Sul fronte sociale – è bene ricordarlo – è allarme rosso. I più recenti dati Istat mostrano una recrudescenza del fenomeno. Con un crescente aumento degli inattivi – di coloro cioè che il lavoro nemmeno lo cercano più – anche se possono dare l’illusione di una minore disoccupazione. Nel solo mese dello scorso dicembre, il numero degli occupati è diminuito di 100 mila unità. E si guarda con trepidazione al prossimo marzo, quando scadrà la CIG Covid. Di quanto salirà il tasso di disoccupazione? Sarà quello tsunami che molti temono? 1 milione in più di disoccupati, rispetto ai 2.257.000 censiti nel dicembre 2020?
Fosse così, ma già è così, sarebbe un balzo indietro di oltre 70 anni. Era il 1950, quando Giuseppe Di Vittorio, il leader storico della CGIL, alla conferenza di Roma, indetta per illustrare “il Piano del lavoro” indicava, nella soglia massima di 2 milioni di disoccupati, un limite invalicabile per la tenuta democratica del Paese. Reminiscenze storiche che capitano a proposito. Quella denuncia era stata la risposta democratica ai limiti del Piano Marshall ed alle ubbie comuniste sul “cambio della moneta”, quale premessa di una svolta nella politica economica, riconducibile alle suggestioni della Terza Internazionale.
Nel pensare al Recovery Plan, è bene non dimenticare quegli anni, per non commettere errori analoghi. Che allora il sindacato italiano seppe vedere con grande lungimiranza, anche se poi non riuscì ad incidere, nell’immediato, sul decorso degli eventi. Nell’immediato, perché la nazionalizzazione dell’energia elettrica, divenne realtà, anni dopo, con la nascita del centro sinistra. Quale il segreto, allora? “Il presupposto da cui parte il Piano – spiegava Di Vittorio – è che i problemi economici nazionali che attendono una soluzione organica sono problemi interdipendenti tra loro e non è possibile risolverli a pezzi isolatamente con misure di ripiego. Bisogna avere il coraggio di risolverli nel loro insieme, con una politica unitaria, diversa da quella attuale, più organica, sì da dirigere lo sforzo sui punti più nevralgici e dar l’avvio alla macchina ferma della nostra economia”. Un metodo che, nonostante il trascorrere degli anni, conserva intatto tutto il suo antico valore.
Ed allora il problema strutturale della disoccupazione italiana non si risolve né con le manifestazioni né con i picchetti – ovviamente servono anche quelli – ma con “una politica unitaria, diversa da quella attuale”. Che lo stesso sindacato dovrebbe sforzarsi di elaborare, proprio per supplire all’inedia dei potenti ed all’incapacità delle forze politiche. Del resto non fu Ezio Tarantelli, uomo CISL, ad indicare, tra i primi, come mitigare il processo inflazionistico degli anni ‘70, aggredendo il meccanismo di scala mobile?
Ci sono le premesse? Com’è noto l’Italia congelò gran parte degli aiuti e dei crediti del Piano Marshall per ricostruire le riserve valutarie di Banca d’Italia, necessarie per stabilizzare il cambio della lira, sollevando le critiche degli stessi osservatori americani. Di Vittorio fece sua quella critica: l’Italia – disse – “ha accumulato una riserva valutaria imponente” inoltre “possiede all’estero riserve non utilizzate pari a 576 miliardi e 800 milioni di lire. Tutto questo denaro a che cosa serve, cosa ne fa il Governo? Lo usa per garantire “la stabilità della lira.” Ma “non sarebbe più utile al paese che noi lasciassimo a garantire la difesa della lira 76 miliardi e 800 milioni e spendessimo 500 miliardi restanti per dar vita e lavoro alle famiglie italiane?”
Ma quale lavoro? Ecco l’altra condizione: “Signori non vogliamo i soliti lavori pubblici, non vogliamo un lavoro qualsiasi, ma lavori produttivi e se voi volete condannare i lavoratori a lavori inutili come negli anni passati (spostando terra da un punto all’altro) vi diciamo no, noi vogliamo fare lavori che producono”. Un monito permanente contro gli eccessi di una spesa pubblica improduttiva.
Trasferiamo quei ragionamenti al giorno d’oggi. Dopo la stretta del 2012/13, in parte necessaria a causa della continua perdita di produttività, che aveva creato un grosso buco nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l’industria italiana si era riconvertita, a prezzi di enormi sacrifici. La perdita di valore aggiunto era stata pari a circa il 25 per cento. Una selezione darwiniana che aveva lasciato sul mercato solo le imprese che erano state capaci di reggere alla concorrenza internazionale. Da quel momento, infatti, la tendenza si era invertita.
Rapido il pareggio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti: a partire fin dal 2014, quindi un progressivo surplus. Una media annua del 2,5 per cento del Pil fino ai giorni d’oggi. Ogni anno più di 50 miliardi di euro, per un totale complessivo di oltre 300 miliardi, destinati a tradursi in un eccesso di risparmio che, non trovando il corrispettivo nei necessari investimenti, prendeva la via dell’estero. Mentre il tasso di disoccupazione che, nel gennaio 2014 era pari al 12,8 per cento, scendeva solo lentamente, per giungere, sei anni dopo, al 9 per cento.
Un progresso, seppur leggero: si potrebbe dire. Se nel 2014 il tasso di attività in Italia non fosse stato il più basso di tutta l’UE ed il livello di disoccupazione inferiore solo alla Grecia ed alla Spagna. Per non parlare poi degli altri indicatori: donne, giovani, livelli di povertà e via dicendo. Situazione che non è minimamente cambiata nel 2019, stando almeno ai dati forniti dalla stessa Commissione europea (SWD(2020)275 final). Ed allora l’inevitabile morale. Ma se il sindacato è il primo attore silente di fronte alla catastrofe di queste contraddizioni, chi dovrebbe prendere l’iniziativa? Difficile rispondere. Non resta, pertanto, che ricordare quanto profonda sia quella cultura che oggi risulta dimenticata. E che é giusto tentare almeno di risvegliare.
Gianfranco Polillo