È la cronaca di un disastro annunciato. Entro Pasqua, il governo dovrebbe finalmente spiegare come intende rilanciare Alitalia. Ma il salvataggio della ex compagnia di bandiera è manifestamente impossibile, certamente inutile, probabilmente controproducente. L’ultimo colpo di piccone è venuto dal ritiro di un colosso del low cost, EasyJet, dal progetto. Tutto l’impianto strategico del salvataggio, già precario e pericolante, è adesso proteso nel vuoto.
L’idea industriale su cui si fondava il progetto caro a Luigi Di Maio era, infatti, quella di una sinergia fra il treno e l’aereo, dove il breve e medio raggio (EasyJet) si collega ai voli intercontinentali (gli americani della Delta). Il progetto, basato su premesse speciose, non sta in piedi. Ferrovie e Alitalia sono direttamente concorrenti. La crisi della compagnia aerea si è aggravata proprio da quando l’alta velocità le ha sottratto la rendita del monopolio sulla tratta Roma-Milano. In ogni caso, solo un passeggero su sei, in Italia, vola Alitalia e uno su dodici dall’Italia verso l’estero. Se sinergia treno-aereo esiste, le Fs dovrebbero trovare un accordo con tutte le compagnie, altrimenti mancano i numeri. Così, del resto, avviene in Francia e Germania. Il problema principale, comunque, viene dopo. Si tratta di reclutare passeggeri e EasyJet avrebbe consentito di raddoppiare il traffico dell’Alitalia. Ora, invece, senza la compagnia inglese, il pacchetto di potenziali passeggeri che il progetto Di Maio porta in dote ai voli Delta si dimezza e, infatti, gli americani hanno già fatto capire di non voler andare al di là di un 10 per cento del capitale della nuova e futura Alitalia, mentre, fino a ieri, si parlava di un 20 per cento: un po’ di passeggeri in più non guastano, nei conti della compagnia di Atlanta, ma a condizione che costino poco. Il 10 per cento corrisponde ad un impegno di 150 milioni di euro (più o meno l’equivalente di un nuovo aereo) nel caso di un capitale di un miliardo e mezzo per la nuova società.
Mettere insieme un miliardo e mezzo, tuttavia, sembra uno sforzo troppo alto per quello che è già stato definito un caso di accanimento terapeutico. Negli ultimi 10 anni, l’Alitalia è stata già salvata dal fallimento quattro volte. Nel 2008, quando Berlusconi, invece di stappare champagne per essere riuscito a mollarla ad Air France, mise insieme i “capitani coraggiosi” che, nel 2014, furono già costretti a reclutare le Poste perché si caricassero un 20 per cento del capitale. Senza successo, perché, tre anni dopo, la compagnia era nuovamente alla frutta e costretta a chiamare in soccorso Etihad. Nuovo salvataggio, fracassatosi nel 2017, quando è stato necessario, per evitare la bancarotta, il commissariamento, con prestito di 900 milioni del Tesoro. L’azienda, nei fatti, anche se non pubblicamente, è andata, a questo punto, all’asta, ma non si è fatto avanti nessuno.
Il motivo è abbastanza semplice. Alitalia perde un milione di euro al giorno. Ha tuttora troppi dipendenti (11 mila) per essere una compagnia piccola e agile. Ma ha troppi pochi aerei e mezzi per essere un attore importante sui voli intercontinentali ed esercitare il ruolo di compagnia di bandiera. Non è una tragedia. Belgio e Svizzera si sono accorte di poterne fare tranquillamente a meno e, in fondo, anche Gran Bretagna e Spagna, dopo la fusione British Airways e Iberia, non hanno più una compagnia di bandiera. Quanto ai dipendenti, per quanto i tempi possano essere difficili, il traffico aereo è uno dei pochi settori che tirano e assumono.
Il governo, tuttavia, non ha voluto seguire la strada suggerita dalla Lufthansa: i tedeschi si caricherebbero la compagnia, sgravando il governo (anzi, specificamente non lo vogliono), ma tagliando a metà dipendenti e flotta e ridimensionando, di fatto, l’Alitalia ad azienda regionale, che ritengono il suo orizzonte più realistico. Ma, adesso, con il ritiro di EasyJet, le somme del contropiano del governo sono appese per aria. Le Fs (che non possono dire di no, sono 100 per cento del Tesoro) prenderebbero il 30 per cento della nuova compagnia. Delta il 10 per cento. Il Tesoro, convertendo una parte del prestito di cui, in questi mesi, sta vivendo la compagnia, il 15 per cento. E il 45 per cento che manca, 6-700 milioni almeno? Leonardo, Cassa Depositi e Prestiti, Poste si sono già tirate indietro. Si è parlato di Fincantieri, ma l’idea di un’altra sinergia, questa volta aereo-nave, puzza di ridicolo. Si è parlato anche di fondi di investimento, ma è vitale una compagnia in cui il partner industriale, quello chiamato a gestirla concretamente e a prendere le decisioni operative per cui pagheranno tutti, ha solo il 10 per cento?
Ammesso, comunque, che alla fine si trovi chi mette questo 45 per cento del capitale, chi dà a Fs 450 milioni di euro per il 30 per cento su cui si è impegnata? L’azienda fa profitti (500 milioni l’anno), ma grazie ai finanziamenti statali (3 miliardi l’anno). Ha emesso obbligazioni per 7 miliardi di euro, ad un tasso che, probabilmente, in caso si imbarchi sull’Alitalia, non sarebbe più sostenibile e, soprattutto, ripetibile. Quindi, se non può indebitarsi ancora, o riceve più soldi dallo Stato (ma allora l’intervento in Alitalia non è più, come vuole Bruxelles, di mercato), o aumenta il costo dei biglietti o riduce gli investimenti. In tutti e tre i casi, è il quinto salvataggio in dieci anni a carico degli italiani. Con il rischio concreto che, ad andarci di mezzo, siano i 6 miliardi di euro destinati ai treni dei pendolari. Le Fs giurano che gli investimenti già previsti non saranno colpiti, ma non hanno ancora spiegato dove prenderanno i soldi.
Maurizio Ricci