Comincia questa settimana, il 23, l’iter che porterà all’elezione del nuovo presidente di Confindustria. Vincenzo Boccia ha fatto i suoi quattro anni, a maggio c’è il cambio della guardia. Teoricamente non ci sono candidati perché solo a metà della prossima settimana, a norma di statuto, sarà possibile avanzare delle candidature. In realtà, già molti scalpitano, chi da più, chi da meno tempo. Andrea Illy, Licia Mattioli, Giuseppe Pasini, Carlo Bonomi. Sono questi i nomi che girano, ma altri ancora sono indicati da più parti, proprio perché la corsa vera e propria non è ancora iniziata. C’è da credere che alla fine, come di abitudine, resteranno in gioco due nomi e su quelli si farà la scelta definitiva.
Il primo a muoversi è stato Bonomi. Anche se in realtà non ha mai fatto pubblicamente cenno alla possibilità di candidarsi alla presidenza degli industriali, il taglio di tutti i suoi interventi come presidente di Assolombarda, da almeno due anni, non ha mai lasciato dubbi sulla sua volontà di approdare alla guida di viale dell’Astronomia. La levatura dei suoi discorsi, delle sue prese di posizione, è sempre stata molto alta, centrata sul chiedere un ruolo per Confindustria adeguato al suo passato e alla sua forza nella società. Una necessità perché da anni, per vari motivi, Confindustria non ha rivestito il ruolo che le compete, ha vissuto spesso in un cono d’ombra, soprattutto politico, che né ammorbidito la forza degli interventi, creando un danno oggettivo al comparto industriale.
Sia chiaro, la confederazione negli anni non ha mai smesso di esercitare una fortissima azione di lobbying che ha consentito di portare a casa risultati di eccezione. Per tutti gli anni in cui il Pd era al governo, dal 2013 in poi, le leggi importanti sulla materia economica sono state scritte nelle stanze di governo, ma in sostanza da uomini di Confindustria per tutelare gli interessi del comparto. La confederazione aveva perso il ruolo politico, specie sotto gli anni di Renzi, ma i risultati concreti acquisiti erano lo stesso importanti. Più dura è stata la stagione del governo gialloverde, perché i 5Stelle sono fondamentalmente nemici dell’industria, come del resto lo sono dello sviluppo economico, e non potevano non scontrarsi con Confindustria, che ha finito per fare la parte del vaso di coccio costretto a viaggiare con vasi di ferro. Gli anni della disintermediazione, iniziati con Renzi, non si sono certo fermati con l’esperienza successiva.
E’ stato così che Confindustria ha perso peso politico, più delle confederazioni dei lavoratori; anche perché la rappresentanza degli industriali ha dimenticato un po’ della sua autonomia quando si è schierata politicamente. Un errore madornale, che non dovrebbe essere commesso mai perché le conseguenze negative non si fanno attendere. È successo certamente quando il Centro Studi di Confindustria sostenne il referendum costituzionale di Renzi, affermando che la sconfitta a quella prova referendaria sarebbe costata al paese la perdita di alcuni punti di Pil. Ma non sono state da meno le uscite di Boccia a sostegno della Lega. Il presidente si giustificò affermando che non poteva non applaudire chi portava avanti tesi da sempre sostenute dagli industriali: ma la buona politica prevede proprio di non schierarsi mai, perché l’autonomia è l’unica vera forza degli attori sociali.
A difesa della presidenza di Boccia c’è certamente da citare il Patto della fabbrica, l’accordo di due anni fa con Cgil, Cisl e Uil, che ha, o avrebbe, risolto problemi di fondo, la contrattazione e la rappresentanza, e contiene indicazioni molto importanti e lungimiranti. Ma c’è da dire che quell’accordo comunque è arrivato tardi, molto tardi, dopo che sugli stessi argomenti i sindacati avevano raggiunto intese rilevanti con commercianti, artigiani, piccole imprese. E comunque quell’accordo, pur valido, o forse proprio per questo, non è servito ad allineare i comportamenti delle categorie, che spesso hanno continuato a seguire le loro strade senza tanti complimenti alle indicazioni della loro confederazione.
Adesso c’è bisogno di una presidenza forte, alla guida di un’organizzazione altrettanto forte. E per avere questo risultato l’unica strada è quella dell’unità. Perché tutti i guai di Confindustria vengono dal fatto che gli ultimi due presidenti, Boccia e prima di lui Giorgio Squinzi, al momento della loro elezione non sono stati in grado di ottenere che una maggioranza assolutamente risicata: metà della confederazione con un candidato, l’altra metà con il suo antagonista. Con il risultato di indebolire il presidente e, quindi, tutta la confederazione. La divisione non è mai finita, perché dietro c’erano due visioni diverse del compito e del ruolo di Confindustria. Divergenze legittime, che però hanno indebolito l’organizzazione, nei confronti dell’esterno, ma soprattutto all’interno. Adesso il gioco deve finire, anche perché se il peccato più forte del nostro paese (ma in generale di tutto l’occidente) è lo scadimento qualitativo della classe dirigente, una presidenza di Confindustria forte può in parte rimediare a questo stato di cose, può avere ripercussioni sull’intera società, come si è dimostrato quando le parti sociali sono state chiamate a sostenere il paese e hanno retto l’urto dello tsunami che lo stava investendo grazie proprio a quelle coraggiose espressioni della società civile. Quell’esperienza oggi può ripetersi, ma servono gli uomini giusti.
Massimo Mascini