso a lavorare e a scioperare normalmente, per la Smi non c’erano più problemi. Salvo a dire di no. Più che una questione di sostanza era un problema di principio, sia per l’azienda che per i lavoratori.
Negli altri stabilimenti non c’erano interessi in comune. A Barga (chi non ricorda la poesia del Pascoli?) non esistevano problemi produttivi, ma i lavoratori scioperavano in un’esigua minoranza. A Campo Tizzoro invece c’era la mannaia di 140 licenziamenti e questa, per loro, era la questione da risolvere. A Brescia, invece, reclamavano il rinnovo del premio di produzione con qualche lira in più. Accettai di occuparmi della vertenza. Cominciai a seguirla in prima persona e pian piano mi accorsi che quelli che l’avevano (mal)gestita, fino a quel momento, si defilavano. Rimase soltanto il segretario della Fim-Cisl di Lucca, una persona seria che sapeva assumersi le sue responsabilità, anche se aveva un’attenzione particolare per lo stabilimento della sua provincia (che era quello che presentava minori problemi).
Il negoziato si svolgeva all’Unione industriali di Firenze, nei pressi della stazione SMN. La Smi era rappresentata dall’avv. Lizza (non ricordo il nome) un interlocutore duro e ostile che aveva una caratteristica curiosa. Quando parlava, agitando le mani, osservava sempre un grande anello con un’enorme pietra preziosa, che portava al dito. Come Dio volle (dopo scioperi sbilenchi, comizi deserti e disertati tra le montagne, manifestazioni tra pochi intimi e quant’altro) arrivammo ad un’intesa, in sede sindacale, dopo aver risolto il problema dei licenziamenti nel pistoiese al Ministero del Lavoro attraverso la cassa integrazione guadagni (a zero ore ma ‘’vita natural durante’’) come usava allora. Il Sottosegretario che si occupava delle vertenze era un democristiano del Friuli: una persona di grande buon senso che teneva sempre una bottiglia di grappa nell’armadietto, pronto ad offrirla ai suoi interlocutori dopo ogni accordo. Restava aperta la questione del Delta, dove i lavoratori continuavano a battere la testa contro un muro di gomma.
Eravamo ormai sotto Natale. Prima non me ne ero mai interessato perché lo stabilimento era di proprietà della Smi, ma non faceva parte del gruppo; poi i dirigenti sindacali locali avevano sempre fatto di testa loro. Insieme al collega della Fim chiedemmo un incontro all’Intersind di Genova (a cui il Delta era ancora associato). Ci trovammo ovviamente l’avv. Lizza che ci mandò a quel paese. Fu allora che a me venne un’idea: estendere ai dipendenti del Delta l’accordo raggiunto per il gruppo Smi. La delegazione della controparte rimase con un palmo di naso (era come presentarsi in un negozio per acquistare delle capre ed uscirne con dei cavoli); si riunì brevemente e accettò la proposta. I dirigenti sindacali locali e quelli di fabbrica impallidirono: ‘’Chi va a spiegare ai lavoratori che abbiamo ottenuto cose che loro non hanno neppure chiesto, mentre abbiamo rinunciato alle rivendicazioni per le quali hanno lottato?’’. ‘’Ci vado io’’, risposi (d’accordo con il dirigente dalla Fim).
La mattina dopo ci presentammo in fabbrica (si trovava in una cittadina di nome Serravalle). I lavoratori non avevano mai visto noi, e noi loro. Svolsi la relazione raccontando come era andata la vicenda e spiegando che le vertenze prima o poi bisogna chiuderle, soprattutto quando è dimostrato che non hanno sbocco. Il collega mi fece da spalla. Poi si aprì il dibattito. Intervenne subito un giovane che ci diede dei traditori e dei venduti all’azienda. ‘’Qui si mette male’’, pensai. Subito dopo, però, prese la parola una specie di gigante in tuta blu, che aveva tutta l’aria del leader operaio. Disse che era d’accordo con noi e che ci ringraziava. La discussione prese subito quella piega. La maggioranza, al momento del voto, fu schiacciante a favore dell’accordo (altrui). I sindacalisti che avevano gestito la vertenza fino a quel momento si erano dileguati. Aveva battuto in velocità tutti gli altri quel Mazzetti, funzionario della Fiom, che era venuto a chiedere il mio aiuto. Non so perché non ho mai dimenticato quell’episodio (che pure non può essere annoverato tra i successi e le vittorie), anche se qualche aspetto e qualche nome mi sfuggono. Credo però che sia intuitivo capirne le ragioni.