Marco Cianca non c’è più. Stamattina un male terribile ce lo ha portato via. Ha lottato, come faceva sempre, ma non ce l’ha fatta. Il male è stato più forte. E adesso dobbiamo imparare a vivere senza il nostro Guardiano del faro, che dalle colonne de Il diario del lavoro ogni settimana ci ricordava cosa fosse giusto, per cosa dobbiamo batterci. Un uomo giusto, buono, colto, simpatico, ironico. Un grande giornalista che aveva amato il suo giornale, il Corriere della sera, ma che era felice di scrivere sul nostro piccolo giornale, che lui considerava un’isola di libertà. Tutte le settimane lo ringraziavo per l’articolo, bellissimo, che ci mandava a metà settimana e tutte le settimane mi rispondeva che era lui che ci ringraziava perché ospitavamo i suoi pezzi. La sintonia che ci univa era perfetta, cementata negli anni, tanti, di lavoro in comune. Io dicevo sempre che lui era il mio caporedattore e la gente non capiva. Lui stava al Corriere, dicevano, tu al Sole, perché era il tuo caporedattore? Ma lo era perché io tutti i giorni normali, nei quali non c’erano evenienze, quando nel primo pomeriggio arrivavo al giornale la prima cosa che facevo era telefonargli. Marco, gli dicevo, che c’è da fare oggi? E lui, che da ore stava sul pezzo, mi diceva che c’era questo, o quest’altro. Noi cosa facciamo? gli chiedevo. E lui mi diceva cosa era meglio. Ma, gli chiedevo ancora, andiamo a vedere o scriviamo dal giornale? No, no, rispondeva, andiamo. Bene, allora ti passo a prendere. E lo passavo a prendere. Così, anni e anni. L’amicizia fa presto a nascere e a cementarsi.
Non sarà facile abituarsi a vivere senza di lui. Era con lui che mi confidavo, a lui affidavo i miei dubbi e i miei problemi, quelli personali e quelli di lavoro. Quando volevo approfondire un argomento, quando dovevo scrivere un pezzo difficile, ostico, lui chiamavo, con lui ne parlavo. E tutto appariva più semplice, a portata di mano. Dovrò abituarmi a fare a meno della sua amicizia, del suo conforto, della sua presenza. Un vuoto terribile, ci lascia soli in un mondo difficile, che lui criticava, ma che amava profondamente. Nel quale non è facile vivere, ma che lui affrontava con il coraggio e la forza che lo hanno sempre caratterizzato. Non era un eroe, era un uomo, fallace come tutti noi, ma aveva dentro un sentimento di forza che lo faceva andare avanti, a non arrestarsi. Con la forza di questo esempio andremo avanti.
Massimo Mascini
La redazione del Diario ricorda Marco Cianca
L’ultimo pezzo per il Guardiano del faro Marco Cianca lo ha dettato tre settimane fa alla sua compagna Laura. Stava già troppo male per riuscire a scrivere, ma assolutamente non voleva bucare l’appuntamento settimanale con il nostro giornale. Poi più nemmeno quello.
Il suo rammarico negli ultimi giorni era non poter essere puntuale con la rubrica, che aveva ideato lui stesso, e che noi aspettavamo di ricevere ogni settimana con grande curiosità. Aveva un suo punto di vista su qualunque cosa, ed era sempre un punto di vista traverso, insolito, inatteso, spiazzante. E mai, mai, mai, banale.
Non mi dilungo sull’affetto, sull’amicizia, sulla conoscenza di decenni, quando lui era una firma del Corriere e io una praticante di agenzia. Però vorrei dire che proprio quelli sono stati forse gli anni più intensi e importanti, per questo mestiere che tanto amiamo. E che Marco ha amato fino all’ultimo minuto della sua vita. Come ogni grande giornalista.
Nunzia Penelope
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Sembrava impossibile ritrovarci qui nella memoria di un uomo della statura umana e intellettuale di Marco Cianca. La grazia con cui ha curato i rapporti con noi, suoi discepoli, il rispetto che profondeva per i nostri punti di vista, la luce che brillava nei suoi occhi ogni qual volta parlava – fosse anche di un’inezia, che poi aveva il potere di rendere una grande storia – sono solo orme del suo passaggio, che pure hanno segnato il nostro percorso.
Il privilegio di aver anche solo sfiorato la sua vita resterà impresso nella nostre persone, era e resterà sempre un faro a illuminare i nostri cammini.
Nell’ora del silenzio, il dolce ricordo in cui rifugiarsi.
Elettra Raffaela Melucci
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Caro Marco, è difficile e doloroso dirti addio. La tua gentilezza, sensibilità, umanità, cultura, la tua bontà che hai sempre dimostrato ci mancheranno.
Mi sei stato accanto quando sono nate le mie figlie. Non perdevi occasione di chiedermi come stavano crescendo, sempre con parole ricche di affetto. Mi hai rincuorato sulle fatiche che un babbo alle prime armi deve necessariamente affrontare.
Mi sei stato vicino in un momento professionale delicato. Mi hai fatto da guida, mi hai incoraggiato, mi hai spronato a non arrendermi. Mi hai accompagnato con la tua fermezza gentile, mostrandomi gli errori, come un buon maestro deve fare, perché solo così potevo migliorare. Mi hai fatto vedere come deve lavorare un bravo giornalista.
Mi mancheranno le nostre telefonate, nella quali un po’ ci preoccupavamo della piega che questo strano mondo stava prendendo. Ci mancherai a tutti Marco, perché il vuoto lasciato da una persona buona è ancora più difficile da colmare.
E mi mancherà anche il Guardiano. Dall’alto del tuo faro hai raccontato come pochi la mutevole e variegata natura umana, mescolando sapientemente rigore e mitezza.
Addio caro Marco. È stato per me un onore e un grandissimo piacere averti conosciuto.
Il tuo amico
Tommaso Nutarelli
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Ciao Marco, ricordo che mi avevi offerto il tuo aiuto per l’esame da giornalista professionista, di mandarti i pezzi. Un grande onore e opportunità, che ho purtroppo rimandato. Adesso sto affrontando quell’esame e questo è il primo pezzo che ti scrivo. Sei stato generoso e un grande ascoltatore, hai sempre dedicato del tempo e attenzione e pronto a consigliare, me ne porterò il ricordo. Non so, sarà perché mi devi ancora delle correzioni, sarà perché la tua rubrica è qui, ma per me ci sei e ci sarai, accanto a tutti noi.
Un abbraccio.
Emanuele Ghiani
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Caro Marco, ci hai lasciato così in fretta. Ricorderò sempre la tua sensibilità, l’affetto e la stima nelle nostre telefonate in cui parlavamo un po’ di tutto, dal lavoro alle cose personali. Mi mancheranno tantissimo.
Mi hai dato tanti consigli e ne farò tesoro. Mancherai tantissimo a tutti noi, de Il diario e non solo. Persone come te, dotate di tanta umanità, sono difficili da dimenticare
Ciao Marco
Cristina Boerio
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Essere senza parole per un giornalista significa perdere il proprio senso di esistere. Non dovrebbe mai capitare, eppure di fronte alla morte del mio amico Marco mi capita. Cosa vuoi che ti dica Marco? Che sei stato un giornalista bravissimo, un uomo generoso, una persona intelligente e spiritosa. Uno che amava i suoi amici di un amore profondo, lo stesso amore che ho sempre provato per te.
Ciao
Riccardo
Ps un grande abbraccio anche dalla jena che ti piaceva tanto.
Riccardo Barenghi
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Omnia sunt communia. Chissà se, quando, all’inizio di settembre, ha raccontato nel suo ultimo pezzo sul Diario (se non l’avete fatto, leggetelo) la straziata morte di Thomas Muntzer e ha ricordato il suo grido-testamento, Marco aveva già messo in conto che non si sarebbe più affacciato a questa finestra.
Omnia sunt communia. Tutto è di tutti, per Muntzer è la drammatica rivendicazione finale di una totale uguaglianza sociale ed economica. Ma, se la si immagina, in quest’ultimo suo tramonto di estate, sulla bocca, sempre piegata allo scetticismo di un sorriso, di Marco, diventa una verità più profonda: la vita di uno è la vita di tutti, la morte di uno è la morte di ognuno. Se non di tutto, di un pezzo di noi, l’oscurarsi di un frammento dello specchio in cui vediamo la nostra immagine.
Seguivo il sindacale per Repubblica, Marco per il Corriere, quando erano le due corazzate nemiche della stampa italiana. Prima di lui, c’era un perfido e perverso piccolo piacere di rivalsa generazionale nel rifilare un buco – quando mi riusciva – al mio dirimpettaio, il buon Silvano Revelli, con il suo cappottone spigato e il cappello di feltro con la piuma nell’era degli eskimo e dei capelli da cocker spaniel, cresciuto registrando scrupolosamente scioperi dei treni ed evoluzioni delle pensioni e ora costretto a battagliare con l’inesauribile energia e l’instancabile onnipresenza dei reporter figli dell’autunno caldo.
Quando apparve Marco, fu chiaro che, anche al venerabile Corriere, era arrivata la rivoluzione. Rivali? Al nostro primo incontro, Marco mi strizzò l’occhio: “Je damo giù?”
Era un cronista scrupoloso, consapevole, più di tutti, che le verità sono quasi sempre sgradevoli. Ma, accentuando la calata romanesca dell’accento, era sempre anche capace di sorriderne. E’ la cosa più difficile e mancherà a tutti.
Maurizio Ricci
Il ricordo di Benedetta Buccellato
Stamattina è morto Marco Cianca, giornalista e scrittore. Aveva 71 anni ed era stato colpito da un tumore inguaribile.
Ero, e rimango, sua amica. E non perché lo conoscessi da una vita, benché fossimo coetanei, ma perché condividevamo valori, analisi, Utopia. Marco era figlio di Claudio, partigiano, dirigente Pci, sindacalista, e dal padre aveva ereditato l’indomita urgenza di democrazia e la radicata allergia a qualsiasi forma di fascismo.
Marco era mite e appassionato e solo conoscendolo si scopriva come mitezza e passione possano non essere ossimori.
Quando muore una persona cara, di cui si ha profonda stima, si rischia la retorica da necrologio e Marco non merita proprio alcuna retorica. Ma che non ci sia più una persona di grande valore e sensibilità, questo va detto. E l’assenza di un amico come Marco peserà per tutto il tempo che ancora vivremo.
Benedetta Buccellato
Il ricordo di Dario Laruffa
Quel che mi ha sempre spiazzato di Marco è che mi stava a sentire, anche di fronte a ragionamenti improbabili. Quando, anni e anni fa, avanzavo azzardate ipotesi su improbabili dinamiche sindacal-confederali? Quando, un po’ dopo, mi lanciavo in spericolate analisi del tipo: “ma è poi così ingiusto il calcolo retributivo delle pensioni?” Sino a qualche settimana fa: “Trump vince? Sì o no?”, mi chiede. Rispondo e oscillo fra l’essere e il voler essere.
E lui, incredibilmente, ora come allora, mi stava a sentire. Perché Marco era curioso. Perché era un amico. Perché Marco aveva fiducia. Non cieca, ovviamente. Ma fiducia nel fatto che del buono che ci circonda si possa godere e che del cattivo che ci angustia si possa aver ragione. Questo ti trasmetteva.
Parlando senza enfasi, mai rinunciando all’ironia, ma anche senza buttar via tempo e parole. Buono, non bonario. Ci sentivamo raramente, purtroppo. Mancherà a un mondo che ha bisogno di giusti.
Dario Laruffa