Grande successo dell’Italia in Europa. Arriva un pacco di miliardi come non si poteva nemmeno sperare. Merito della svolta europeista di Angela Merkel che ha consentito di guardare un po’ più in là, di capire cosa conveniva a tutti e non al singolo paese. Un cambiamento sostanziale che rappresenta per tutti una grande conquista, la possibilità di tornare grande tra i grandi, non il singolo paese da solo, ma tutta l’Europa assieme. Finalmente una buona notizia dopo tanti mesi di difficoltà e stenti.
Adesso però, come hanno sottolineato i commentatori, occorre dimostrare di essere all’altezza della scommessa fatta, e non sarà facile. L’Italia deve mettere a punto un programma di interventi fitto, molto fitto, deve indicare non solo i grandi settori nei quali occorre e interessa investire, anche perché questo lo hanno già fatto la Commissione e il Consiglio, ma i singoli atti, indicandone il costo, il cronoprogramma, le modalità attraverso le quali si intende procedere. E questi piani dovranno essere credibili, altamente credibili, perché avremo addosso gli occhi non solo dei “frugali”, ma degli organi comunitari che certo non faranno sconti.
Da Palazzo Chigi è arrivata l’idea di costituire alla presidenza del Consiglio una nuova task force per costruire questo piano e c’è da scommettere che sono nati progetti alternativi e gelosie. Comunque sia, si tratta di un impegno notevole, assai difficile. E questo sarà solo l’inizio perché poi si tratterà di realizzare questo maxipiano una volta che sia stato messo a punto e approvato. E qui il cammino si fa ripido, perché la nostra storia è costellata dall’affastellarsi di residui passivi, soldi che si sono accumulati e che abbiamo dovuto restituire perché non siamo stati in grado di spendere le risorse messe a disposizione dai piani strutturali europei. Il compito insomma è assai complesso e non è facile farvi fronte. Per questo la cosa più intelligente ci sembrerebbe cercare l’aiuto di tutti i protagonisti della vita economica e sociale.
Torna, prepotente, l’urgenza di un grande patto sociale a carattere triangolare che faccia proprio questo, metta questi protagonisti d’accordo su cosa fare e come farlo. Ma è possibile questo patto? Formalmente nessuno è contrario, nei fatti però nessuno si muove per farlo. I sindacati sarebbero d’accordo, sembrano d’accordo, ma certo non si sbracciano per arrivarci, non mettono gli altri con le spalle al muro, costringendoli quanto meno a dire che non sono d’accordo. La Confindustria parla di democrazia contrattata, cioè la volontà di prendere le decisioni non in maniera autocratica ma, appunto, dopo un reale confronto, come quelli che si svolgono ai tavoli negoziali. Sembrerebbe una disponibilità a trattare, ma è sempre la Confindustria ad avere annunciato che a settembre produrrà una serie, ampia, di proposte per il rilancio dell’economia. Il che significherebbe che le proposte per la ripartenza non vuole discuterle con il sindacato, ma solo con il governo.
Insomma, non si capisce dove gli industriali vorrebbero arrivare, e Carlo Bonomi, il loro presidente, non si esprime. Qualcosa trapela, peraltro, e pare che emerga una certa insofferenza nei confronti di una nuova riedizione di patti sociali. Perché, sostengono, di patti ne sono stati fatti molti in questi anni. L’ultimo, il Patto della fabbrica, ha poco più di due anni e contiene indicazioni estremamente interessanti su argomenti centrali delle relazioni industriali e delle relazioni economiche, ma in buona parte non è stato applicato. Perché allora cercare un’altra negoziazione, dicono, se i problemi sono quelli, ma non si riesce ad andare oltre le parole? In tema di contrattazione, ma soprattutto di rappresentanza, sono stati raggiunti accordi molto importanti, che avrebbero potuto cambiare la realtà profonda delle relazioni industriali, ma poi tutto è rimasto sulla carta. Di qui la ritrosia ad avviare una nuova contrattazione che poi fatalmente arriverebbe alle stesse conclusioni.
Tutto inutile, dunque? In realtà non sembra proprio così, per diverse ragioni. Innanzitutto perché i patti che in questi anni Confindustria e i sindacati hanno stretto sono stati tutti bilaterali, tra i rappresentanti delle imprese e quelli dei lavoratori. Ma adesso si tratterebbe, sempre che ci si arrivi, di mettere in piedi una trattativa triangolare, con le parti sociali, ma anche con il governo. E allora forse quegli accordi che non si sono tradotti in fatti potrebbero invece essere applicati. L’accordo per la rappresentanza, per esempio, non è mai decollato, e sono sei anni e mezzo che è stato sottoscritto, perché servirebbe una legge che renda obbligatoria la consegna dei dati necessari per calcolare l’indice di rappresentatività, ma da un lato il governo non ha interesse ad approvarla, dall’altra le parti sociali non si fidano della politica e non premono perché il Parlamento si pronunci. Lo stesso vale per la partecipazione e in generale per tante materie delicate, sulle quali un accordo non è impossibile, ma, appunto, va cercato con pazienza e determinazione.
Ma, più in là, un accordo a tratto generale sarebbe necessario per mettere a punto il programma di interventi strutturali che l’Europa ci chiede. Un accordo non facile. Basti pensare all’intervento che ci è stato richiesto per modernizzare la pubblica amministrazione, compito più che complesso, che sarebbe illusorio avviare senza il conforto e la partecipazione dei sindacati. Gli interessi in gioco sono tanti e non possono essere trascurati, devono essere discussi, confrontati, per arrivare a una decisione finale a carattere generale. Se ci riuscissimo avremmo fatto un passo decisivo verso il traguardo finale, quello di meritarci aiuti consistenti, che nessuno può snobbare, come pure improvvidamente qualcuno si ostina a fare in una sterile battaglia di retroguardia.
Massimo Mascini