Guardando il comportamento delle forze politiche e sociali del nostro paese, la sensazione che si prova è che nessuno abbia capito quale sia la posta in gioco. Perché la verità è che il nostro paese si sta giocando in questi giorni il proprio futuro. Dalle scelte che verranno fatte nel prossimo futuro, non dopodomani, ma oggi, tra pochissimo, dipende infatti la qualità della nostra vita, la nostra sopravvivenza, almeno nelle forme alle quali siamo abituati, la nostra collocazione internazionale. Le scelte sociali ed economiche che ci attendono sono di prima rilevanza.
Forse non è giusto dire che nessuno si renda conto di cosa stia accadendo, forse esiste una sensazione, più o meno diffusa, sull’importanza di queste scelte. Non a caso più o meno tutti, le forze politiche, ma anche quelle sociali, parlano dell’opportunità di arrivare a un grande patto sociale che riequilibri le nostre forze e indichi le riforme da attuare. Tanto più dopo che dalla sponda europea sono state promesse risorse finanziarie di grande entità. Ma la verità è che nessuno fa un passo vero, concreto in questa direzione.
Non lo fa il governo, che dal momento degli Stati generali parla con le forze sociali in modo episodico, mai con la dovuta attenzione, mai con la determinazione che servirebbe. Non lo fa Confindustria, che sembra non aver ancora preso una decisione verso quale obiettivo dirigere la sua azione. Confindustria che quasi nello stesso tempo attacca il governo, quasi volesse cacciarlo da Palazzo Chigi, ma poi chiede a questo stesso governo di stringere un grande patto sociale che guardi al futuro.
E non lo fa nemmeno il sindacato che sembra legato a schemi del passato, che stenta a prendere le decisioni giuste per un nuovo corso che lo renda più capace di rappresentare appieno i lavoratori, abbandonando le derive corporativistiche che si palesano concretamente.
Se questa è la situazione, è facile dire che serve un cambiamento. Il salto tecnologico che stiamo vivendo fornisce forse l’occasione giusta per questo passo in avanti, ma non è da solo sufficiente. Come non bastano, da sole, le risorse che l’Europa ci mette a disposizione. Occorre creare un campo largo di forze riformiste, che vada al di là delle forme partitiche esistenti, che sia soprattutto plurale, ossia capace di aggregare tutte le disponibilità esistenti, coagularle e renderle efficienti per consentire il salto richiesto. I 209 miliardi di euro della Commissione Ue rappresentano il terreno sul quale provare a immaginare questo nuovo campo. Un’opportunità fondamentale per il nostro paese, un regalo che ci viene paradossalmente dalla contingenza terribile che stiamo vivendo, la pandemia, che ha fatto del male, ma ci ha consegnato questa opportunità che forse non meritavamo.
Creare questa alleanza non è compito facile, al contrario appare difficilissimo, perché si tratta di superare abitudini e stati d’animo radicati, di compiere quel salto di cui dicevamo prima, complesso soprattutto per chi non è abituato al cambiamento. Servono certezze e queste possono venire solo da un’azione di verità, difficile, ma ineluttabile.
Come quelle alle quali, per esempio, è chiamato il sindacato sul terreno dell’unità. Di quell’organica, il passaggio a una sola organizzazione, nessuno parla più da tempo e forse non è il momento per riprendere il discorso. Ma una maggiore unità d’azione è possibile. La scomparsa delle grandi divisioni ideologiche da guerra fredda, quelle che portarono alla nascita delle tre confederazioni, non è sufficiente per tornare a pensare all’unità, perché restano e pesano le grandi differenze di cultura sindacale. Ma allora sarebbe necessario individuare un terreno di cultura unitaria che aiuti il sindacato nel suo insieme a tornare davvero unito. Si tratta di sperimentare qualcosa di nuovo, magari liberandosi dei fardelli del passato che sono diventati altrettanti ostacoli alla crescita.
Uno per tutti, il sistema contrattuale salariale. Tutta l’impalcatura contrattuale in vigore è fondata sull’inflazione, come calcolarla, come recuperarla, come superarla, ci si batte da decenni su questi temi. Ma l’inflazione non c’è più, non c’è stata negli ultimi anni ed è improbabile che ritorni tra noi. Il problema semmai è rovesciato, è capire come tornare ad avere crescita dei prezzi per poter far decollare l’economia nel suo complesso. La Bce se ne è accorta, il sindacato no e continua a battersi su questi temi, sprecando le proprie energie vitali. Dovrebbe inventarsi una nuova formula, non è facile, ma nemmeno impossibile.
Il problema è su chi debba fare il primo passo per avviare questa azione di cambiamento, chi debba dare il via a questa nuova stagione di decisioni collegiali. Forse dovrebbe essere il governo a muoversi. Il governo che ha il dovere di dialogare con tutti, con i partiti di maggioranza, ma anche con quelli dell’opposizione, perché da tutti può venire un’indicazione preziosa e nessun aiuto può essere snobbato e perché questa è la democrazia. Ma che soprattutto deve riuscire a individuare e formare questo campo nuovo e plurale di forze riformiste capaci di portare il paese fuori dalle secche sulle quali sembra essersi arenato. Realizzando le riforme difficili, quelle che costano, adesso che abbiamo le risorse necessarie, ma senza dimenticare le altre riforme, quelle che non costano niente e che però lo stesso non sono state finora fatte, forse proprio perché erano difficili, perché erano capaci di scardinare le vecchie abitudini, le vecchie incrostazioni. Ma adesso proprio questo serve, trovare il nuovo, con forza e determinazione. Sembra ed è difficile, ma ce la possiamo fare.
Massimo Mascini