I comizi: ne ho fatti a migliaia. Ma non dimenticherò mai quella volta che a Santiago del Cile (era il 1° maggio 1982) parlai alla manifestazione della Coordinadora sindical (il cartello dei sindacati di opposizione al regime militare) mentre fuori dalla sala la polizia sparava lacrimogeni. Lessi un discorso tradotto in lingua spagnola dal mio accompagnatore. Fu trasmesso in diretta dalla radio della Curia ed ebbe una vasta eco. Ma il comizio che ricordo ancora con emozione lo tenni in una piazza di Imola, il giorno dopo la strage di Brescia (28 maggio 1974).
Ero uno degli oratori alla manifestazione di protesta, l’ultimo ad avere la parola. Mi venne in mente che conservavo come una reliquia nel portafoglio quella splendida iscrizione che Piero Calamandrei aveva dettato per il monumento alla Resistenza della città di Cuneo. Alla fine di un breve discorso, lessi ad alta voce le parole di quel foglio gualcito, con un tono ispirato ed una commozione sincera. “Lo avrai, camerata Kesserling, il monumento che pretendi da noi italiani, ma di che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi …..”. Quando l’eco di quei versi si spensero nell’aria (nell’indimenticabile Ora e sempre Resistenza), io vidi migliaia di uomini e di donne piangere in un grande abbraccio di solidarietà. Ma perché ricordare soltanto eventi drammatici ? Erano i primi anni ’70 e stavo ancora nella segreteria nazionale della Fiom. Venni invitato a Livorno per tenere il comizio in occasione di uno sciopero unitario dei metalmeccanici (c’erano anche i lavoratori di Piombino).
Allora non c’era bisogno dei pensionati dello Spi per riempire le strade e le piazze. Ricordo una manifestazione imponente, combattiva, con tanti striscioni e cartelli, musica e slogan scanditi da un altoparlante su di un’auto che precedeva il corteo, poi ripetuti in coro dai lavoratori. Arrivammo finalmente in una grande piazza dove doveva svolgersi il comizio di chiusura. Lì ci fu una sorpresa. Si erano dimenticati del palco.
Così mi rassegnai a pronunciare un discorsetto da una panchina del giardino che stava al centro della piazza. Ovviamente non era stato predisposto neppure il microfono. Mi servii di megafono. Un operaio fu incaricato di seguire le mie mosse, perché continuavo a muovermi mentre parlavo e rischiavo di cadere, dal momento che lo spazio sulla panchina era assai ristretto. Quando mi vedeva in pericolo il solerte compagno mi toccava una gamba per avvertirmi. E con il dito mi indicava il ‘’salto nel buio’’.