A sentire il dibattito, sembra che il diritto del lavoro abbia avuto inizio con lo Statuto dei lavoratori (legge n.300/1970). E che il licenziamento individuale sia sempre stato regolato dall’articolo 18, inclusa la reintegra nel posto di lavoro, in caso di recesso ingiustificato e quindi illegittimo. E’ bene allora ricordare un po’ di storia della disciplina del licenziamento e della lunga battaglia dei sindacati, durata decenni, per introdurre procedure e misure di tutela dei lavoratori e superare un regime di libertà di licenziamento. Partiamo dalla disciplina prevista dal codice civile del 1942 che contemplava due fattispecie di licenziamento individuale regolate, rispettivamente, dall’articolo 2118 (licenziamento con preavviso o ad nutum) e dall’articolo 2119 (licenziamento per giusta causa o in tronco, quale reazione ad un fatto che non consente neppure la prosecuzione provvisoria del rapporto).
Per un lungo periodo il licenziamento in tronco privava il lavoratore anche della liquidazione. In sostanza, nell’immediato dopoguerra e fino alla legge n.604 del 1966 (che aggiunse, per la legittimità del recesso, il requisito di un giustificato motivo, sindacabile in giudizio) il datore di lavoro aveva facoltà di licenziare un proprio dipendente senza dover fornire alcuna motivazione ma ottemperando solamente all’obbligo di assegnare un congruo preavviso o di corrispondere un’indennità sostitutiva come previsto dalle norme contrattuali. Analoga disciplina valeva – in nome di un’astratta par condicio per le dimissioni del lavoratore.
Fino al 1966, dunque, l’unica sindacabilità possibile dei motivi del licenziamento avvenne – salvo l’eventuale ricorso giudiziario per i casi di giusta causa – per via contrattuale mediante una serie di accordi interconfederali che istituivano – in parallelo con una procedura prevista per i licenziamenti collettivi – un percorso intersindacale di conciliazione di arbitrato nel settore dell’industria.
Gli accordi interconfederali che disciplinarono questa materia furono tre: il primo siglato il 7 agosto 1947 (dopo che era venuto a scadenza il provvedimento legislativo di blocco dei licenziamenti operante negli anni 1945 e 1946: l’accordo ne compensò la fuoriuscita); il secondo il 18 ottobre 1950; il terzo il 29 aprile 1965, che, in pratica, ‘’tirò la volata’’ alla legge n.604 dell’anno successivo (particolare curioso: durante il dibattito i parlamentari della Cisl – allora non c’era l’incompatibilità ed erano eletti all’interno dei partiti, quasi tutti dalla DC – si opposero alla legge in nome dell’autonomia contrattuale). In sostanza, la normativa che segnò di sé un’intera fase (un quindicennio) di storia sindacale nella lotta contro i licenziamenti ingiustificati fu quella sancita nell’accordo del 1950. E fu anche l’unica occasione in cui una procedura di conciliazione e di arbitrato, in materia di recesso, trovò applicazione nell’ambito del sistema di relazioni industriali.
Ricordiamo, infatti, che un tentativo di rilancio della risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro venne effettuato con la legge n.183 del 2010 (il c.d. Collegato lavoro) le cui disposizioni in proposito – nonostante le polemiche che contraddistinsero l’iter del disegno di legge, sottoposto a ben sette letture – sono rimaste lettera morta. Ma dal 1950 in poi la procedura di conciliazione e di arbitrato era tutto ciò che ‘’passava il convento’’ agli effetti della tutela contro l’arbitrio padronale. Caratteristiche essenziali di questa forma di ‘’giustizia privata’’ erano le seguenti: in caso di licenziamento ai sensi dell’articolo 2118 era previsto un primo passaggio consistente in un tentativo di conciliazione, fallito il quale si poteva far ricorso ad un Collegio (costituito da tre membri di cui due indicati rispettivamente dall’organizzazione sindacale a cui il lavoratore era iscritto o aveva conferito mandato e dall’associazione datoriale ed un terzo estratto per sorteggio da una lista comune), il quale, dopo aver esperito inutilmente un ulteriore tentativo di conciliazione, pronunciava il proprio lodo.
Nel caso in cui fossero riconosciute le ragioni del lavoratore, il Collegio invitava (platonicamente) il datore a riassumere il dipendente o, in caso di suo (normale) rifiuto, a versare una penale da un minimo di cinque ad un massimo di otto mensilità (nelle aziende che occupavano da 36 a 80 lavoratori le penale veniva ridotta rispettivamente a 2,5 mensilità e a quattro mensilità, mentre nelle imprese fino a 35 dipendenti poteva aver luogo soltanto un ‘’esame conciliativo’’ in sede aziendale. In caso di licenziamento per giusta causa, il datore poteva chiedere, in attesa della sentenza del giudice, la sospensione della procedura che veniva ripresa successivamente nel caso di condanna del datore stesso. Riassunta in estrema sintesi la procedura, è il caso di valutarne il funzionamento effettivo.
Ci aiuta in questa ricerca storica una pubblicazione de il Mulino del lontano 1968: ‘’La disciplina dei licenziamenti nell’industria italiana (1950-1964)’’ a cura del ‘’Gruppo di lavoro sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro delle Università di Bari e Bologna (ovvero le scuole di Gino Giugni e Federico Mancini)’’, con una lunga introduzione di Umberto Romagnoli. La raccolta sistematica dei dati dell’esperienza inerente all’applicazione dell’accordo del 1950 ‘’ha definitivamente chiarito che il baricentro della tutela contro i licenziamenti ad nutum si è spostato dal livello arbitrale dove sembrava situato, a quello della conciliazione in sede intersindacale o in sede di collegio arbitrale’’. Il che – secondo Romagnoli – ha provocato una grossa delusione, soprattutto a chi sperava (e non erano pochi) che i lodi emersi in sede arbitrale avrebbero dato luogo ad una ‘’catena di precedenti’’ suscettibili di dettare le linee della nuova disciplina del recesso ad nutum’’.
La percentuale dei responsi arbitrali fu davvero modesta: nella capitali del c.d. triangolo industriale (Torino, Milano, Genova) aveva riguardato il 6% dei 2.997 ricorsi proposti nel periodo 1950-1964 (con una punta massima del 13,6% a Genova ed una minima del 2,5% a Torino). La percentuale più numerosa di lodi si registrò (21% dei 1.616 ricorsi) nel 1951 per scendere negli anni successivi. Il numero dei lavoratori assistiti dalla Cgil era pari al 70-75% mentre la Cisl era presente nel 15-20% dei casi. Ad eccezione dei primi tre anni i licenziamenti ritirati si mantennero sempre ad un livello modesto, intorno al 3-4% e anche meno. Riflettendo sui dati riguardanti il passaggio della controversia non conciliata in sede sindacale al Collegio, Umberto Romagnoli scrive che ‘’è più probabile pensare ad una definitiva consacrazione voluta dalle parti (sindacati operai ed associazioni industriali) del Collegio come seconda ed ulteriore fase di tentativo di conciliazione dopo la fase propriamente sindacale’’. Tuttavia, ‘’tra tutela nelle forme contrattualmente previste e assenza di tutela è possibile esprimere un giudizio globale in termini moderatamente positivi’’.
Giuliano Cazzola